Codice Civile art. 2621 - False comunicazioni sociali (1) (2).

Rosa Pezzullo

False comunicazioni sociali (1) (2).

[I]. Fuori dai casi previsti dall'art. 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni.

[II]. La stessa pena si applica anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi.

(1) V. nota al Titolo XI.

(2) Articolo sostituito dall'art. 9 l. 27 maggio 2015, n. 69. Il testo recitava: «[I]. Salvo quanto previsto dall'articolo 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, espongono fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, sono puniti con l'arresto fino a due anni. [II]. La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. [III]. La punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5 per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all'1 per cento. [IV]. In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10 per cento da quella corretta. [V]. Nei casi previsti dai commi terzo e quarto, ai soggetti di cui al primo comma sono irrogate la sanzione amministrativa da dieci a cento quote e l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese da sei mesi a tre anni, dall'esercizio dell'ufficio di amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, nonché da ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell'impresa». Precedentemente l'articolo era già stato sostituito dall'art. 30, comma 1, l. 28 dicembre 2005, n. 262. Il testo era il seguente: «[I]. Salvo quanto previsto dall'articolo 2622, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, espongono fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale, o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, sono puniti con l'arresto fino a un anno e sei mesi. [II]. La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti od amministrati dalla società per conto di terzi. [III]. La punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5 per cento o una variazione del patrimonio netto non superiore all'1 per cento. [IV]. In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10 per cento da quella corretta».

Inquadramento

Il reato di cui all'art. 2621 c.c., definito la «pietra d'angolo del diritto penale societario» (Pedrazzi, 1371), è stato oggetto di scelte di politica criminale, ritenute a ragione come «ondivaghe», culminate nella recente novella di cui alla l. 27 maggio 2015, n. 69: ad essa si deve l'attuale formulazione degli artt. 2621, appunto, e 2622 c.c., nonché l'introduzione degli artt. 2621-bis e 2621-ter c.c., con la quale il legislatore è intervenuto ancora sul reato di false comunicazioni delle società (non quotate e quotate), ridisegnandolo. L'obiettivo predicato dal nuovo legislatore è stato quello di reprimere con maggior forza la condotta dell'infedele redazione dei bilanci e delle altre scritture contabili obbligatorie, riportando la disciplina al rigore precedente alla riforma del 2002, nell'ambito, peraltro, della finalità più ampia di prevenzione dei fenomeni corruttivi, in relazione ai quali i dati non veritieri esposti nei bilanci delle società hanno costituiscono spesso uno snodo essenziale per la commissione anche di quei reati.

Tuttavia, a fronte delle finalità indicate dal legislatore, gli emendamenti apportati nel corso dell'iter parlamentare all'iniziale disegno di legge, con l'eliminazione di alcune specificazioni rispetto alla formulazione previgente della norma, hanno indotto a ritenere – ad una prima lettura del testo della norma – che la portata delle condotte penalmente rilevanti fosse stata addirittura ridotta, non solo rispetto alla formulazione ante 2002, ma addirittura anche rispetto alla versione in vigore negli ultimi tredici anni, creando rapidamente un contrasto interpretativo all'interno della S.C., risolto con la pronuncia delle Sezioni Unite Cass. S.U., n. 22474/2016, di cui si darà ampiamente conto.

Il reato di false comunicazioni sociali, nella sua attuale formulazione, è un reato che tutela «la trasparenza dell'informazione societaria» (Seminara, 817), alla quale sono tenuti gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori della società. Le condotte disciplinate dalla norma sono integrate sia con l'esposizione consapevole di «fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero», sia con l'omissione dell'esposizione di «fatti materiali rilevanti» la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.

Il delitto di false comunicazioni sociali ante e post riforma del 2002

L'evoluzione normativa ed applicativa del reato di false comunicazioni sociali è riconducibile ad almeno tre fasi: la prima – dai primordi e sino agli anni '80 – di (tendenziale) «letargo» giurisprudenziale, dove il principale tra i reati societari ha avuto una applicazione piuttosto sporadica e puntiforme (Napoleoni, 2411); una seconda fase, di notevole espansione applicativa, dovuta alla diffusione dei fenomeni corruttivi e alla loro emersione sul fronte giudiziario (Giunta, 146); una terza fase, nuovamente caratterizzata da scarsa tenuta applicativa, a seguito della riforma operata con il d.lgs. n. 61/2002 (sulla base della legge delega n. 366/2001) che ha fortemente ridotto la risposta punitiva aprendo ad una vera e propria depenalizzazione di fatto del mendacio societario (Crespi, 1359).

In effetti, la disciplina introdotta con il d.lgs. n. 61/2002 era subito apparsa tale da approntare una risposta sanzionatoria, da un lato, sostanzialmente bagatellare, dall'altro di dubbia effettività e dissuasività, e comunque, nel complesso incapace di offrire un adeguato argine di tutela alla corposità degli interessi in gioco, anche perché pesantemente condizionata dalla brevità dei termini prescrizionali (trattandosi di fattispecie contravvenzionale), dalla procedibilità a querela (prevista nell'ipotesi delittuosa, in relazione alle società «non quotate», ai sensi dell'art. 2622, comma primo), dal sistema delle «soglie di rilevanza», scandite da precisi riferimenti percentuali al di sotto dei quali la falsità realizzata diveniva «quantità trascurabile» (Manes, 8; Crespi, 1345).

Tale assetto è rimasto sostanzialmente invariato sino alla riforma del 2015, posto che le modifiche intervenute medio tempore hanno interessato solo aspetti specifici e limitati, senza alterare la struttura complessiva dell'intervento repressivo sul falso societario.

Di scarsa significatività, infatti, sono state le modifiche apportate dalla l. n. 262/2005: da un lato, l'inclusione nella sfera dei soggetti attivi dei «dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari» e, dall'altro, l'introduzione di peculiari sanzioni amministrative per le condotte di mendacio societario aventi ad oggetto una somma inferiore alle soglie percentuali di rilevanza (art. 2621, comma 4; art. 2622, comma 9); parallelamente, variazioni sanzionatorie poco o nulla incisive in entrambe le fattispecie di reato (Manes, 9).

Sicché, con l'entrata in vigore della c.d. legge anticorruzione (l. n. 69/2015) il legislatore ha inteso superare le critiche nate dalla precedente depenalizzazione delle fattispecie di reato derivanti dalle false comunicazioni sociali, tentando di rivitalizzare le stesse e di renderne, inoltre, più organica la disciplina (Perini, 2).

Questo il quadro normativo.

Ante 2002.

L'art.  2621 c.c., nella sua versione antecedente alla riforma del 2002, era rubricato «False comunicazioni ed illegale ripartizione di utili o di acconti sui dividendi», e recitava: «Salvo che il fatto costituisca reato più grave, sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da lire due milioni a venti milioni: 1) i promotori, i soci fondatori, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali nelle relazioni, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali, fraudolentemente espongono fatti non rispondenti al vero sulla costituzione o sulle condizioni economiche della società o nascondono in tutto o in parte fatti concernenti le condizioni medesime; 2) gli amministratori e i direttori generali che, in mancanza di bilancio approvato o in difformità da esso o in base ad un bilancio falso, sotto qualunque forma, riscuotono o pagano utili fittizi o che non possono essere distribuiti; 3) gli amministratori e i direttori generali che distribuiscono acconti sui dividendi: a) in violazione dell'art. 2433-bis, primo comma; b) ovvero in misura superiore all'importo degli utili conseguiti dalla chiusura dell'esercizio precedente, diminuito delle quote che devono essere destinate a riserva per obbligo legale o statutario e delle perdite degli esercizi precedenti e aumentato delle riserve disponibili; c) ovvero in mancanza di approvazione del bilancio dell'esercizio precedente o del prospetto contabile previsto nell'art. 2433-bis, quinto comma, oppure in difformità da essi, ovvero sulla base di un bilancio o di un prospetto contabile falsi».

