Decreto legislativo - 17/01/2003 - n. 5 art. 36 - Decisione secondo diritto 1 2
[1. Anche se la clausola compromissoria autorizza gli arbitri a decidere secondo equità ovvero con lodo non impugnabile, gli arbitri debbono decidere secondo diritto, con lodo impugnabile anche a norma dell'articolo 829, secondo comma, del codice di procedura civile quando per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validità di delibere assembleari. 2. La presente disposizione si applica anche al lodo emesso in un arbitrato internazionale.] [1] A norma dell'articolo 245, comma 1, del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 le norme di cui al presente articolo si applicano ai procedimenti giudiziari ed agli arbitrati che siano iniziati con atto notificato oppure con deposito del ricorso sei mesi dopo l'entrata in vigore del codice della proprietà industriale di cui al medesimo D.Lgs. 30/2005. [2] Articolo abrogato dagli articoli 10, comma 2, e 37, comma 1, lettera c) del D.lgs 10 ottobre 2022, n. 149 con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023, come stabilito dall'articolo 35, comma 1, del D.Lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall'articolo 1, comma 380, lettera a), della Legge 29 dicembre 2022, n. 197. InquadramentoGli artt. 34 e ss. del d.lgs. n. 5/2003 hanno introdotto una disciplina speciale dell'arbitrato destinata a trovare applicazione nelle controversie societarie. Recentemente, la riforma del processo civile di cui al d.lgs. n. 149/2022 ha introdotto importanti modifiche alla disciplina dell'arbitrato in generale e a quello societario in particolare. Conseguentemente, gli artt. 34,35 e 36 d.lgs. n. 5/2003 sono stati abrogati e sono stati inseriti gli artt. 838-bis e seguenti nel codice di procedura civile (di contenuto sostanzialmente analogo). La disciplina dell'arbitrato societario introdotta nel 2003, per come strutturata, ha tentato di superare alcune criticità emerse nella passata esperienza relativamente al carattere spesso plurisoggettivo delle controversie che vedono coinvolte un numero considerevole di parti ed il possibile coinvolgimento di interessi generali e pubblicistici diversi da quelli propri delle parti. In questa ottica si spiega, da un lato, la norma che devolve la nomina di tutti gli arbitri ad un soggetto estrano alla società ed alla sua compagine sociale e, dall'altra, la preclusione alla compromettibilità delle controversie che abbiano ad oggetto diritti indisponibili relativi al rapporto sociale. Il doppio binario.Il primo problema che si è posto all'indomani della riforma ha riguardato la possibilità di inserire negli statuti societari clausole compromissorie di «diritto comune» che non demandassero, cioè, la nomina di tutti gli arbitri ad un soggetto terzo (sulla problematica, in generale, Cerrato, 2011, 1080). Secondo un orientamento manifestatosi in giurisprudenza, l'arbitrato societario di cui al d.lgs. n. 5/2003 è da considerarsi alternativo rispetto all'arbitrato di diritto comune, sia rituale sia irrituale, cosicché è rimessa alla discrezione delle parti la scelta di utilizzare l'arbitrato di diritto comune in materia societaria anche dopo l'entrata in vigore della nuova normativa (così, Trib. Modena, 7 ottobre 2011, in ilcaso.it; App. Torino, 29 marzo 2007, in Giur. it., 2007, 2237; Trib. Torino, 25 novembre 2012; Trib. Bologna, 17 giugno 2008, secondo il quale allorché una clausola compromissoria per arbitrato rituale, inserita nello statuto di una società, non rispetta i dettami della sopravvenuta riforma del diritto societario processuale, sub specie di nomina degli arbitri da parte di un terzo estraneo alla compagine sociale, tale clausola deve tuttavia considerarsi ultrattiva; è pertanto ammissibile l'opzione tra la clausola compromissoria statutaria per arbitrato societario e la clausola compromissoria statutaria per arbitrato di diritto comune; al mancato adeguamento delle clausole preesistenti consegue la loro ultrattività, e quindi l'applicazione della disciplina codicistica sull'arbitrato rituale di cui agli artt. 806 ss. c.p.c.). Oggi, al contrario, si afferma costantemente che la norma dell'art. 34 d.lgs. n. 5/2003, contempla l'unica ipotesi di clausola compromissoria che possa essere introdotta negli atti costitutivi delle società, ad eccezione di quelle che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio a norma dell'art. 2325-bis c.c., restando escluso il ricorso in via alternativa od aggiuntiva alla clausola compromissoria di diritto comune prevista dall'art. 808 c.p.c. Ne consegue che se, in violazione di tale prescrizione, l'atto costitutivo preveda invece una forma di clausola compromissoria che non rispetti i requisiti, in punto di nomina, degli arbitri indicati dalla norma speciale, la nullità di tale pattuizione comporta che la controversia societaria possa essere introdotta soltanto davanti all'autorità giudiziaria ordinaria (Cass. n. 15892/2011; Cass. n. 15841/2015, che ha stabilito che la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario, la quale non preveda, non adeguandosi alla prescrizione dell'art. 34 del d.lgs. n. 5/2003, che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società, è nulla dalla data d'entrata in vigore del citato decreto e, nel caso di arbitrato irrituale, anche nel caso in cui il procedimento arbitrale sia stato avviato prima di tale momento, dovendosi ritenere che la previsione di inapplicabilità della nuova disciplina “ai giudizi pendenti”, stabilita dall'art. 41 del d.lgs. n. 5/2003, sia intesa a far salvi gli eventuali giudizi arbitrali in corso alla data di entrata in vigore del decreto, ma non già gli effetti della clausola arbitrale preesistente, che costituisce negozio e non atto processuale; da ultimo, Cass. n. 23550/2017). Si è così affermato che sussiste la responsabilità disciplinare del notaio ai sensi dell'art. 28, comma 1, n. 1, l. not., per avere redatto un atto espressamente proibito dalla legge, allorché sia stato rogato, a decorrere dal 1 settembre 2011, un atto costitutivo di società con previsione di clausola compromissoria di arbitrato di diritto comune e, quindi, difforme dal disposto dell'art. 34, comma, 2 d.lgs. n. 5/2003. Infatti, solo dalla fine di agosto 2011, essendo decorso il tempo necessario alla diffusione delle due pronunzie di Cass. n. 24867/2010 e Cass. n. 15892/2011, può ritenersi pacifica l'interpretazione dell'art. 34 comma 2 cit., come comportante la nullità della clausola arbitrale che attribuisca il potere di nomina degli arbitri ad un soggetto interno alla società: solo da tale data, pertanto, la nullità comminata dall'art. 34, comma 2, cit., può essere considerata inequivoca (Cass. n. 21202/2011). Inoltre, è stato precisato che la clausola compromissoria contenuta nello statuto societario, la quale non preveda che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società, è nulla anche ove si tratti di arbitrato irrituale, per contrarietà con norma imperativa, non essendo possibile applicare la tesi del cosiddetto doppio binario, in quanto la nullità comminata dall'art. 34 è volta a garantire il principio di ordine pubblico dell'imparzialità della decisione (Cass. n. 23550/2017; Cass. n. 21422/2016; Trib. Roma, 6 luglio 2017). Clausola compromissoria ed arbitrato irrituale.La giurisprudenza, dopo qualche iniziale pronunzia di segno contrario, è pervenuta alla conclusione che gli statuti sociali possono prevedere clausole compromissorie per arbitrato irrituale, precisando però che, in tal caso, devono necessariamente applicarsi le disposizioni di cui al d.lgs. n. 5/2003 (Cass. n. 15841/2015; Cass. n. 3665/2014). La dottrina ha concluso nello stesso senso (per tutti, Zucconi Galli Fonseca, 110). Il conferimento del potere di nomina di tutti gli arbitri ad un soggetto estraneo alla societàLa clausola compromissoria statutaria deve conferire «in ogni caso, a pena di nullità, il potere di nomina di tutti gli arbitri a soggetto estraneo alla società». La norma risponde ad una duplice esigenza. Da un lato, essa assicura l'imparzialità dell'intero