Una delle questioni più dibattute dalla dottrina e dalla giurisprudenza nella vigenza del riportato testo normativo è stata quella della rilevanza delle «valutazioni» presenti in un bilancio, a fronte della descrizione del comportamento antigiuridico come di «esposizione di fatti» non rispondenti al vero sulle condizioni economiche della società.

In contrapposizione alla tesi (minoritaria) della irrilevanza del falso in valutazioni di bilancio si affermava che, essendo il momento valutativo una componente qualificante e caratteristica del bilancio, avente normalmente funzione di filtro della indicazione dei dati e degli accadimenti oggettivi, sarebbe stato necessario procedere ad una lettura estensiva del termine «fatti», comprensiva anche dei «fatti psichici», relativi alla vita interiore del dichiarante, nell'àmbito dei quali avrebbero dovuto essere collocate, «incontestabilmente», anche le valutazioni.

A queste considerazioni se ne aggiungeva un'altra secondo la quale l'interpretazione che voleva giungere alla esclusione della rilevanza penale delle false valutazioni sarebbe stata contraria alla stessa ratio della previsione di cui all'art. 2621 n. 1 c.c. ed avrebbe comportato il rischio di una vera e propria interpretatio abrogans della norma in questione (Biondi, 2124).

Inoltre, ponendo l'accento sul significato profondo dell'espressione «espongono fatti non rispondenti al vero», veniva posto in evidenza come la nozione di esposizione potesse assumere una «ricca polivalenza di significati», fino a ricomprendere affermazioni meramente descrittive, classificatorie od anche valutative, cosicché il discrimine tra i concetti di «fatto», di «esposizione di un fatto» e di «valutazione» non era «per nulla nitido e preciso», ma «si appalesa(va) all'incontro oltremodo labile, se non addirittura evanescente» (Perini, 4).

Sul fronte della applicazione giurisprudenziale, invece, mentre, da un lato, si riproponevano nella sostanza le contrapposizioni dottrinali, dall'altro si era pervenuti ad un orientamento di gran lunga dominante che riferiva la fattispecie di cui all'art. 2621 n. 1 c.c. alle valutazioni contenute nei bilanci solo in via d'eccezione alla regola della loro generale irrilevanza. Le ipotesi in presenza delle quali, ad opinione della giurisprudenza, era possibile derogare all'interpretazione sistematica della fattispecie – che escludeva, appunto, dal novero dei «fatti non rispondenti al vero» le valutazioni – consistevano in quelle in cui la valutazione fosse a tal punto lontana dalla «realtà» economico/contabile della società da apparire assolutamente irragionevole. L'elaborazione del criterio della ragionevolezza, quale discrimen tra la eccezionale rilevanza e la irrilevanza penale delle valutazioni di bilancio, avvenuta dapprima in modo piuttosto graduale, si è rivelata una vera e propria svolta negli orientamenti giurisprudenziali relativi alle false comunicazioni sociali: ogniqualvolta la assoluta carenza di ragionevolezza dell'apprezzamento discrezionale sfociasse in artifizio la valutazione veniva considerata alla stregua di un «fatto» e, dunque, penalmente rilevante (Cass. pen. V, n. 7918/1993; Cass. V, n. 8984/2000).

Post 2002.

Con le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 61/2002 e dall'art. 30, comma 1 della l. n. 262/2005, il reato di false comunicazioni sociali previsto dall'art. 2621 c.c. risultava così disciplinato: «Salvo quanto previsto dall'articolo 2622, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori, i quali, con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, espongono fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale, o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, sono puniti con l'arresto fino ad un anno e sei mesi. La punibilità è estesa anche al caso in cui le informazioni riguardino beni posseduti od amministrati dalla società per conto di terzi. La punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all'1 per cento. In ogni caso il fatto non è punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10 per cento da quella corretta».

Mettendo a confronto i testi normativi, emerge come si sia passati dalla previsione ante 2002 del reato ex art. 2621 c.c. come delitto – attraverso il quale si intendeva perseguire l'esposizione fraudolenta nelle comunicazioni sociali di «fatti non rispondenti al vero», ovvero l'«omissione di informazioni» sulle condizioni economiche della società, abbraccianti in ipotesi un ventaglio abbastanza ampio di condotte punibili – alla riforma del 2002, con la quale l'illecito è divenuto contravvenzione.

La nuova disciplina di portata restrittiva (per specificazione), quanto all'introduzione del sistema delle «soglie di rilevanza quantitative» e all'elemento psicologico, configurato nella forma del dolo specifico, in uno al riferimento ai «fatti materiali» è stata indicata quale espressione della volontà di un significativo ridimensionamento di tale ipotesi di reato, motivata, probabilmente, dall'esigenza di arginare l'espansione applicativa della fattispecie registrata negli anni '90, e valutata come inadeguata ad offrire efficace tutela alla corposità degli interessi in gioco (Colombo, 421).

L'interpretazione del testo del 2002 ha portato la giurisprudenza di legittimità a precisare che, la formulazione del reato di false comunicazioni sociali, introdotta dal d.lgs. 11 aprile 2002 n. 61 e quella precedente configurano fattispecie omogenee, sia per la struttura portante, consistente nella falsa rappresentazione delle condizioni economiche della società, sia per il significato lesivo della condotta; le stesse si differenziano, invece, per l'introduzione, nella nuova formula, di limiti quantitativi di rilevanza penale, in relazione all'entità dei dati economici falsamente rappresentati (Cass. V, n. 34622/2002), nonché per l'elemento psicologico, ora configurato nella forma del dolo specifico, seppur con riferimento a fattispecie contravvenzionale (Cass. pen. V, n. 44007/2005).

Sicché, la nuova formulazione delle norme che prevedono i delitti di false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 c.c.) e di bancarotta fraudolenta impropria «da reato societario» (art. 223, comma 2, n. 1, r.d. 16 marzo 1942 n. 267) non ha comportato l'abolizione totale dei reati precedentemente contemplati, ma ha determinato una successione di leggi con effetto parzialmente abrogativo, in relazione a quei fatti, commessi prima dell'entrata in vigore del citato d.lgs. n. 61/2002, che non siano riconducibili alle nuove fattispecie criminose (Cass. S.U., n. 25887/2003).

La Suprema Corte di cassazione, in particolare, ha messo in risalto come, ai fini del riconoscimento del rapporto di specialità, non sono tanto le finalità di politica criminale perseguite dal legislatore, quanto il peso che nelle due, pur diverse fattispecie, hanno gli elementi strutturali e di lesività comuni. E non v'è dubbio che è la falsa rappresentazione delle condizioni economiche delle società commerciali ciò che definiva il significato sociale della fattispecie abrogata, come continua a definire il significato sociale della nuova fattispecie (Cass. pen. V, n. 34622/2002).

Inoltre, in tema di false comunicazioni sociali, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 61/2002, la punibilità è esclusa se la condotta incriminata non altera in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, ovvero, in via alternativa, non determina una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al cinque per cento o una variazione dei patrimonio netto non superiore all'uno per cento, ferma restando ai fini della configurabilità del reato l'irrilevanza di valutazioni estimative che singolarmente considerate non differiscano in misura non superiore al dieci per cento rispetto a quella corretta (Cass. pen. V, n. 3229/2012).

La novella n. 69/2015

La riforma operata dalla l. n. 69/2015, ha ripristinato il delitto di false comunicazioni sociali ex art. 2621 c.c., nel contesto di un (ulteriore) inasprimento delle misure di contrasto alla corruzione.

Il nuovo assetto dei reati di false comunicazioni sociali, a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 69, è costituito da due fattispecie incriminatrici (artt. 2621 e 2622), caratterizzate entrambe per essere reati di pericolo, differenziate alla luce della tipologia societaria, e da due norme (artt. 2621-bis e 2621-ter) riferite solo all'art. 2621 c.c., contenenti una cornice di pena più mite per i fatti di «lieve entità» e una causa di non punibilità per la loro «particolare tenuità».

È stata confermata l'architettura a «piramide punitiva» (Gambardella, 1726) degli illeciti in materia di false comunicazioni sociali e la struttura dell'impianto è fondata su soli delitti, essendosi abbandonato il modello contravvenzionale che caratterizzava la previgente incriminazione, contenuta nell'art. 2621 c.c. per le aziende non quotate in borsa, nonché l'illecito amministrativo introdotto nel 2005 all'interno delle figure in questione.

Al vertice della piramide è posto l'art. 2622 c.c., con riferimento alle società quotate in Italia o in altri mercati regolamentati dell'Unione europea (l'art. 2622, comma 2, c.c. equipara alle citate società quotate altre tipologie: le società che hanno fatto richiesta di ammissione alla Borsa, le società che emettono strumenti finanziari in un sistema multilaterale di negoziazione, le società controllanti e quelle che fanno appello al pubblico risparmio o lo gestiscono).

La condotta del novello art. 2621 c.c. consiste nell'esporre nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, «fatti materiali rilevanti» non rispondenti al vero, o nell'omissione di «fatti materiali rilevanti», la comunicazione dei quali è imposta dalla legge, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.

In sintesi: i «fatti materiali», non ulteriormente qualificati, sono l'oggetto tipico della sola condotta di esposizione contemplata dall'art. 2622 c.c.; diversamente i «fatti materiali rilevanti» costituiscono l'oggetto tipico dell'omessa esposizione nel medesimo art. 2622 c.c. e rappresentano anche l'oggetto della condotta tipica – sia nella forma commissiva, sia nella forma omissiva – nell'art. 2621 c.c.

I «fatti materiali» – oggetto nei tre veicoli (bilanci, relazioni, comunicazioni sociali) della falsità commissiva/omissiva – devono essere connotati altresì sul piano oggettivo della tipicità dal requisito della «idoneità a indurre in errore», e sul piano soggettivo della tipicità, dal requisito della «consapevolezza» e dalla finalità di conseguire un «ingiusto profitto».

La riforma dei reati di false comunicazioni sociali è stata accolta con generalizzato entusiasmo dopo tredici anni di incessanti critiche (Seminara, 813).

L'attuale formulazione dell'art. 2621 c.c. ha fatto, tuttavia, riemergere la questione della rilevanza delle «valutazioni» nell'ambito delle false comunicazioni sociali, in considerazione dell'eliminazione del sintagma «ancorché oggetto di valutazioni», pur permanendo il riferimento all'esposizione dei «fatti materiali».

In dottrina, in particolare, è insorto un dibattito tra quanti hanno immediatamente aderito alla tesi abolizionista (Lanzi, 10 ss.; Bricchetti-Pistorelli, 53 ss.; Perini, 11) e quanti invece hanno assunto una posizione favorevole all'inclusione delle valutazioni nei fatti materiali di cui all'art. 2621 c.c. (Seminara, 814; Mucciarelli, 22 ss.; Mezzetti, 19 ss.; Gambardella, 1742; D'Alessandro, 2211 ss.).

È stato, invero, osservato come tale soppressione non incida sull'operatività della fattispecie, poiché tanto nell'originaria formulazione dell'art. 2621, quanto sotto la norma previgente, è sempre stata pacifica la rilevanza delle valutazioni nella misura in cui esse – lungi dal presentarsi e dall'esaurirsi in un'ipotesi o in una previsione – contengano o si risolvano nell'enunciazione di un fatto (Foffani, 2458; Musco, 67 ss.).

Ed inoltre, a seguito della riforma del 2002, il riferimento all'esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero «ancorché oggetto di valutazioni» è stato interpretato in funzione concessiva (ancorché nel senso di: anche se siano oggetto di valutazioni), la cui addizione o sottrazione dalla formulazione dell'enunciato normativo nulla aggiungerebbe e nulla toglierebbe al significato obiettivamente attribuibile al concetto di «fatti materiali», con la conseguenza che si tratterebbe, in sostanza, di una inutile superfetazione linguistica (Mucciarelli, 2).

Pertanto, nel contesto di una sostanziale riscrittura delle fattispecie incriminatrici, motivata dal chiaro intento di reprimere in modo più severo le falsificazioni dei documenti contabili societari, sembra cogliere maggiormente nel segno quella dottrina che osserva come «nella redazione delle attuali norme, la previgente formula non è stata soppressa, ma semplicemente non riprodotta nelle disposizioni di nuovo conio, profondamente innovate anche sotto il profilo sintattico».

Quanto, poi, all'insistito uso dell'aggettivo «materiali», va rilevato che la locuzione «fatti materiali» si risolve in «un'endiadi, giacché mal si comprende quali possano essere i fatti “immateriali” penalmente rilevanti».

Le formule «fatti non rispondenti al vero» e «fatti materiali non rispondenti al vero», visto il contesto nel quale si inseriscono, sono perfettamente equivalenti e del tutto sovrapponibili (D'Alessandro, 2213).

Anche in seno alla giurisprudenza, le prime pronunce in merito alla rilevanza dell'eliminazione di tale inciso nel novellato art. 2621 c.c., e conseguentemente all'incidenza di tale modifica sul reato di bancarotta impropria, sono state difformi.

La prima applicazione della fattispecie da parte della Cassazione: la tesi abrogazionista.

La prima pronuncia della Corte di cassazione immediatamente successiva all'entrata in vigore del nuovo reato di cui all'art. 2621 c.c. (Cass. pen. V, n. 33774/2015) ha affermato il principio, secondo cui in tema di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario, di cui all'art. 223, secondo comma, n. 1, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, la nuova formulazione degli artt. 2621 e 2622 c.c., introdotta dalla l. 27 maggio 2015, n. 69, ha determinato – eliminando l'inciso «ancorché oggetto di valutazioni», ed inserendo il riferimento, quale oggetto anche della condotta omissiva, ai «fatti materiali non rispondenti al vero» – una successione di leggi con effetto abrogativo, peraltro limitato alle condotte di errata valutazione di una realtà effettivamente sussistente.

A fondamento di tale principio, la Corte ha ritenuto, tra l'altro, che il legislatore del 2015 ha ripreso la formula utilizzata dal legislatore del 2002 «fatti materiali», diversa dai «fatti», contenuta nell'originario art. 2621 c.c., per circoscrivere l'oggetto della condotta attiva, privandola, tuttavia, del riferimento alle valutazioni e provvedendo contestualmente a replicare tale formula anche nella definizione della condotta omissiva, in relazione alla quale il testo previgente faceva, invece, riferimento, alle «informazioni».

È stato, altresì, argomentato che il disegno di legge n. 19 prevedeva di attribuire, in un primo momento, rilevanza alle «informazioni» false, adottando così un'espressione lessicale idonea a ricomprendere le valutazioni, sicché proprio tale mutamento sarebbe espressivo dell'intenzione del legislatore di escludere la rilevanza penale del c.d. falso valutativo.

Inoltre, si è aggiunto, che l'espressione «fatti materiali» era stata già utilizzata dalla l. n. 154/1991 per circoscrivere l'oggetto del reato di frode fiscale di cui all'art. 4, lett. f), della l. n. 516/1982, con il chiaro intento di escludere dall'incriminazione le valutazioni relative alle componenti attive e passive del reddito dichiarato.

È stato anche osservato che i testi riformati degli artt. 2621 e 2622 c.c. si inseriscono in un contesto normativo che vede ancora un esplicito riferimento alle valutazioni nell'art. 2638 c.c.: tale disposizione continua, invero, a punire i medesimi soggetti attivi («gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società...») dei reati di cui agli artt. 2621 e 2622 che, nelle comunicazioni dirette alle autorità pubbliche di vigilanza, «espongono fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazioni».