collegio arbitrale, vietando sia clausole che rimettono a ciascuna delle parti la designazione di un arbitro, sia quelle che demandano la nomina del collegio ad uno degli organi della società. Sotto altro profilo, la norma risolve il problema delle liti multiparti, nelle quali la presenza di più di due parti (circostanza questa frequente soprattutto nelle azioni di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci di società di capitali) rende difficile la formazione di un collegio arbitrale dispari. Il soggetto incaricato di procedere alla nomina degli arbitri non deve avere alcun legale di tipo formale (partecipativi, organici, ma anche contrattuali) con la società, pena la nullità della nomina ed un vizio di costituzione del collegio. La clausola compromissoria contenuta nello statuto societario la quale, non adeguandosi alla prescrizione dell'art. 34 del d.lgs. n. 5/2003, non preveda che la nomina degli arbitri debba essere effettuata da un soggetto estraneo alla società è nulla (Cass. n. 25610/2018). L'ambito soggettivo della clausola. Le controversie coinvolgenti amministratori, liquidatori e sindaci.Il comma 3 dell'art. in commento dispone che la clausola è vincolante per la società e per tutti i soci, inclusi coloro la cui qualità di socio è oggetto della controversia. La norma, dunque, esprime il principio di vincolatività della clausola compromissoria inserita nello statuto. La vincolatività per i soci fondatori discende direttamente dal principio consensualistico e, precisamente, dal consenso da questi manifestato in sede di conclusione dell'atto costitutivo; parimenti la vincolatività per la società deriva dal fatto che la società che nasce dal contratto sociale è soggetta a quest'ultimo. L'efficacia vincolante della clausola si espande, poi, a coloro che abbiano acquistato la qualifica di socio successivamente al perfezionamento dell'atto costitutivo, aderendo volontariamente all'assetto organizzativo complessivo della società (risultante dal registro delle imprese e, dunque, conoscibile dall'acquirente della partecipazione) e, quindi, anche alle modalità di soluzione delle liti insorgenti tra soci ovvero tra soci e società (Cavallini, par. 2, che precisa che ciò vale quand'anche le stesse non siano specificamente menzionate nell'atto di adesione alla società, poiché esse rappresentano un tratto qualificante dell'intero assetto societario, necessariamente esplicitato nell'atto costitutivo o nello statuto, e, pertanto, non ignorabile scusabilmente da parte del socio entrante). Si precisa, peraltro, che, qualora l'ingresso di un nuovo socio nella compagine sociale comporti (come accade nelle società di persone) una modificazione del contratto sociale, si deve considerare necessaria una nuova manifestazione di volontà da parte di tutti i soci (anche) in ordine alla scelta di devolvere in arbitrato le liti societarie (Cavallini, par. 2 che evidenzia che, nelle società di persone l'acquisto dello status di socio si basa sull'intuitus personae e comporta non solo l'accettazione di un regime di responsabilità). Peraltro, la vincolatività della clausola opera anche con riferimento a coloro che hanno acquisito la qualità di soci in virtù di un aumento di capitali (Capelli, 161). È stato, peraltro, affermato che, in tema di società di persone, in mancanza di una esplicita previsione statutaria che estenda l'arbitrabilità delle controversie societarie agli eredi del socio, questi ultimi, anche se titolari di un diritto di credito alla liquidazione della quota, sono estranei alla società e, pertanto, non possono promuovere la causa per ottenere tale liquidazione davanti agli arbitri (Cass. n. 2164/2023). L'ulteriore inciso del comma 3 estende la vincolatività della clausola anche a coloro «la cui qualità di socio è oggetto della controversia». Si evidenzia, sul punto, che le controversie in ordine alla titolarità della qualifica e dei diritti organizzativi e patrimoniali del socio coinvolgono certamente «diritti disponibili relativi al rapporto sociale», investendo la struttura costitutiva del «rapporto sociale» (così, esattamente Cavallini, par. 2). Sono soggette alla operatività della clausola le controversie aventi ad oggetto il recesso o l'esclusione del socio (Capelli, 165). Secondo un orientamento, la norma in commento non predispone un ambito di operatività della clausola maggiore rispetto alle altre clausole statutarie, essendo comunque sempre necessario, ai fini dell'avvio del procedimento arbitrale, appurare se, effettivamente, vi sia stata l'acquisizione della qualità di socio (Capelli, 166). In particolare, si distingue tra l'ipotesi in cui la controversia sulla qualità di socio riguardi fatti estintivi di essa e l'ipotesi in cui essa riguardi fatti costitutivi della qualità di socio: nel primo caso, sussiste sempre e comunque la competenza arbitrale, mentre, nel secondo, tale competenza sussisterebbe solo se vi è stata, effettivamente, l'acquisizione della qualità di socio (così, Luiso, 713). La clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società per azioni, che preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie connesse al contratto sociale, deve ritenersi estesa alla controversia riguardante il recesso del socio dalla società (Cass. n. 22303/2013; Cass. n. 10399/2018, secondo la quale la controversia avente per oggetto la legittimità del recesso del socio di società per azioni, coinvolgendo esclusivamente lo status del predetto e il suo diritto, di natura esclusivamente patrimoniale, alla liquidazione del valore delle azioni, una volta accertato il sua diritto ad abbandonare la compagine sociale, attiene a diritti disponibili ed è, pertanto, suscettibile di dare luogo ad un arbitrato rituale, sia esso di diritto comune che endosocietario; è del tutto irrilevante che dal recesso del socio possano derivare conseguenze di natura patrimoniale anche in capo agli altri soci e ai terzi creditori della compagine sociale – per effetto del meccanismo dell'art. 2437-quater, comma 6, c.c. che in caso di mancato collocamento tra i soci o i terzi delle azioni del socio receduto, prevede, in ultima istanza, la necessità di ridurre il capitale sociale della società – trattandosi di effetti patrimoniali, quelli che si riverberano sul capitale della società, potenzialmente derivanti da ogni tipo di controversia di natura economica che possa insorgere tra società e soci e, pur tuttavia, non certo tali da rendere indisponibile i diritti in discussione). Nella giurisprudenza di merito, nello stesso senso, Trib. Pavia 19 ottobre 2021, in DeJure). È cogente e vincolante la clausola statutaria che rimette in arbitrato le controversie tra soci e società anche quando abbiano ad oggetto l'accertamento della qualità di socio. Una siffatta previsione deve essere interpretata secondo un criterio che ne estende la validità a tutte le controversie aventi la propria causa petendi nel contratto che contiene la clausola compromissioria (Trib. Catania, 8 luglio 2016, in giurisprudenzadelleimprese.it). Il comma 4 dell'art. 34 prevede, infine, che gli atti costitutivi possono prevedere che la clausola abbia ad oggetto controversie promosse da amministratori, liquidatori e sindaci ovvero nei loro confronti e, in tale caso, essa, a seguito dell'accettazione dell'incarico, è vincolante per costoro. Come è stato efficacemente affermato, dunque, mentre il socio è assoggettato alla clausola arbitrale per mezzo di un atto di adesione al contratto di società, l'organo sociale, analogamente, soggiace al patto compromissorio per mezzo di un atto di accettazione dell'incarico offertogli (Cavallini, par. 2). Taluni discorrono di «consenso implicito» (Zucconi Galli Fonseca; Nobili, 929). Altra parte della dottrina evidenzia come il coinvolgimento di tali soggetti discenda dalla stessa collocazione della clausola tra le regole del gruppo organizzato, alle quali tali soggetti sono sottoposti in virtù della stessa posizione assunta in senso all'ente (Capelli, 168). Come detto, dunque, l'efficacia della clausola nei confronti degli organi sociali