Secondo tale esegesi, una lettura ancorata al canone interpretativo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit non può trascurare la circostanza dell'inserimento di modifiche normative in un sistema che riguarda la rilevanza penale delle attività societarie, con una non giustificata differenziazione dell'estensione della condotta tipizzata in paralleli ambiti operativi, quali sono quelli degli artt. 2621 e 2622 c.c., da una parte, e 2638 c.c., dall'altra; norme che, sebbene tutelino beni giuridici diversi, sono tutte finalizzate a sanzionare la frode nell'adempimento dei doveri informativi (Cass. pen. V, n. 33774/2015, Crespi).

In senso conforme a tale pronuncia si è posta una successiva sentenza (Cass. pen. V, n. 6916/2016) con cui è stato rimarcato, in aderenza alla tesi interpretativa accolta dalla sentenza Crespi, che due sono le argomentazioni sulle quali occorre concentrare l'attenzione degli interpreti: la prima di esse attiene a quella che può essere definita come l'emersione di un dato testuale che, nella precedente formulazione della norma, era ritenuto in qualche modo depotenziato dall'inciso soppresso con la riforma, ossia dell'attributo «materiali», che già con la modifica legislativa del 2002 era stato associato ai fatti, la cui falsa esposizione o omissione integrava il falso punibile. L'adozione dello stesso riferimento ai «fatti materiali non rispondenti al vero», senza alcun richiamo alle valutazioni e il dispiegamento della formula citata anche nell'ambito della descrizione della condotta omissiva, consentirebbe di ritenere ridotto l'ambito di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, con esclusione dei cosiddetti «falsi valutativi». Ed invero, il significato di esclusione delle valutazioni era evidentemente eliso dall'espressa indicazione di rilevanza penale delle valutazioni e una volta che quest'ultima è venuta a cadere, la previsione di necessaria materialità dei fatti riprenderebbe, pertanto, il proprio valore limitativo della punibilità ai fatti oggettivi, lasciando fuori dall'incriminazione le rappresentazioni valutative delle realtà economiche e finanziarie della società. Il secondo ordine di considerazioni riguarda, invece, un profilo di natura sistematica, e cioè quello derivante dalla analisi comparata del nuovo testo dell'art. 2621 c.c. con quello dell'art. 2638 c.c. Ebbene, la circostanza, secondo cui la stessa espressione sia stata cancellata dal testo di quest'ultima norma e, invece, mantenuta in quello dell'art. 2638 c.c., risulta chiaramente dimostrativa di un intento legislativo mirato ad escludere gli effetti sostanziali dell'espressione, in termini di definizione della fattispecie incriminatrice, con specifico ed esclusivo riguardo al reato di false comunicazioni sociali e, dunque, a sottrarre a tale incriminazione i fatti valutativi. In conclusione, la discussione relativa all'effettiva incidenza della recente riforma sulla punibilità dei falsi valutativi non può prescindere dal dato certo e ineludibile dell'eliminazione dal testo normativo del preesistente riferimento alle valutazioni (Cass. pen. V, n. 6916/2016).

L'interpretazione accolta nelle prime pronunce giurisprudenziali del novellato reato di false comunicazioni sociali ha attirato diverse critiche da parte della dottrina, che ha messo in risalto la debolezza dei limiti letterali dell'interpretazione giuridica. Sicché, in assenza di chiare indicazioni di senso contrario, si dovrebbe attribuire agli enunciati normativi il significato ad essi già attribuito in esperienze legislative pregresse, presumendo cioè la continuità e la razionalità linguistica del legislatore.

La scarsa attenzione da parte degli interpreti per gli argomenti storici e per quelli autoritativi pone anche problemi sul piano garantistico della riserva di legge penale, perché la flessibilità ermeneutica delle parole della legge si traduce in un sensibile indebolimento del legislatore parlamentare (Scoletta, 13).

La giurisprudenza successiva: la tesi della continuità normativa.

Altre pronunce della Corte di cassazione si sono discostate dall'indirizzo interpretativo inaugurato con la citata sentenza Crespi, ed, in primis, va segnalata la sentenza, sempre della Cass. pen. V, n. 890/2015, che ha invece affermato il principio, secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta impropria «da reato societario», di cui all'art. 223, secondo comma, n. 1, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, la nuova formulazione dell'art. 2621 c.c., introdotta dalla l. 27 maggio 2015, n. 69, che ha soppresso l'inciso «ancorché oggetto di valutazioni» con riferimento ai «fatti materiali non rispondenti al vero», non esclude la rilevanza penale dell'esposizione in bilancio di enunciati valutativi falsi, che violano parametri normativamente determinati o tecnicamente indiscussi. Infatti, quando intervengono in contesti che implicano l'accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque tecnicamente indiscussi, gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere una funzione informativa e possono dirsi «veri o falsi», posto che «quando la rappresentazione valutativa debba parametrarsi a criteri predeterminati, dalla legge, ovvero a prassi universalmente accettate, l'elusione di quei criteri – od anche l'applicazione di metodiche diverse da quelle espressamente dichiarate – costituisce falsità nel senso di discordanza dal vero legale, ossia dal modello di verità «convenzionale» conseguibile solo con l'osservanza di quei criteri, validi per tutti e da tutti generalmente accettati, il cui rispetto è garanzia di uniformità e di coerenza, oltreché di certezza e trasparenza.

La sentenza in questione, invero, ha rilevato che la congiunzione «ancorché» oggetto di valutazioni riveste una finalità ancillare, meramente esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale della proposizione principale, con la conseguenza che il suo significato si coglie in funzione della precisazione che nei «fatti materiali» – oggetto di esposizione nei bilanci, nelle relazioni e nelle altre comunicazioni sociali – siano da intendersi ricompresi anche quelli che sottendono attività valutative. Ne consegue, che la predetta proposizione concessiva avrebbe solo una funzione prettamente esegetica e sicuramente non additiva, ragion per cui l'esclusione della stessa operata dalla l. n. 69/2015 non si tradurrebbe in alcuna ipotesi di abrogatio legis, nulla togliendo e nulla aggiungendo la novella all'elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice in questione.

Inoltre, osserva la Corte, i termini «materiali» e «rilevanti» sono di natura squisitamente tecnica, frutto di una trasposizione letterale di formule lessicali in uso nelle scienze economiche anglo-americane e nella legislazione comunitaria. Pertanto, la qualificazione «materiale» si connetterebbe, sempre secondo questa opzione esegetica, al concetto di «materialità» (o «materiality») che da tempo è stato adottato dagli economisti anglo-americani come criterio di redazione dei bilanci di esercizio e di revisione.

In definitiva il termine «materiale» andrebbe, dunque, qualificato come sinonimo di essenzialità, atteso che nel bilancio devono entrare solo dati informativi essenziali ai fini dell'informazione, restandone fuori tutti i profili marginali e secondari, in aderenza a quanto stabilito dalla legislazione comunitaria (art. 2, comma terzo, della IV Direttiva CEE sul bilancio di esercizio e art. 16, comma terzo, della VII Direttiva CEE sul bilancio consolidato) e dalla legislazione nazionale all'art. 2423 c.c.

In senso analogo, anche la nozione di rilevanza deve essere colta in rapporto alla funzione informativa tipica delle comunicazioni sociali, nel senso che le stesse non debbono fornire dati fuorvianti, tali da influenzare in modo distorto le decisioni dei destinatari delle informazioni stesse.

In tale contesto ermeneutico anche il lemma «fatto» non potrebbe essere inteso nel significato comune ossia come fatto/evento fenomenologico, quanto piuttosto nella sua accezione tecnica più lata, di dato informativo della realtà che i bilanci e le altre comunicazioni sono destinati a proiettare all'esterno, con la conseguente irrilevanza, sul piano della interpretazione sistematica della norma, della soppressione – intervenuta nel corso dei lavori preparatori – del termine «informazioni» e del rispristino dell'originario lemma «fatti».