presuppone l'accettazione dell'incarico con la conseguenza che la clausola non è vincolante ove l'interessato neghi di avere compiuto tale accettazione (Luiso, 713). La norma in commento non sembra estensibile ad altri soggetti che non partecipano all'esercizio dell'attività comune ovvero che vi partecipano, ma non in qualità di soci o di componenti degli organi sociali, ancorché intrattengano specifici rapporti con la società come ad es.: i creditori della società, i lavoratori, i titolari di strumenti finanziaria partecipativi, i titolari di obbligazioni, non convertibili o convertibili in azioni, i portatori di titoli di debito, i finanziatori di uno specifico affare (Cabras, 279; Capelli, 168). È dubbio se siano soggetti alla clausola coloro che vantano vincoli sulle azioni o quote, per pegno o usufrutto o sequestro (in senso affermativo, Cabras, 280, secondo il quale essi godono dei diritti sociale e partecipano all'ordinamento sociale, assoggettandosi ad esso). Altrettanto dubbio è se l'operatività della clausola si estenda ad altre cariche sociali, quali i direttori generali, i revisori contabili, i componenti dei consigli di gestione e di sorveglianza, il revisore ex art. 2477 (in senso favorevole, Zucconi Galli Fonseca, 111; Cavallini, par. 2). In senso contrario, può fondatamente argomentarsi dalla eccezionalità della previsione del comma 4 dell'art. in commento. Inoltre, sotto il profilo oggettivo del contenuto della clausola compromissoria, la dottrina ritiene che l'estensione alle controversie che involgono amministratori, liquidatori e sindaci deve essere esplicita non essendo sufficiente, ai fini di una automatica inclusione di tali controversie nella clausola, il mero richiamo alle controversie tra soci ovvero tra soci e società (Luiso, 713). L'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una persona giuridica privata è compromettibile in arbitri, concernendo essa, pur se posta a tutela di un interesse “collettivo”, diritti patrimoniali disponibili all'interno di un rapporto contrattuale, senza coinvolgere interessi di terzi estranei, se non in modo eventuale ed indiretto, ferma l'inapplicabilità dell'art. 34 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, alla relativa clausola statutarie, trattandosi di disposizione dettata per l'arbitrato societario (Cass. n. 3887/2014). Secondo Cass. n. 26300/2017, l'azione di responsabilità nei confronti dei componenti degli organi sociali investe diritti patrimoniali disponibili, come si evince dall'esserne espressamente ammessa la rinunciabilità e la transigibilità e dunque, nulla osta alla sua arbitrabilità, neppure laddove, essa ai sensi dell'art. 2476, comma 3, sia promossa dal socio). Su quest'ultimo punto, però, la giurisprudenza di legittimità ha più di recente affermato che la clausola compromissoria inserita nell'atto costitutivo di una società, che preveda la possibilità di deferire agli arbitri le controversie tra i soci e quelle tra la società e i soci, non include anche l'azione di responsabilità ex art. 2476 c.c. promossa dal socio nei confronti dell'amministratore , essendo irrilevante che quest'ultimo sia anche socio della società (Cass. n. 33149/2022e Cass. 19944/2021). Più dubbio un caso affrontato dal Tribunale di Milano, il quale ha stabilito che la clausola arbitrale che abbia ad oggetto le controversie promosse da o contro componenti degli organi sociali vincola anche l'amministratore che ne abbia proposto all'assemblea l'introduzione e che si sia dimesso contestualmente all'approvazione della clausola compromissoria, restando tuttavia in carica in regime di prorogatio (Trib. Milano, 13 febbraio 2009, in Giur. it., 2009, 2733). Il giudice al quale, per clausola arbitrale contenuta nello statuto di società di capitali, è attribuito il compito di nominare gli arbitri per la decisione delle controversie fra la società e i suoi amministratori non può provvedervi nel caso in cui il fallimento della società che gli richiede detta nomina intenda esercitare nei confronti degli ex amministratori sia l'azione risarcitoria spettante alla società, sia quella competente ai creditori sociali per il ristoro dei danni conseguenti alla determinata insufficienza del patrimonio sociale (Trib. Roma 9 dicembre 2019, in Foro it., 2020, 2, I, 727). Infatti, la clausola compromissoria contenuta nello statuto non può ricomprendere nel suo ambito applicativo anche l'azione dei creditori sociali, non essendo nei confronti di questi ultimi vincolante lo statuto medesimo. Parimenti controverso è se la clausola compromissoria contenuta nello statuto sia vincolante anche per l'amministratore di fatto. In senso favorevole, muovendo dalla circostanza che l'accettazione della carica possa anche avvenire in modo tacito mediante atti inequivoci, si è espressa una parte della giurisprudenza di merito secondo la quale qualora la clausola compromissoria contenuta nello statuto della società devolva alla cognizione arbitrale ogni controversia promossa nei confronti degli amministratori, sindaci e liquidatori che abbia ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale, nella competenza degli arbitri rientrano anche le controversie risarcitorie promosse nei confronti del c.d. amministratore di fatto (Trib. Roma, 10 settembre 2014, in ilcaso.it). Nello stesso senso si è orientato il Tribunale di Milano, il quale ha affermato che la clausola arbitrale che abbia ad oggetto le controversie promosse da o contro componenti degli organi sociali comprende anche quelle promosse da o contro un amministratore di fatto (Trib. Milano, 22 agosto 2012, in Soc., 2012, 1244; Trib. Milano, 13 febbraio 2009, in Giur. it., 2009, 2733: nel caso di specie la controversia si riferiva a condotte tenute da un soggetto che aveva svolto di fatto attività di amministrazione prima di essere formalmente nominato amministratore). In senso contrario, tuttavia, potrebbe evidenziarsi come appare difficile immaginare che l'amministratore di fatto accetti l'intero regolamento contrattuale che prevede anche una nomina formale cui egli si è sottratto e che è difficile intravedere un accordo tra amministratore di fatto e società. L'adesione degli amministratori alla clausola compromissoria da altri (i soci) predisposta con la redazione dello statuto, effettuata attraverso l'accettazione della carica, non ha effetto nei soli confronti della società, controparte del rapporto contrattuale, ma anche verso gli altri amministratori, pur in difetto di un rapporto contrattuale intercorrente specificamente con essi (Trib. Torino, 27 febbraio 2015, in Ilsocietario.it). Sull'argomento è intervenuta recentemente la giurisprudenza di legittimità avallando il primo orientamento ora esposto. È stato, infatti, affermato che la clausola arbitrale dettata per dirimere le controversie con gli amministratori è applicabile non solo all'amministratore nominato dall'assemblea, ma anche all'amministratore di fatto, cioè colui che sia stato nominato in modo invalido o abbia iniziato ad esercitare le funzioni prima della formale nomina e accettazione, oppure che abbia usurpato le funzioni ad altri, comportandosi come rappresentante senza averne i poteri, poiché, trattandosi di soggetto in grado di rivestire pienamente un rapporto organico all'interno della struttura organizzativa della società, è parimenti destinatario dei diritti e degli obblighi che conseguono alla funzione, incluse le previsioni statutarie riguardanti gli amministratori (Cass. n. 3271/2023). La clausola arbitrale per arbitrato rituale inserita nello statuto è vincolante per chi ha aderito a suo tempo alla società in qualità di socio nonché per gli amministratori (Trib. Venezia 3 settembre 2015, n. 2799). Le pretese riguardanti un diritto patrimoniale e disponibile, quale la richiesta del compenso e del risarcimento del danno per assenza di giusta causa di revoca dalla carica di amministratore della società, possono rientrare senza dubbio nella previsione di una clausola arbitrale, in quanto si tratta di liti che vedono coinvolti la società e gli (ex) amministratori e che traggono origine dal rapporto associativo (Trib. Trento 14 novembre 2022, in DeJure). In tema di arbitrato, la clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società non è opponibile allo Stato, divenuto socio a seguito della confisca delle partecipazioni societarie ai sensi dell'art. 416-bis, comma 7, c.p., poiché la deroga alla competenza dell'autorità giurisdizionale può operare solo a seguito di una scelta volontaria, mentre, in caso di confisca, l'ingresso in società dello Stato si verifica "ex lege" per effetto di un acquisto a titolo originario, che piega lo scopo sociale alla finalità di conservazione del patrimonio aziendale per il tempo necessario alla definitiva destinazione dei beni confiscati (Cass. n. 6068/2021. Nella specie, la S.C., in sede di regolamento di competenza, ha escluso l'operatività della clausola compromissoria statutaria in riferimento all'azione di responsabilità promossa ex art. 2476 c.c. dallo Stato, quale socio unico di una s.r.l. a cui erano state confiscate tutte le partecipazioni societarie). Le controversie arbitrabili.L'art. 34, comma 1, (oggi art. 838-bis c.p.c.), prevede la possibilità di devolvere in arbitrato le controversie che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale. L'individuazione dell'area e del perimetro dei «diritti disponibili» costituisce la questione maggiormente dibattuta in tema di arbitrato societario (sul punto, in generale, Capelli, 170 ss. anche per i riferimenti ivi menzionati). Le controversie in materia societaria possono, in linea generale, formare oggetto di compromesso, con esclusione di quelle che hanno ad oggetto interessi della società o che concernono la violazione di norme poste a tutela dell'interesse collettivo dei soci o dei terzi; peraltro, l'area della indisponibilità deve ritenersi circoscritta a quegli interessi protetti da norme inderogabili, la cui violazione determini una reazione dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte, quali le norme dirette a garantire la chiarezza e la precisione del bilancio di esercizio (Cass. n. 18600/2011, che ha ritenuto non compromettibile in arbitri l'azione di revoca per giusta causa di un amministratore di società in accomandita semplice ex art. 2259 c.c., in relazione agli artt. 2315 e 2293 c.c., non facendo eccezione – come invocato nella specie – la avvenuta insorgenza della controversia fra coniugi altresì soci in detta società). Attengono a diritti indisponibili, come tali non compromettibili in arbitri ex art. 806 c.p.c., soltanto le controversie relative all'impugnazione di deliberazioni assembleari di società aventi oggetto illecito o impossibile, le quali danno luogo a nullità rilevabile anche di ufficio dal giudice, cui sono equiparate, ai sensi dell'art. 2479-ter c.c., quelle prese in assoluta mancanza di informazione, sicché la controversia che abbia ad oggetto l'interpretazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea di una società a responsabilità limitata, in cui si discuta esclusivamente se concerna le dimissioni del ricorrente dalla carica di amministratore delegato o anche da quella di componente del consiglio di amministrazione, in quanto suscettibile di transazione, può essere deferita ad arbitri (Cass., n. 16265/2013). In presenza di clausola statutaria che devolve ad un arbitro nominato dal presidente del tribunale le controversie fra soci e società, compete al giudice-arbitro, e non al tribunale delle imprese, conoscere della domanda proposta da un socio di società di capitali nei confronti della stessa società per ottenere la restituzione delle somme ad essa versate a titolo di finanziamento (Trib. Roma, 3 maggio 2017, in Foro it., 2018, I, 233). La clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società per azioni, che preveda la devoluzione ad arbitri delle controversie connesse al contratto sociale, deve ritenersi estesa alla controversia riguardante il recesso del socio dalla società (Cass. n. 22303/2013; Cass. n. 10399/2018 secondo la quale la controversia avente per oggetto la legittimità del recesso del socio di società per azioni, coinvolgendo esclusivamente lo status del predetto e il suo diritto, di natura esclusivamente patrimoniale, alla liquidazione del valore delle azioni, una volta accertato il sua diritto ad abbandonare la compagine sociale, attiene a diritti disponibili ed è, pertanto, suscettibile di dare luogo ad un arbitrato rituale, sia esso di diritto comune che endosocietario; è del tutto irrilevante che dal recesso del socio possano derivare conseguenze di natura patrimoniale anche in capo agli altri soci e ai terzi creditori della compagine sociale – per effetto del meccanismo dell'art. 2437-quater, comma 6, c.c., che in caso di mancato collocamento tra i soci o i terzi delle azioni del socio receduto, prevede, in ultima istanza, la necessità di ridurre il capitale sociale della società – trattandosi di effetti patrimoniali, quelli che si riverberano sul capitale della società, potenzialmente derivanti da ogni tipo di controversia di natura economica che possa insorgere tra società e soci e, pur tuttavia, non certo tali da rendere indisponibile i diritti in discussione). Non sono compromettibili in arbitri le controversie relative allo scioglimento di una società di persone (Trib. Salerno, 12 aprile 2007, in Giur. comm., 2008, II, 865; Trib. Ravenna, 3 febbraio 2006, in Corr. mer., 2006, 840). La questione relativa alla legittimità delle modifiche apportate al regolamento interno della società, coinvolgendo esclusivamente gli interessi dei soci e attenendo al funzionamento interno dell'ente, risultando irrilevante per ogni soggetto estraneo alla compagine sociale, può essere oggetto di devoluzione al collegio arbitrale se previsto dalla clausola compromissoria inserita nello statuto, con la cui formulazione l'autonomia privata dei soci ha espresso la volontà di prescindere completamente dalla tutela giurisdizionale ordinaria (Trib. Roma, 23 febbraio 2016, in IlSocietario.it). L'area della non compromettibilità ex art. 34 d.lgs. n. 5/2003 è ristretta alla assoluta indisponibilità del diritto e, quindi, alle sole nullità insanabili, non già a quelle soggette al termine di denuncia di cui agli artt. 2479-ter e 2434-bis c.c. (Trib. Milano, 4 ottobre 2012). Il rapporto che lega l'amministratore alla società è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, dovendo essere, piuttosto, ascritto all'area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court, sicché le controversie tra amministratori e società, anche se specificamente attinenti al profilo “interno” dell'attività gestoria ed ai diritti che ne derivano agli amministratori (quale, nella specie, quello al compenso), sono compromettibili in arbitri, ove tale possibilità sia prevista dagli statuti societari (Cass. n. 2759/2016). La clausola statutaria che prevede la devoluzione ad un collegio arbitrale delle controversie tra soci e società inerenti a diritti disponibili relativi al rapporto sociale, non opera con riferimento alle controversie relative a rapporti concernenti la cessione di quote sociali, non potendo né la qualità di soci delle parti né l'oggetto del rapporto contrattuale costituito dalla partecipazione societaria estendere in alcun modo l'ambito di applicazione della clausola compromissoria, posto che il contratto sociale costituisce il presupposto storico dell'azione ma non la causa petendi della stessa (Trib. Milano, 3 agosto 2015, in IlSocietario.it). Segue. L'impugnazione delle deliberazioni assembleari in generaleIn via generale, nessun dubbio sussiste in ordine alla compromettibilità delle controversie aventi ad oggetto l'impugnazione delle deliberazioni assembleari. Secondo tuttavia taluni, dalla previsione dell'art. 35, comma 5, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5 (che stabilisce che se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari gli arbitri possono sospendere gli effetti della delibera impugnata), dovrebbe trarsi la conclusione che tali controversie non rientrano nella fattispecie generale disciplinata