Per quanto concerne, poi, la mancata espunzione del sintagma «ancorché oggetto di valutazioni» dall'art. 2638 c.c., da tale circostanza non può essere tratta la volontà di non attribuire rilievo alle valutazioni dai nuovi artt. 2621 e 2622 c.c., atteso che l'art. 2638 c.c. ha obiettività giuridica ben diversa da quella delle false comunicazioni sociali e se ne distingue anche sul versante strutturale; inoltre, l'intero iter legislativo, che ha portato alle nuove disposizioni, tra cui l'art. 2621 c.c., è stato sempre ed esclusivamente circoscritto alle false comunicazioni sociali, senza che mai alcuna delle altre fattispecie sia stata oggetto dell'interesse del riformatore.

D'altronde, prosegue, se non si dovesse tener ferma la diversità dei beni giuridici tutelati dalla richiamate fattispecie delittuose e fosse, viceversa, praticabile la tesi opposta, si avrebbe il risultato paradossale – e forse di dubbia costituzionalità – che la redazione di uno stesso bilancio, recante falsi valutativi, sarebbe penalmente irrilevante se diretto ai soci ed al pubblico e penalmente rilevante se rivolto alle autorità pubbliche di vigilanza. Si è anche ricordato che la Corte di legittimità, già in passato, ha avuto modo di statuire che il reato di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza è configurabile anche nel caso in cui la falsità sia contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, «atteso che dal novero dei “fatti materiali”, indicati dall'attuale norma incriminatrice come possibile oggetto della falsità, vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali, vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo, e l'espressione, riferita agli stessi fatti, “ancorché oggetto di valutazioni”, va intesa in senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l'oggetto della vigente norma incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come reato la comunicazione all'autorità di vigilanza di “fatti non corrispondenti al vero”» (Cass. pen. V, n. 890/2015).

Nella medesima scia della sentenza Giovagnoli – sebbene con ulteriori precisazioni – si è posta la successiva sentenza Cass. pen. V, n. 12793/2016, con la quale è stato affermato il principio, secondo cui l'eliminazione dell'inciso «ancorché oggetto di valutazione», lungi dal costituire un'ipotesi abrogativa di una «categoria», quella del falso c.d. valutativo/estimativo,  abbia implicitamente ribadito e sancito chiaramente, con la soppressione di qualsiasi riferimento alla  «valutazione»,  l'irrilevanza del percorso argomentativo attraverso il quale il «fatto» non corrispondente al vero venga esposto in bilancio, ossia se attraverso un percorso valutativo, o riproduttivo di un dato (come ad esempio nel caso della riproduzione del costo storico di un immobile), dovendo ritenersi esclusi dalla sfera di punibilità esclusivamente gli apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo. Invero, nella nuova fattispecie delle false comunicazioni sociali ex art. 2621 c.c., non assumono più rilievo i termini di «valutazioni» o «valutazioni estimative», quale sintesi di dati esposti od omessi nella comunicazione sociale, in merito alla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, occorrendo, piuttosto, che quel «dato», o «fatto materiale» (in sostanza «informazione») – esposto od omesso – non corrispondente al vero, sia «rilevante» in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.

Nell'esposizione (od omessa esposizione) nella comunicazione sociale di un fatto materiale falso, a venire in rilievo non è la modalità di giudizio che conduce all'enunciato, bensì l'enunciato stesso, il quale integra il paradigma criminoso, ove si risolva in un mendacio.

L'introduzione del termine «rilevante», congiunto a «fatto materiale», va posto in relazione alla proposizione «in modo concretamente idoneo a indurre altri in errore» quale espressione del netto spostamento del baricentro dell'interesse tutelato dalla norma.

La «rilevanza» del fatto materiale non rispondente al vero costituisce tra le più significative novità del reato di false comunicazioni sociali, giacché la sua valutazione, demandata dal legislatore del 2015 al giudice – una volta abolite le soglie al di sotto delle quali il fatto, benché falso, non si presenta punibile – non costituisce solo il contrappeso a tale abolizione, come sembrerebbe ad una prima lettura della norma. La «rilevanza» del fatto materiale concentra in sé sia la funzione selettiva rispetto alle false od omesse informazioni (i fatti difformi dal vero esposti o quelli non esposti), sia l'idoneità decettiva, proiettando il fatto materiale non rispondente al vero in una dimensione di significatività, in funzione della concreta idoneità ad indurre altri in errore, così valorizzando e considerando pienamente l'aspetto principale della comunicazione sociale, ossia quello informativo.

Tale spostamento evidenzia ancor più l'indifferenza di percorsi «valutativi» nell'esporre od omettere il dato non rispondente al vero, atteso che il fatto materiale rilevante, di cui all'art. 2621 c.c., non lascia spazio per selezioni diverse da quella della concreta idoneità del fatto esposto od omesso ad indurre altri in errore.

L'espunzione dall'art. 2621 c.c. dell'inciso «ancorché oggetto di valutazioni» riferito ai «fatti materiali» di cui alla recente riforma del 2015 non può che essere insignificante, stante l'irrilevanza del percorso attraverso il quale si giunge all'esposizione del fatto materiale.

L'enfasi con la quale è stata segnalata tale soppressione è probabilmente ascrivibile al fatto che il legislatore del 2002 ha inserito contemporaneamente l'aggettivo «materiali» (in considerazione dell'esigenza di delimitare come detto al portata del reato escludendo gli apprezzamenti «schiettamente» soggettivi) e l'inciso «ancorché oggetto di valutazioni», sicché l'eliminazione di quest'ultimo, senza la contemporanea elisione dell'aggettivo «materiali» ha determinato il convincimento di una riconsiderazione della condotta punibile, secondo voluntas legis non più «valutativa».

Tale interpretazione, tuttavia, tralascia la genesi, l'evoluzione, il contesto di riferimento ed i principî affermati da dottrina e giurisprudenza sino alla «sentenza Crespi» che inducevano complessivamente ad escludere qualsiasi forma di riconsiderazione della locuzione «fatti materiali», stante il significato da attribuirsi ad essa, quantunque epurata dal riferimento al sintagma «ancorché oggetto di valutazione».

Peraltro, negare la possibilità che il falso possa realizzarsi mediante «valutazioni» significa negare lo stesso veicolo con il quale si realizza il falso, posto che il bilancio si struttura di per sé necessariamente anche in un procedimento valutativo, i cui criteri sono indicati dalla legge, come chiaramente evincibile dal disposto di cui all'art. 2426 c.c. (Cass. pen. V, n. 12793/2016).

La sentenza delle Sezioni unite penali n. 22474/2016

Le Sezioni unite penali, ponendo fine al contrasto creatosi all'interno della Quinta Sezione in merito all'interpretazione del novello art. 2621 c.c., con la sentenza n. 22474/2016 hanno dato risposta «affermativa» al quesito se «sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione e alla omissione di fatti oggetto di valutazione», affermando il principio secondo cui il reato di false comunicazioni sociali, nel testo modificato dalla l. 27 maggio 2015, n. 69, è configurabile in relazione alla esposizione in bilancio di enunciati valutativi, se l'agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni. Invero hanno evidenziato le S.U. la quasi totalità delle poste di bilancio ha carattere valutativo e, quindi, «sterilizzare il bilancio con riferimento al suo contenuto valutativo significherebbe negarne la funzione e stravolgerne la natura»; in altri termini, ad avallare la tesi abrogazionista, si verrebbe ad operare un'interpretatio abrogans del delitto di false comunicazioni sociali ed il recente corpus normativo portato dalla riforma del 2015 «finirebbe per presentare una significativa falla nella sua trama costitutiva, prestandosi a una lettura depotenziata proprio nella parte che dovrebbe essere una delle più qualificanti: quella della trasparenza aziendale, quale strumento di contrasto alla economia sommersa e all'accumulo di fondi occulti, destinati non raramente ad attività corruttive».

 Nel commentare la pronuncia delle S.U., la dottrina ha messo in risalto come il Supremo Consesso abbia proseguito nella scia delle precedenti pronunce criticando l'argomento cosiddetto letterale, di quello che è stato bollato come «feticismo della lettera» (Pulitanò, 8), che faceva leva sull'eliminazione dell'inciso «ancorché oggetto di valutazione» e delle «valutazioni estimative».

Se è vero che le parole contano, le S.U. hanno osservato che non si deve riservare attenzione a quelle eliminate ma solo a quelle che compongono la fattispecie di nuova formulazione. Non è una modifica, quella effettuata con la l. 69/2015: è un'autonoma riformulazione (Alessandri, 1479).

Opportunamente si chiarisce che, all'esito dell'ultimo intervento riformatore, le false comunicazioni sociali integrano delitti di mera condotta incentrati sul pericolo concreto, a tutela della veridicità e completezza dell'informazione societaria in funzione delle potenziali ripercussioni negative delle falsità sulla sfera patrimoniale della società, dei soci, dei creditori e del pubblico (risparmiatori, stakeholders, etc.), secondo il noto schema della seriazione dei beni. Peraltro, l'anticipazione della punibilità è ora particolarmente incisiva in quanto il giudizio di idoneità non è propriamente riferito alla causazione di un nocumento patrimoniale ma alla semplice induzione in errore in coerenza con l'efficacia preventiva dei reati societari. Tali fattispecie incriminatrici devono potersi applicare prima e indipendentemente dall'insorgenza di uno stato di crisi e dal conseguente fallimento dell'impresa e non certo per il solo tramite della bancarotta impropria da reato societario di cui all'art. 223, cpv., n. 1, d.P.R. n. 267/1942 o semmai, nel caso di società quotate, della manipolazione di mercato di cui all'art. 185 d.lgs. n. 58/1998 (Piva, 5 ss.).

Scendendo nel dettaglio della pronuncia delle Sezioni Unite, sono stati affermati i seguenti corollari. Sul piano ermeneutico:

a) «l'interpretazione letterale altro non è che un (indispensabile) “passaggio” funzionale verso la completa ed esaustiva intelligenza del comando legislativo»: al di là dell'art. 12 delle preleggi, «non può certo negarsi che proprio l'intenzione del legislatore deve essere “estratta” dall'involucro verbale (“le parole”), attraverso il quale essa è resa nota ai destinatari e all'interprete. Quando, come nel caso in esame, un nuovo testo normativo prende il posto di uno precedente, operando non un'aggiunta o una sostituzione di un'espressione verbale ad un'altra, ma una mera soppressione di una frase (peraltro, sintatticamente subordinata), è di tutta evidenza che uno sforzo ermeneutico che si arrestasse, appunto, all'involucro verbale e si risolvesse in un'analisi lessicale non potrebbe dare risultati soddisfacenti»;

b) l'interpretazione sistematica va anteposta all'esegesi testuale (e comparativa) degli articolati normativi che si sono succeduti nel tempo: l'indagine, quindi, deve muovere dalla «visione – organica e tendenzialmente unitaria e coerente – dell'intera materia societaria in tema di bilancio e del sottosistema delle norme penali poste a tutela della corretta redazione del predetto documento, partendo dal presupposto – non contestabile – che l'oggetto della tutela penale è da individuarsi nella “trasparenza societaria”».

Orbene, a tale riguardo, osserva la sentenza, il codice civile regolamenta la disciplina del bilancio con gli artt. da 2423 a 2427, dettandone i criteri di redazione, imponendone canoni di valutazione e delineando il contenuto della nota integrativa. Dunque, «il bilancio, in tutte le sue componenti (stato patrimoniale, conto economico, rendiconto finanziario, nota integrativa) è un documento dal contenuto essenzialmente valutativo; un documento in cui confluiscono dati certi (es. il costo di acquisto di un bene), dati stimati (es. il prezzo di mercato di una merce) e dati congetturali (es. le quote di ammortamento)».

Ne segue che il suo redattore non può non operare valutazioni sia pure guidate da criteri di legge, da indicazioni europee (Direttiva 2013/34/UE), dall'elaborazione dottrinale (principî contabili OIC e IFRS);

c) l'opzione ermeneutica che intende contrapporre i «fatti materiali» (da intendersi quali elementi fattuali oggettivi) alle «valutazioni», si rivela del tutto fallace, «per l'ottima ragione che un bilancio non contiene “fatti”, ma il “racconto” di tali fatti. Vale a dire: un fatto, per quanto materiale, deve comunque, per trovare collocazione in un bilancio, essere “raccontato“ in unità monetarie e, dunque, valutato (o se si vuole apprezzato)»;

d) l'inciso «ancorché oggetto di valutazione», contenuto nel testo precedente, avendo carattere meramente concessivo, è privo di funzione selettiva e, quindi, nessun valore ermeneutico può essere assegnato alla sua mancata riproposizione; inoltre, «poiché sarebbe paradossale chiedersi quale sia il significato proprio di parole soppresse», l'interpretazione del dato normativo va effettuata interrogandosi sul «significato della frase come risulta dopo la soppressione»;

e) quanto sulla parallela lettura dell'espressione «fatti materiali» contenuta all'interno del settore penale tributario è agevole replicare che «detto “accostamento” ha perso significato, atteso che, già quando entrò in vigore la riforma del falso in bilancio introdotta dal d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, l'art. 4, lett. f), l. 7 agosto 1982, n. 516, era stato sostituito dall'art. 7, comma 2, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, che ha sancito, anche in campo tributario, la rilevanza penale delle valutazioni che differiscano di oltre il 10 per cento rispetto a quelle corrette»;

f) le dichiarate finalità della riforma apportata dalla l. n. 69/2015, fra cui: (1) la volontà di reintrodurre un apparato sanzionatorio adeguato, (2) la necessità di garantire un elevato grado di trasparenza societaria e (3) la necessità di garantire che i bilanci contengano informazioni tanto veritiere quanto complete, non possono non avere una loro valenza ermeneutica.

Sul piano del falso valutativo:

a) rileva il falso in bilancio «valutativo», ogni volta che l'impresa si sia «discostata consapevolmente e senza darne adeguata giustificazione» dai criteri di valutazione fissati dalle norme civilistiche e dalle prassi contabili generalmente accettate, «in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni».

La valutazione non può trasformarsi in una scommessa o in pronostico ma dev'essere rigorosamente ancorata ai criteri generalmente riconosciuti in questa materia: chi voglia disancorarsene deve darne una spiegazione articolata, tenendo presente che, nel caso dei bilanci, viene in rilevo (come nella materia urbanistica) una discrezionalità essenzialmente tecnica del valutatore;

b) siccome la riforma ha «eliminato ogni riferimento a soglie percentuali di rilevanza», viene affidata al giudice «la valutazione, in concreto, della incidenza della falsa appostazione della arbitraria preterizione della stessa». Il giudice dovrà dunque valutare «la potenzialità decettiva della informazione falsa contenuta nel bilancio e, in ultima analisi, dovrà esprimere un giudizio prognostico sulla idoneità degli artifizi e raggiri contenuti nel predetto documento contabile, nell'ottica di una potenziale induzione in errore «in incertam personam»;

c) il falso valutativo «deve riguardare dati informativi essenziali, idonei a ingannare e a determinare scelte potenzialmente pregiudizievoli per i destinatari». E la potenzialità ingannatoria «ben può derivare, oltre che dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, dalla falsa valutazione di un bene che pure è presente nel patrimonio sociale».

L'alterazione dei dati del bilancio – spiega la sentenza – «non deve necessariamente incidere solo sul versante quantitativo, ben potendo anche il c.d. falso qualitativo avere una attitudine ingannatoria e una efficacia fuorviante nei confronti del lettore del bilancio. Invero, l'impropria appostazione di dati veri, l'impropria giustificazione causale di “voci”, pur reali ed esistenti, ben possono avere effetto decettivo (ad esempio: mostrando una situazione di liquidità fittizia) e quindi incidere negativamente su quel bene della trasparenza societaria, che si è visto costituire il fondamento della tutela penalistica del bilancio».