dall'art. 34, comma 1, con la conseguenza che, a meno che la clausola statutaria non riproduca pedissequamente la locuzione dell'art. 35 cit., tali cause, che non sorgono in dipendenza dell'attività sociale (di impresa), ma attengono al piano del corretto funzionamento dell'organizzazione societaria, non possono ritenersi comprese fra quelle devolute alla competenza arbitrale. In altre parole, per sottoporre all'arbitrato societario le questioni relative alla validità delle deliberazioni assembleari, sarebbe richiesta una specifica disposizione statutaria in tale senso, non essendo sufficiente un generico riferimento alle controversie aventi ad oggetto diritti relativi al rapporto sociale (Cabras, 289 ss.; sul punto, Capelli, 198). Secondo però l'orientamento maggioritario il generico riferimento contenuto nell'art. 34 che consente la devoluzione in arbitrato di «tutte le controversie insorgenti tra i soci ovvero tra i soci e la società che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale» consente di ritenere incluse, senza necessità di una specifica menzione, anche le impugnazioni delle deliberazioni: manca, infatti, una norma che, ai fini della inclusione nell'area dell'arbitrabilità, esplicitamente richieda, all'interno della clausola compromissoria, la specifica indicazione di tali controversie (Capelli, ivi; Zucconi Galli Fonseca, 18). La giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 17238/2015) ha, però, chiarito che l'assunto non può essere condiviso, atteso che non v'è alcun argomento (né letterale né, tantomeno, di natura sostanziale) dal quale possa desumersi che il legislatore abbia inteso escludere le controversie aventi ad oggetto la validità delle delibere assembleari (ovvero proprio quelle tipicamente insorgenti fra la società ed i soci in relazione ai rapporti sociali) dal novero di quelle arbitrabili, ai sensi dell'art. 34, comma 1, cit., qualora abbiano ad oggetto diritti disponibili. Al contrario, proprio perché le controversie in questione rientrano indubitabilmente nel perimetro di applicazione dell'art. 34, il legislatore ha ritenuto necessario (in ragione della loro indubbia peculiarità, della necessità di una loro rapida risoluzione e della particolare natura degli interessi coinvolti) assoggettarle ad un'apposita disciplina, attribuendo agli arbitri cui spetta di deciderle, in deroga alla previsione generale, anche il potere (di natura cautelare) di sospendere la delibera impugnata e inoltre specificando, all'art. 36, che la decisione ad esse relativa deve essere assunta secondo diritto anche nel caso in cui la clausola compromissoria disponga diversamente. In tale ottica l'espressione «...ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari», contenuta nell'art. 35, vale dunque ad individuare l'unica ipotesi in cui ricorre una deroga alla regola generale dettata nel primo periodo del medesimo articolo, e non può essere interpretata come volta a stabilire che dette controversie possono essere devolute agli arbitri solo se espressamente menzionate nella clausola compromissoria. Nella dizione dell'art. 36 d.lgs. n. 5 del 2003, che impone la decisione arbitrale secondo diritto e sempre impugnabile per «errores in judicando», ove riguardante invalidità delle delibere assembleari, deve comprendersi anche, per via estensiva, l'arbitrato su quelle delle delibere consiliari, viziate ai sensi dell'art. 2388 c.c. La ratio degli art. 34 ss. d.lgs. n. 5 del 2003, infatti, è quella di ampliare la tutela del socio verso il frutto del potere di deliberazione nelle società e di chiarire così, per tutte le delibere, i limiti oggettivi dell'arbitrato societario. Irragionevole sarebbe peraltro escludere dall'ambito applicativo dell'art. 36 d.lg. n. 5 del 2003 gli arbitrati su delibere consiliari, posta l'assimilabilità tra impugnative di delibere dell'assemblea dei soci e del c.d.a. già sostenuta prima della riforma del diritto societario di cui al d.lg. n. 6 del 2003 e da questa recepita con la riformulazione dell'art. 2388 comma 4 c.c. che fa esplicito rinvio, per le impugnative di delibere consiliari, agli artt. 2377 e 2378 c.c., dedicati a quelle di delibere assembleari (Cass. n. 28/2013). L'impugnazione di delibere societarie aventi ad oggetto operazioni sul capitale sociale, per aumento o riduzione, è compromettibile in arbitri allorquando, in ragione della prospettazione offerta dalle parti, la corrispondente controversia non investa, in modo diretto e non semplicemente mediato, gli interessi - dei soci, della società o di terzi ad essa estranei - protetti da norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte, diversamente finendosi per devolvere agli arbitri diritti (sostanziali) inderogabili protetti da una specifica norma che li regola (Cass. n. 9434/2023). La controversia avente ad oggetto l'esecuzione della delibera di aumento del capitale sociale di una società è compromettibile in arbitri, ai sensi dell'art. 34, comma 1, del d.lgs. n. 5/2003, poiché relativa a diritti inerenti al rapporto sociale inscindibilmente correlati alla partecipazione del socio, sicché, nel caso di fallimento della società, la clausola compromissoria statutaria resta opponibile al curatore fallimentare che agisca per l'esecuzione dell'aumento deliberato (Cass. n. 2444/2019. Nella specie, la S.C. ha riconosciuto la competenza arbitrale nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso su richiesta del curatore dal giudice delegato, ex art. 150 l.fall., nei confronti di un socio della fallita per i versamenti ancora dovuti). La controversia avente ad oggetto la validità di una delibera assembleare, con cui è stata disposta la trasformazione di una società di persone in società di capitali, è compromettibile in arbitri, ai sensi dell'art. 34, comma 1, d.lgs. n. 5/2003, in quanto non attiene a diritti indisponibili, ma riguarda i soci e la società in relazione ai rapporti sociali, essendo necessario distinguere la natura inderogabile delle norme, che gli arbitri devono applicare per risolvere la controversia, rispetto alla indisponibilità del diritto controverso (Cass. 10433/2022). Segue. L'impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio.Un tema assai dibattuto è la possibilità di devolvere in arbitrato la cognizione della controversia avente ad oggetto l'impugnazione della deliberazione di approvazione del bilancio allorquando sia dedotta la violazione delle norme dirette a garantirne la chiarezza e la precisione. In particolare, secondo un certo indirizzo (prevalente in dottrina, cfr., per una panoramica degli orientamenti, Cerrato, 2008, 197 ss.), l'impugnazione delle delibere assembleari di approvazione del bilancio di s.p.a. è deferibile ad arbitri anche se si discuta della violazione delle regole di chiarezza, veridicità e correttezza e di impiego delle riserve. Si evidenzia, in particolare, che dovrebbero escludersi dalla compromettibilità in arbitri solo le controversie aventi ad oggetto assolutamente indisponibili sulla base di norme inderogabili. La giurisprudenza sembra, invece, orientata nel senso di escludere simili controversie dall'area della compromettibilità. Per come si legge in uno dei più importanti e recenti arresti della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 20674/2016), premesso che, in linea generale, non possono costituire oggetto di compromesso le controversie riguardanti interessi della società o la violazione di norme poste a tutela dell'interesse collettivo dei soci o dei terzi, si è osservato che, ai fini dell'esclusione della deferibilità al giudizio degli arbitri, non è di per sé sufficiente la natura sociale o collettiva dello interesse, la quale ne comporta soltanto la sottrazione alla volontà individuale dei singoli soci, ma non ne implica l'indisponibilità da parte della volontà collettiva espressa dalla società, secondo le regole della propria organizzazione interna, occorrendo invece che la sua protezione sia affidata a norme inderogabili, la cui violazione determina una reazione da parte dell'ordinamento svincolata da qualsiasi iniziativa di parte (cfr. Cass. n. 3772/2005; Cass. n. 18600/2011). Tali caratteristiche sono state riconosciute, in particolare, alle norme che disciplinano la contabilità sociale con la finalità di assicurare la chiarezza e la precisione dei bilanci, osservandosi che le stesse non solo sono imperative, ma contengono principî dettati a tutela, oltre che dell'interesse dei singoli soci ad essere informati dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere l'effettiva situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente, e sono pertanto inderogabili, in quanto la loro violazione rende illecita, e quindi nulla, la delibera di approvazione (Cass. n. 13031/2014). Al contrario, non merita condivisione l'orientamento, ancorché abbastanza diffuso nella giurisprudenza di merito, secondo il quale l'area della non compromettibilità in arbitri dev'essere limitata alle sole controversie aventi ad oggetto diritti assolutamente indisponibili, da individuarsi con riferimento non già all'inderogabilità delle norme che li disciplinano, ma all'insanabilità della nullità determinata dalla loro violazione, e quindi all'esclusione dell'assoggettamento della relativa azione a termini di decadenza. Poiché, ai sensi degli art. 2379, comma 1, e art. 2479-ter, comma 3, c.c. sono impugnabili senza limiti di tempo soltanto le deliberazioni che modificano l'oggetto sociale prevedendo attività illecite o impossibili, devono considerarsi deferibili al giudizio degli arbitri anche le controversie aventi ad oggetto la nullità delle delibere di approvazione del bilancio per difetto di veridicità, chiarezza e precisione, che non rientrano nella predetta categoria. Orbene, indipendentemente dalla considerazione che, in riferimento ai diritti indisponibili, la proponibilità dell'azione senza limiti di tempo trova giustificazione nella sottrazione degli stessi al regime della prescrizione, disposta dall'art. 2934 u.c., laddove gli artt. 2434-bis e 2379 c.c. si limitano a stabilire semplici termini di decadenza, occorre rilevare che la previsione di questi ultimi, in quanto rispondente ad una finalità acceleratoria delle attività alle quali si riferiscono, in funzione della stabilità e certezza delle situazioni giuridiche sulle quali incidono, non depone necessariamente in favore dell'indisponibilità di tali situazioni, essendo la decadenza prevista, indifferentemente, in riferimento tanto a diritti indisponibili quanto a diritti disponibili. La circostanza che la nuova disciplina delle società, introdotta dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, abbia previsto un termine di decadenza anche per l'impugnazione delle delibere nulle non comporta d'altronde il venir meno della rilevabilità d'ufficio dell'illiceità dell'atto, né della possibilità di esercitare le azioni di responsabilità di cui agli artt. 2392-2395 c.c.: pertanto, se è vero che l'intervenuta scadenza del termine preclude definitivamente al socio e al terzo l'impugnazione della delibera di approvazione del bilancio, è anche vero, però, che essa non rende del tutto irrilevante il vizio da cui la stessa è affetto, che può ben essere rilevato in altro giudizio, o posto a fondamento di altra iniziativa giudiziale. Ciò dimostra che, se è vero che nell'ambito dei limiti temporali previsti dal legislatore il diritto di azione è sempre disponibile, in quanto il titolare di un diritto sostanziale può sempre rinunciare a farlo valere in giudizio, è anche vero, però, che, ove si tratti di un diritto indisponibile, egli non può rinunciare al bene che ne costituisce oggetto, autorizzando la controparte ad ignorare o aggirare la disposizione che lo contempla: in materia di bilancio di società, ciò equivale a dire che il socio o il terzo, pur potendo rinunciare ad impugnare la delibera di approvazione per difetto di verità, chiarezza e precisione, non possono concordare con l'amministratore la misura in cui tali principî devono trovare applicazione, né rinunciare all'osservanza degli stessi (Cass. n. 13031/2014). Non può pertanto condividersi l'avverso orientamento nella parte in cui fa coincidere la disponibilità del diritto di azione con quella del diritto sostanziale ad essa sotteso, escludendo l'indisponibilità degl'interessi tutelati dai principî di verità, chiarezza e precisione del bilancio per il solo fatto che il diritto all'impugnazione possa venir meno a causa della decadenza, con la conseguente sanatoria della nullità: le norme che stabiliscono i predetti principî non solo sono imperative, ma trascendono l'interesse del singolo, essendo dettate a tutela, oltre che dell'interesse di ciascun socio ad essere informato dell'andamento della gestione societaria al termine di ogni esercizio, anche dell'affidamento di tutti i soggetti che con la società entrano in rapporto, i quali hanno diritto a conoscere l'effettiva situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente. In quanto coinvolgente i predetti interessi, la controversia avente ad oggetto l'impugnazione della delibera di approvazione del bilancio per difetto degl'indicati requisiti attiene pertanto a diritti indisponibili, con la conseguenza che, ai sensi dell'art. 34, comma 1, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, non può costituire oggetto di deferimento al giudizio degli arbitri. In questo senso si sono poi espresse numerose decisioni della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 20674/2016; Cass. n. 17950/2015; Cass. n. 13031/2014) e di merito (Trib. Genova, 4 dicembre 2015, in Giur. comm., 2017, II, 557; per l'orientamento opporto, minoritario in giurisprudenza, Trib. Napoli, 9 giugno 2010, in Giur. comm., 2012, II, 220). L'introduzione e la soppressione della clausola compromissoria.L'u.c. dell'art. in commento dispone che le modifiche dell'atto costitutivo, introduttive o soppressive di clausole compromissorie, devono essere approvate dai soci che rappresentino almeno i due terzi del capitale sociale e che i soci assenti o dissenzienti possono, entro i successivi novanta giorni, esercitare il diritto di recesso (sul punto, in generale, Cerrato, 2007, 171 ss.). Secondo un primo orientamento, la norma ora richiamata trova la propria ratio nella necessità di coniugare il diritto di adire il giudice statale, insopprimibile senza il consenso espresso del suo titolare, ed il principio maggioritario (Zucconi Galli Fonseca, 94 ss.; Bove, 483). In questa prospettiva, infatti, se la norma avesse consentito l'introduzione della clausola compromissoria a maggioranza senza attribuzione del diritto di recesso, era passibile di censura di incostituzionalità; al contrario, l'attribuzione del diritto di recesso esclude la stessa configurabilità di un arbitrato obbligatorio per i soci di minoranza (Ruffini, 1531; Boggio, 479, che parla di consenso implicito o indiretto). Secondo altro orientamento – il quale nota che la esposta ricostruzione potrebbe spiegare l'attribuzione del diritto di recesso in caso di introduzione della clausola compromissoria, ma non di sua eliminazione – nel prevedere il diritto di recesso, il legislatore ha inteso equiparare la rinuncia alla giurisdizione statale alla sua reintroduzione, considerando ugualmente meritevole di tutela la posizione del socio non assenziente nell'uno come nell'altro caso: la norma si spiega, dunque, con l'esigenza di proteggere la minoranza non solo dal rischio di vedersi esautorata del proprio diritto di adire il giudice statale, ma, più in generale, di subire una privazione del diritto di concorrere a predeterminare le forme essenziali dello strumento di tutela endosocietaria (Rizzardo, 831). Così, il diritto di exit è riconosciuto, in altre parole, al socio che non condivida la scelta di modificare il tipo di tutela (Rizzardo, 832). Se non vi è dubbio che legittimano il recesso l'introduzione e la soppressione della clausola compromissoria, non è, invece, agevole individuare le modificazioni che possono intervenire sulla clausola medesima cui consegua l'attribuzione del diritto di exit (sulla problematica, Rizzardo, 832 ss.). La delibazione assembleare di