Il concetto di "rilevanza" ai fini del falso in bilancio ha la sua riconoscibile origine nella normativa comunitaria (art. 2 punto 16 Direttiva UE 2013/34/UE, relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni e tipologie di imprese, recepito con d.lgs. 14 agosto 2015, n. 136), che definisce rilevante l'informazione «quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori, sulla base del bilancio dell'impresa». Il requisito risulta aver sostituito il previgente parametro della idoneità «ad indurre in errore i destinatari» (oltre alle soglie percentuali di punibilità) in relazione alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società. Ma, a ben vedere, la idoneità ad indurre in errore, altro non è che il riflesso soggettivo della rilevanza della alterazione (conseguente a una condotta commissiva od omissiva) dei dati di bilancio e si risolve nella efficacia decettiva o fuorviante dell'informazione omessa o falsa. Il falso insomma deve essere tale da alterare in misura apprezzabile il quadro d'insieme e deve avere la capacità di influire sulle determinazioni dei soci, dei creditori o del pubblico. Da questo punto di vista, la rilevanza altro non è che la pericolosità conseguente alla 23 falsificazione; il che suggella, se pur ce ne fosse bisogno, la natura, appunto di reato di pericolo (concreto) delle "nuove" false comunicazioni sociali.

Applicazioni e rapporti con la bancarotta impropria da reato societario, nonché con altri reati

Il  reato di false comunicazioni sociali, in particolare, dopo la riforma introdotta dalla legge n. 69 del 2015, è posto a tutela della correttezza e trasparenza  dell'informazione societaria, quale bene 'strumentale' alla salvaguardia dei beni 'finali' del patrimonio dei soci e dei creditori, nonché dei terzi interessati, la consumazione dell'illecito coincide con l'esposizione (o l'omissione) di fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero "nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico" (Cass. pen.V n.27170/2018).  

In applicazione dei principi sanciti dalle S.U. n. 22474/2016, è stato ritenuto integrante il delitto di false comunicazioni sociali l'appostazione in bilancio, alla voce di ricavo straordinario da "sopravvenienze attive", di un importo pari all'ammontare di un debito tributario, precedentemente iscritto al passivo, quando questo sia ancora oggetto di contenzioso essendo stata emessa sentenza pur favorevole al debitore, ma non ancora definitiva (Cass. pen. V,  n. 27970/2023).

Inoltre, è stato ritenuto  idoneo ad integrare il delitto di cui all'art. 2621 c.c. la modifica da parte degli amministratori, nella redazione del bilancio, del criterio utilizzato per la valutazione delle partecipate, sostituendo quello del “patrimonio netto”, utilizzato per l'esercizio precedente (e che avrebbe condotto all'azzeramento del valore della relativa partecipazione), con quello del “costo”, scelta questa  giustificata, nella nota integrativa, alla luce di asserite "condizioni di eccezionalità" (connesse alla recessione di un determinato settore) e nella ritenuta assenza di "variazione durevole di valore delle partecipazioni" (in quanto ritenute eliminabili nell'arco di un triennio, secondo le previsioni elaborate nei piani di ristrutturazione aziendali) (Cass. pen. V,  36012/2022).

L'ipotesi di falso in bilancio seguito dal fallimento della società di cui all'art. 223, comma secondo n. 1, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, costituisce un'ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria e si distingue dal falso in bilancio previsto dall'art. 2621 c.c., che è reato sussidiario punito a prescindere dall'evento fallimentare, sia dalla bancarotta documentale propria concernente ipotesi di falsificazione di libri o di altre scritture contabili (Cass. pen. V, n. 7293/1996).

All'uopo è stato affermato il principio secondo cui il reato di bancarotta fraudolenta impropria, di cui all'art. 223, secondo comma, n. 1, r.d. 16 marzo 1942 n. 267, da reato societario di false comunicazioni sociali, previsto dall'art. 2621 c.c., nel testo modificato dalla legge 27 maggio 2015, n. 69, è configurabile in relazione alla esposizione in bilancio di enunciati valutativi, se l'agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni. In applicazione di tale principio, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza di appello che, nel valutare la legittimità dell'iscrizione a bilancio di una «riserva tecnica» – voce che rappresenta la copertura di maggiori oneri sostenuti fatto imputabile al committente – aveva applicato il relativo principio contabile (OIC 23) nella versione introdotta in epoca successiva alla redazione del bilancio, versione contenente criteri più rigorosi per l'iscrizione della riserva rispetto a quelli vigenti al momento della predetta redazione (Cass. pen. V, n. 46689/2016).

Integra, altresì, il reato di bancarotta impropria da reato societario la condotta dell'amministratore che, esponendo nel bilancio dati non corrispondenti al vero, eviti che si manifesti la necessità di procedere ad interventi di rifinanziamento o di liquidazione, in tal modo consentendo alla fallita la prosecuzione dell'attività di impresa con accumulo di ulteriori perdite negli esercizi successivi (Cass. pen. V, n. 1754/2021).

In tema di rapporti tra il reato di cui all'art. 2621 e di bancarotta impropria da reato societario è stato affermato, poi,  che il precedente giudizio per il reato di false comunicazioni sociali non preclude, ai sensi dell'art. 649 c.p.p., secondo l'interpretazione data dalla sentenza della Corte cost. n. 200/2016, l'esercizio dell'azione penale per il reato di bancarotta impropria da reato societario. Invero, l'aggravamento o la determinazione del dissesto determina la differenza strutturale tra il fatto storico-naturalistico del reato di cui all'art. 223, comma 2, n. 1, l.fall. e quello oggetto del reato di false comunicazioni sociali (Cass. pen.V, n. 1835 del 26/11/2021, Rv. 282428).

Inoltre, l'assoluzione dal reato di cui all'art. 223, comma secondo, n. 1, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella fattispecie di falso in bilancio seguito dal fallimento, non interferisce sulla decisione in ordine al reato di bancarotta fraudolenta documentale stante la diversità dei rispettivi oggetti, potendo quello di bancarotta documentale propria concernere ipotesi di falsificazione di libri o di altre scritture contabili e non di bilanci, costituenti invece l'oggetto della indicata specifica fattispecie di cui all'art. 223, comma secondo, n. 1, l.fall. (Cass. pen.  V, 37077/2022).

Quanto ai rapporti con altri reati,  il delitto di  false comunicazioni sociali e quello di truffa possono concorrere tra loro, non sussistendo alcun rapporto di specialità tra le rispettive fattispecie (Cass. pen. VI,  n. 6495/2017).

Focus sui criteri di redazione del bilancio e sulle impegnative delle delibere di bilancio

Il reato di false comunicazioni sociali non può tralasciare gli approdi della giurisprudenza civile in tema di impugnativa di delibera assembleare avente ad oggetto la comunicazione sociale per eccellenza, il bilancio.

Invero, i principî cardine sui quali si fonda la redazione del bilancio, tracciati dal secondo comma dell'art. 2423 c.c. – e segnatamente la chiarezza, la verità e la correttezza, la violazione dei quali legittima l'impugnativa ex art. 2434-bis c.c. – costituiscono importanti punti di riferimento per la sinergica interpretazione della non verità del bilancio.

Più volte la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto, infatti, che la fattispecie di false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. tende a tutelare la veridicità, la chiarezza e la completezza delle informazioni relative all'esercizio dell'attività (Cass. pen. II, n. 3397/2012) considerate vere e proprie clausole generali integratrici della relativa normativa di dettaglio.

Bilancio invalido e bilancio falso costituiscono categorie, che, attraverso i comuni principî di riferimento, si intersecano e contribuiscono alla determinazione di modelli di giudizio che si fondano in gran parte su elementi e presupposti comuni.