sostituzione nella clausola compromissoria dell'arbitrato rituale a quello irrituale e dell'arbitro collegiale a quello monocratico non legittima l'esercizio del recesso da parte del socio assente alla votazione, poiché determina modifiche prive di carattere innovativo o soppressivo nel senso fatto proprio dall'art. 34, comma 6, d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5 (Lodo arb., 28 ottobre 2010, in Giur. comm., 2012, II, 825; in senso critico, Rizzardo, 846, secondo il quale, in ragione delle profonde divergenze sussistenti tra i due tipi di arbitrato societario che qualificano l'arbitrato contrattuale quale tertium genus, alternativo sia alla giurisdizione statale sia alla giustizia arbitrale nella sua forma rituale, la prospettata modificazione dell'atto costitutivo si risolve in una soppressione di una vecchia clausola compromissoria in favore dell'introduzione di una nuova, operazione questa che dovrebbe legittimare il socio che non abbia prestato il proprio assenso alla modifica statutaria medesima a recedere dalla società). L'attribuzione ad arbitri del potere di decidere secondo equità deve ritenersi modifica che consente l'esercizio del potere di recesso (Trib. Verona 12 aprile 2005, in Giur comm., 2007, II, 633, con nota di Soldati). La devoluzione ad arbitri di una controversia, in precedenza di competenza del giudice ordinario, rappresenta una modificazione statutaria introduttiva di una clausola compromissoria, così come si è in presenza di una modifica statutaria soppressiva quando la modificazione statutaria sottragga un tipo di controversia alla cognizione arbitrale per restituirla a quella del giudice ordinario (Coll. arb. 14 marzo 2008, in Riv. arb., 2008, 109). È manifestamente infondata la q.l.c. per contrasto dell'art. 34, comma 6, d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 5, nella parte in cui prevede che l'introduzione di clausole arbitrali nello statuto di società possa essere approvata a maggioranza (pari a due terzi del capitale sociale), con gli artt. 3,25,101, comma 2, e 111, comma 2, Cost. poiché la legittimità dell'arbitrato societario è fondata sulla libera scelta delle parti e sulla facoltà per il dissenziente di non soggiacere alla volontà della maggioranza recedendo dalla società, mentre resta nella discrezionalità del legislatore determinare i presupposti di tale libera scelta (Trib. Milano, 18 luglio 2005, in Giur. comm., 2005, II, 171). I poteri cautelari degli arbitri secondo la riforma del processo civileL'art. 35, comma 5, d.lgs. n. 5/2003, prevedeva che “la devoluzione in arbitrato, anche non rituale, di una controversia non preclude il ricorso alla tutela cautelare a norma dell'art. 669-quinques c.p.c., ma se la clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari agli arbitri compete sempre il potere di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell'efficacia della delibera”. Si trattava, come è noto, del primo caso, nell'ordinamento italiano, di conferimento agli arbitri del potere cautelare. La riforma del processo civile di cui al d.lgs. n. 149/2022 ha generalizzato la possibilità per gli arbitri di emettere provvedimenti d'urgenza. In particolare, il menzionato d.lgs. ha sostituito l'art. 818 c.p.c. prevedendo espressamente che le parti, anche mediante rinvio a regolamenti arbitrali, possono attribuire agli arbitri il potere di concedere misure cautelari con la convenzione di arbitrato o con atto scritto anteriore all'instaurazione del giudizio arbitrale. La competenza cautelare attribuita agli arbitri è esclusiva. Prima dell'accettazione dell'arbitro unico o della costituzione del collegio arbitrale, la domanda cautelare si propone al giudice competente ai sensi dell'art. 669-quinquies. La medesima riforma ha anche previsto la reclamabilità dei provvedimenti cautelari emessi dagli arbitri disponendo, all'art. 818-bis c.p.c., che, contro il provvedimento degli arbitri che concede o nega una misura cautelare è ammesso reclamo a norma dell'art. 669-terdecies davanti alla corte di appello, nel cui distretto è la sede dell'arbitrato, per i motivi di cui all'art. 829, comma 1, in quanto compatibili, e per contrarietà all'ordine pubblico. In definitiva, il potere cautelare non è dato direttamente dalla legge agli arbitri, ma alle parti, le quali potranno d'intesa attribuire agli arbitri la facoltà di provvedere in via cautelare, ma potranno anche non attribuire tale facoltà o attribuirla solo in parte e ad esempio escludere espressamente alcuni provvedimenti o consentirne espressamente solo alcuni (così, Briguglio, par. 2). L'unica attribuzione agli arbitri di potestà cautelare ex lege, o per meglio dire veicolata dalla generica volontà compromissoria senza necessità di apposito conferimento di poteri cautelari per apposita volontà delle parti, è stata già prevista dall'art. 35, d.lgs. n. 5/2003 ed ora contemplata, visto il trasferimento nel codice di rito della normativa sull'arbitrato societario, dall'art. 838-ter, comma 4, e riguarda, come detto, la sospensione cautelare della delibera societaria (ancora, Briguglio, ivi). Il potere cautelare che il nuovo art. 818 c.p.c. attribuisce agli arbitri, previa previsione pattizia, è esclusivo, nel senso che le parti non potranno rivolgersi al giudice ordinario per ottenere la tutela cautelare. Tuttavia, prima dell'accettazione dell'incarico da parte degli arbitri e, comunque, nelle more della costituzione dell'ufficio arbitrale, le parti potranno adire il giudice. Peraltro, la dottrina ha messo in evidenzia che il giudice statuale può essere adito in via cautelare, pur dopo l'accettazione di arbitri cui sia conferita dalle parti potestà cautelare, quando il provvedimento cautelare richiesto si rivolga anche nei confronti di terzi estranei alla convenzione arbitrale (Briguglio, par. 3). Una simile conclusione vale per tutti i cautelari che l'arbitro puo' emettere. Nel prosieguo, ci si occuperà specificatamente del potere cautelare di sospensione dell'efficacia delle deliberazioni societarie già attribuito dall'art. 35 d.lgs. n. 5/2003 ed oggi trasfusione nell'art. 838-ter, comma 4, c.p.c. In particolare, quest'ultima disposizione prevede che, salvo quanto previsto dall'art. 818, in caso di devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari, agli arbitri compete il potere di disporre, con ordinanza reclamabile ai sensi dell'art. 818-bis c.p.c., la sospensione dell'efficacia della delibera. Secondo l'orientamento, dottrinale e giurisprudenziale maggioritario (ma non del tutto univoco), nonostante la devoluzione del potere cautelare agli arbitri, rimane intatta la possibilità di ricorrere al giudice ordinario per ottenere il provvedimento cautelare fino a quando il collegio arbitrale o l'ufficio dell'arbitro unico non si sia materialmente costituito e, dunque, non possa materialmente procedere ad esaminare tempestivamente l'istanza di sospensione dell'efficacia della delibera. Si è, così, correttamente affermato che, stante la modalità di instaurazione del procedimento arbitrale, deve riconoscersi, fino al momento in cui il collegio arbitrale sia costituito, la competenza del giudice ordinario a provvedere sull'istanza di sospensione della delibera impugnata (in questo senso, Trib. Milano 17 marzo 2009, in Riv. arb., 2009, 311, secondo il quale l'art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 5/2003 ha introdotto una cognizione cautelare esclusiva in capo agli arbitri in materia di sospensione dell'efficacia della delibera assembleare impugnata; tuttavia, stante la modalità di instaurazione del procedimento arbitrale, deve riconoscersi, fino al momento in cui il collegio arbitrale sia costituito, la competenza del giudice ordinario a provvedere sull'istanza di sospensione della delibera impugnata; Trib. Napoli 6 febbraio 2012, in Soc., 2012, 563; Trib. Bologna 9 aprile 2008, in Giur. it., 2008, 2496; Trib. Napoli 30 settembre 2005, in Foro it., 2006, I, 2246, secondo il quale rimangono al giudice ordinario soltanto alcuni segmenti d'intervento, con particolare riferimento al periodo che va dalla proposizione della domanda arbitrale alla formazione del collegio giudicante o all'accettazione dell'arbitro). Va, peraltro, osservato che come la possibilità di richiedere al giudice la sospensione dell'efficacia della delibera presuppone la previa instaurazione del giudizio di merito, la possibilità di rivolgersi al giudice statale per ottenere la sospensione della delibera in caso di devoluzione della cognizione su di essa al giudice arbitrale presuppone che sia stata proposta la domanda arbitrato (sul punto, in particolare ed anche per l'esame di quando possa dirsi avviato il procedimento arbitrale di merito, Villa, 314; Romano, 59 ss., spec. nt. 30, 31). In senso contrario, sono state manifestate, in dottrina perplessità in ordine al descritto orientamento con riferimento: 1) al difficile coordinamento tra poteri del giudice ordinario e poteri dell'arbitro derivanti dalla sovrapposizione (anche se non temporale) degli stessi; 2) alla sostanziale svalutazione sia del dato testuale («sempre») sia del fondamento volontaristico dell'arbitrato che importa l'accettazione, da parte dei soci, del rischio di trovarsi interinalmente privi di un'immediata tutela cautelare; 3) al carattere improprio di risolvere una questione giuridica attraverso la valutazione di un mero inconveniente (Villata, 606, nt. 16; Ianniccelli, 398; Arieta-De Santis, 665). Le medesime perplessità esprime una parte della giurisprudenza (Trib. Milano 4 ottobre 2005, in Giur. comm., 2006, II, 1128; Trib. Catania 14 ottobre 2005, in Giur. it., 2006, 1469). Maggiormente complessa la questione se il legislatore abbia voluto assegnare agli arbitri, in materia di sospensione dell'efficacia delle deliberazioni assembleari, un potere cautelare effettivamente esclusivo ovvero concorrente. L'orientamento nettamente maggioritario, sia in giurisprudenza che in dottrina, è nel primo senso. Si afferma, infatti, che è esclusiva, ai sensi dell'art. 35, comma 5, d.lgs. n. 5/2003, la competenza degli arbitri a pronunciare provvedimenti cautelari di sospensione dell'efficacia della deliberazione impugnata (Trib. Milano 4 ottobre 2005; Trib. Napoli 8 marzo 2010; Trib. Milano 17 marzo 2009; Trib. Lucca 27 novembre 2008) con la conseguente inammissibilità della proposizione di un ricorso cautelare nelle more della procedura arbitrale. Si evidenzia come la concorrenza dei due poteri cautelari non potrebbe ammettersi per l'assorbente ragione che l'art. 35 ha attribuito agli arbitri, investiti della causa di impugnativa della delibera, il potere «esclusivo» di disporre la sospensione cautelare (Arieta-De Santis, 663, nt. 41; Fazzalari, 447, secondo il quale l'attribuzione agli arbitri del potere di sospendere interlocutoriamente l'efficacia della delibera oblitera la possibilità che il giudice statale faccia fronte all'urgenza anche mediante decreto; Villa, 312). In questa prospettiva, l'attribuzione agli arbitri del potere di sospendere interlocutoriamente l'efficacia della delibera eliminerebbe dunque la possibilità che il giudice statale faccia fronte all'urgenza anche mediante decreto. Un orientamento del tutto minoritario, tuttavia, ha ritenuto esistente, in ogni caso, una potestà del giudice ordinario in ordine alla concessione del provvedimento cautelare di sospensione dell'efficacia della deliberazione assembleare (Soldati, 170). Tale orientamento è stato anche ripreso da un intervento della giurisprudenza di merito (Trib. Roma 26 aprile 2018, in IlSocietario.it; pubblicata anche con la diversa data di 22 ottobre 2018 in Soc., 2018, 930). Si è affermato, in particolare, che l'orientamento contrario si basa sull'argomento letterale della norma di cui all'art. 35, comma 5, cit. e, in particolare, sull'intercalare «ma» che segue alla riaffermazione del potere statale cautelare ed all'avverbio «sempre» collegato alla competenza arbitrale di disporre la sospensione dell'efficacia della delibera (si fa presente che l'avverbio «sempre» non compare più nel testo del nuovo art. 838-ter, comma 4, c.p.c.). Si tratta, a ben vedere, di argomenti assai deboli che possono, anzi, devono essere superati sulla base di una lettura costituzionalmente orientata della norma e sul collegamento con ulteriori disposizioni codicistiche. Ma anche sotto il profilo letterale gli argomenti testuali non appaiono per nulla convincenti. In primo luogo, il «ma» che ricollega le due proposizioni contenute nella disposizione non allude ad alcuna esclusività del potere conferito agli arbitri, spiegandosi, al contrario, con la circostanza che la seconda parte della norma innova, con riferimento ad un determinato settore di intervento (quello della sospensione dell'efficacia delle deliberazioni societarie), il sistema (che esclude la potestà cautelare degli arbitri) che, invece, è ordinariamente confermato dalla prima parte della norma. Quanto, poi, alla precisazione che agli arbitri compete sempre il potere di disporre la sospensione, merita di essere osservato come «sempre» non sia un sinonimo di «esclusivo», come, al contrario, giunge a concludere l'opposta ricostruzione. In questa prospettiva, la locuzione «sempre» sembra esprimere, più che l'esclusività di tale potere, l'inderogabilità dell'attribuzione del potere stesso, di modo che – una volta che il patto compromissorio abbia previsto la devoluzione in arbitrato delle controversie aventi ad oggetto la validità delle deliberazioni assembleari – gli arbitri dispongono sempre del potere di sospendere la decisione impugnata, senza che possa verificarsi il caso di una impugnazione soggetta alla competenza arbitrale, quanto al merito, e nel contempo sottratta a tale competenza quanto all'appendice dell'impugnazione stessa costituita dalla sospensiva cautelare. Una simile conclusione è, peraltro, sempre sotto il profilo letterale, confermata dalla rubrica dell'art. 35 che è così formulata: «disciplina inderogabile del procedimento arbitrale». Il richiamo all'inderogabilità, contenuto nella rubrica dell'art. 35 e confermato nel quinto comma dall'avverbio «sempre», esclude, in questa prospettiva, che le parti possano, in deroga alla previsione di cui al comma 5, scindere al momento della redazione della clausola compromissoria contenuta nello statuto merito e sospensiva dell'efficacia della delibera impugnata (queste affermazioni si rinvengono anche in Villa, 312, ss., che pure conclude per l'esclusività del potere arbitrale). Il richiamato arresto del Tribunale di Roma ha, dunque, concluso evidenziando che la devoluzione in arbitrato delle controversie aventi a oggetto l'impugnazione di deliberazioni societarie non osta alla competenza, concorrente, del giudice ordinario in ordine al provvedimento cautelare di sospensione delle deliberazioni medesime. Tuttavia, le conclusioni ora raggiunte dalla giurisprudenza dovrebbero essere verificate alla luce del nuovo potere cautelare attribuito agli arbitri alla luce del disposto dell'art. 818-bis c.p.c. a mente del quale, come visto, la competenza cautelare attribuita agli arbitri è esclusiva, residuando la potestà cautelare del giudice ordinario solo nella fase anteriore alla accettazione dell'incarico da parte degli arbitri ed alla costituzione dell'ufficio arbitrale. 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Profili problematici, in La riforma del diritto societario nella «giurisprudenza delle imprese», a cura di Cera, Mondini, Presti, Milano, 2017; Ruffini, La riforma dell’arbitrato societario, in Corr. giur., 2003, 1531; Soldati, Le clausole compromissorie nelle società commerciali, Milano, 2005; Salvaneschi, Le nuove norme in materia di arbitrato, in Riv. dir. proc., 2023, 2, 738; Villa, Una poltrona per due: la sospensione delle delibere assembleari fra giudice privato e giudice statuale, in Riv. arb., 2009, 311; Villata, Note sui provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c. preassembleari, in Riv. dir. proc., 2014, 601; Zucconi Galli Fonseca, Commento agli artt. 34 e 37, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, Arbitrati speciali, diretto da Carpi, Bologna, 2008, 57, 14. |