Proprio con precipuo riferimento al principio di verità, costituente la negazione del concetto di falso (in bilancio) di cui si discute, la giurisprudenza civile di legittimità, in materia di impugnativa della delibera assembleare di approvazione del bilancio, ha ritenuto che «veritiero» non vuol dire che gli amministratori sono tenuti a una verità oggettiva di bilancio, ma essi sono tenuti ad indicare il valore di quei dati che meglio risponde alle finalità e agli interessi che l'ordinamento vuole tutelare.

In altri termini, il bilancio è vero non perché rappresenta fedelmente l'obiettiva realtà aziendale sottostante, ma perché si conforma a quanto stabilito dalle prescrizioni legali in proposito.

In questa prospettiva, non qualsiasi difformità dal modello legale di bilancio inficia la deliberazione che lo approva, rilevando il concetto di «qualità dei falso» nel senso della sua significatività ai fini della informazione, cui la comunicazione tende o deve tendere, che sottolinea il sensibile rilievo di particolari vizi contabili, il cui impatto sulla leggibilità dell'informazione è sostanziale, indipendentemente dall'ammontare assoluto o relativo della deviazione dal «vero».

In particolare, occorrerà verificare non solo l'incidenza del falso sulle grandezze di sintesi, la cui conoscenza è utile ai soci uti singuli, ai futuri soci, ai creditori e, in genere, ai terzi interessati, ma anche l'impatto sui rapporti con altre classi di valori, quali l'interesse generale al regolare funzionamento della società nell'ambito della economia nazionale, l'interesse dell'Amministrazione finanziaria alla percezione dei tributi dovuti partendo dal risultato economico del bilancio civilisticamente chiaro, veritiero e corretto.

La Cass. n. 890/2015 evoca nella sostanza tali punti di approdo, laddove rileva che veritiero vuol dire che gli amministratori non sono tenuti a una assoluta verità oggettiva di bilancio, impossibile da raggiungere per i dati stimati, ma impone a questi ultimi di indicare il valore di quei dati che meglio risponde alla finalità e agli interessi che l'ordinamento vuole tutelare; il bilancio, dunque, è «vero», di regola, non tanto e non solo perché tende a rappresentare fedelmente l'obiettiva realtà aziendale sottostante, bensì perché si conforma a quanto stabilito dalle prescrizioni legali in proposito.

Si tratta di un «vero legale» stante la presenza di una disciplina legislativa che assegna valore cogente a determinate soluzioni elaborate dalla tecnica ragionieristica.

Tale condivisibile impostazione si ritiene, tuttavia, non possa trascurare il dato che l'esposizione del fatto materiale (o l'omessa informazione) non corrispondente al vero, deve essere «rilevante», stante il chiaro disposto dell'art. 2621 c.c.

Ciò significa che se dal mancato rispetto dei criteri legali di redazione del bilancio può derivare la falsità di una valutazione di bilancio, sicché «la veridicità o falsità delle componenti del bilancio va valutata in relazione alla loro corrispondenza ai criteri di legge», tuttavia, non qualsiasi difformità dal modello legale di bilancio determina come una sorte di automatismo la falsità del bilancio, dovendo guardarsi, piuttosto, all'idoneità del dato falsamente esposto, ad indurre concretamente gli altri in errore, in una dimensione di significativa valorizzazione della qualità del falso.

Anche in tale prospettiva, pertanto, il percorso «valutativo» (o meno) di esposizione o di omissione del fatto rilevante è destinato a dissolversi, in quanto ciò che può risultare decisivo è il risultato finale, la corrispondenza o meno di esso ai criteri legali e, comunque, l'incidenza di quel dato ad indurre concretamente gli altri in errore (Cass. pen. V, n. 12793/2016).

La competenza per territorio

La consumazione del reato di false comunicazioni sociali, che radica la competenza per territorio, coincide con l'”esposizione" nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, che avviene nel momento e nel luogo in cui si riunisce l'assemblea ed il bilancio viene illustrato ai soci, di guisa che   il reato di false comunicazioni sociali previsto dall'articolo 2621 c.c. si consuma nel luogo e nel momento in cui si riunisce l'assemblea ed il bilancio viene illustrato ai soci,  pertanto, con riferimento a tale luogo si radica la competenza per territorio, non rilevando, ai predetti fini, il momento (e il luogo) di deposito degli atti presso la Camera di Commercio (Cass. pen. V, n. 2160/2000 e Cass. pen. V, n. 27170/2018). Risulta erronea, quindi, l’individuazione della consumazione del reato nel momento del deposito del bilancio presso la sede sociale della società, ed il luogo di consumazione del reato, e di conseguenza l'A.G. competente, nella sede sociale della società ove viene depositato il bilancio.

Bibliografia

Alessandri, La falsità delle valutazioni in bilancio secondo le Sezioni Unite, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2016; Biondi, Le false valutazioni estimative in bilancio e la recente riforma dell'art. 2621 n. 1 c.c., in Cass. pen. 2003; Bricchetti, Pistorelli, La lenta «scomparsa» del diritto penale societario italiano, in Guida dir., 26/2015; Colombo, Il falso in bilancio e le oscillazioni del pendolo, in Riv. soc. 2002; Crespi, Le false comunicazioni sociali: una riforma faceta, in Riv. soc. 2001; Cultrera, Le “nuove” false comunicazioni sociali, in Diritto penale delle società. Accertamento delle responsabilità individuali e processo alla persona giuridica, a cura di Canzio, Cerqua e Luparìa, Milano, 2016; D'Alessandro, La riforma delle false comunicazioni sociali al vaglio del Giudice di legittimità: davvero penalmente irrilevanti le valutazioni mendaci?, in Giur. it. 2015; Foffani, Sub artt. 2621-2622, in Commentario breve alle leggi penali complementari, a cura di Palazzo e Paliero, Padova, 2007, 2458; Gambardella, Il «ritorno» del delitto di false comunicazioni sociali: tra fatti materiali rilevanti, fatti di lieve entità e fatti di particolare tenuità, in Cass. pen. 2015, 1730; Giunta, Lineamenti di diritto penale dell'economia, Torino, 2004; Lanzi, Quale strano scopo del falso in bilancio che torna reato, in Guida dir. 26/2015; Manes, La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali, in Dir. pen. contemp. 2016; Manna, Il nuovo delitto di false comunicazioni sociali, in Diritto penale dell'economia, a cura di Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Milano, 2017; Mezzetti, La ricomposizione disarticolata del falso in bilancio (commento agli artt. 9-12 della l. n. 69/2015), in legislazionepenale.eu, 11 gennaio 2016; Mucciarelli, Le «nuove» false comunicazioni sociali: note in ordine sparso, in Dir. pen. contemp. 2015; Mucciarelli, «Ancorché» superfluo, ancora un commento sparso sulle nuove false comunicazioni sociali, in Dir. pen. contemp. 2015; Musco, I nuovi reati societari, Milano, 2007; Napoleoni, Introduzione artt. 2621-2641, in Bonfante, Corapi, De Angelis, a cura di Napoleoni, Rordorf, Salafia, Codice commentato delle società. Società di persone - Società di capitali - Cooperative - Consorzi - Reati societari, Milano, 2011; Pedrazzi, In memoria del falso in bilancio, in Riv. soc. 2001; Perini, I «fatti materiali non rispondenti al vero»: Harakiri del futuribile falso in bilancio?, in Dir. pen. contemp. 2015; Piva, Le Sezioni Unite sulle valutazioni: dai finti ai veri problemi delle nuove false comunicazioni sociali, in Dir. pen. contemp. 2016; Pulitanò, Ermeneutiche alla prova. La questione del falso valutativo, in Dir. pen. contemp. 2016; Scoletta, Le parole sono importanti? «Fatti materiali», false valutazioni di bilancio e limiti all'esegesi del giudice penale, in Dir. pen. contemp. 2016; Seminara, La riforma dei reati di false comunicazioni sociali, in Dir. pen. proc. 2015.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario