La deontologia del mediatore

11 Ottobre 2018

In questo contributo, l'Autore tenta di ricostruire lo “statuto” deontologico del mediatore civile e commerciale, tanto nell'ottica del diritto attuale, quanto in una prospettiva evolutiva, sempre tenendo conto dell'ormai accentuata tendenza, consolidatasi soprattutto presso la giurisprudenza di merito, alla responsabilizzazione di tale figura, che sembra essersi già ritagliata una forte autonomia e singolarità nell'ambito degli operatori giuridici. Al centro della riflessione v'è la constatazione che i doveri etici del mediatore si alimentano di uno scambio costante fra le varie fonti normative e, in modo particolare, il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, i regolamenti degli Organismi di Mediazione ed i Codici Deontologici delle categorie professionali a cui i mediatori appartengono.
Il quadro normativo

La deontologia del mediatore è organizzata in una scala normativa multilivello, al cui vertice si pongono le poche disposizioni legislative contenute, con riferimento a questa specifica tematica, nel d.lgs. n. 28/2010, implementate ed integrate, per un verso, dai regolamenti degli Organismi di Mediazione e, per l'altro ancora, dai codici di condotta propri delle varie professioni.

Questo articolato reticolo di fonti normative, in verità, era ulteriormente complicato dal d.m. n. 180/2010, il quale, pur dedicato alla registrazione degli Organismi di Mediazione e dei formatori, oltre che alla determinazione delle indennità spettanti agli operatori, conteneva, all'art. 14-bis, degli accenni alla materia deontologica, disponendo quanto segue: «il mediatore non può essere parte ovvero rappresentare o in ogni modo assistere parti in procedure di mediazione dinanzi all'organismo presso cui è iscritto o relativamente al quale è socio o riveste una carica a qualsiasi titolo; il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino la professione negli stessi locali. Non può assumere la funzione di mediatore colui il quale ha in corso ovvero ha avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti, o quando una delle parti è assistita o è stata assistita negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero che esercitano la professione negli stessi locali; in ogni caso costituisce condizione ostativa all'assunzione dell'incarico di mediatore la ricorrenza di una delle ipotesi di cui all'art. 815, comma 1, nn. da 2 a 6, c.p.c.. Chi ha svolto l'incarico di mediatore non può intrattenere rapporti professionali con una delle parti se non sono decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento. Il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitano negli stessi locali».

In verità, tali riferimenti non erano presenti nell'originaria architettura del regolamento governativo, essendo stati inopinatamente inseriti dall'art. 6, comma 1, del d.m. 4 agosto 2014, n. 139.

Questo pacchetto di norme deontologiche ha sollevato molteplici dubbi di legittimità, in quanto, oltre a non essere chiaro quale legge o atto avente forza di legge autorizzasse il Governo a deliberare in ambito deontologico, si presentava come eccessivamente – o, addirittura, gratuitamente – restrittivo della libertà di iniziativa economica privata, inserendo delle limitazioni irragionevoli e sproporzionate. La giurisprudenza amministrativa ha raccolto tali doglianze, seppur soltanto sotto il profilo preliminare ed assorbente del difetto di legge (rilevando che l'art. 16 del d.lgs. n. 28/2010 attribuisce al Ministero della Giustizia ben più limitati poteri) e, dunque, senza esprimere valutazioni in termini di legittimità costituzionale, annullando la norma in questione (TAR Roma – Lazio, sez. I, 14 aprile 2016, n. 4420; TAR Roma – Lazio, sez. I, 1 aprile 2016, n. 3989). In questo modo, il primitivo sistema delle fonti è stato ripristinato o, per meglio dire, è stato depurato dall'intrusione di una disposizione regolamentare che creava incertezze, piuttosto che chiarezza e semplificazione.

Tuttavia, la problematica è stata soltanto frammentariamente superata, visto che il codice deontologico degli avvocati, cioè dei professionisti maggiormente impegnati nello svolgimento dell'attività di mediatori, prevede delle cause di incompatibilità estremamente simili (cfr. art. 62).

In ogni caso, le fonti normative residuate dall'intervento demolitivo del Giudice amministrativo sono diverse per natura e forza cogente e, conseguentemente, possiedono una differente attitudine performativa.

Si pone, quindi, il problema di individuare i criteri per la risoluzione di eventuali antinomie.

Anche solo intuitivamente viene da affermare che il d.lgs. n. 28/2010, costituendo una fonte primaria del diritto, sia destinato a prevalere, in caso di conflitto, sui regolamenti e sui codici deontologici.

Tale assunto, apparentemente scontato, in verità, stride con quanto stabilito all'art. 62 del Codice Deontologico Forense, ove si legge:«l'avvocato che svolga la funzione di mediatore deve rispettare gli obblighi dettati dalla normativa in materia e le previsioni del regolamento dell'organismo di mediazione, nei limiti in cui queste ultime previsioni non contrastino con quelle del presente codice».

L'inciso finale («nei limiti in cui queste ultime previsioni non contrastino con quelle del presente codice») lascia trasparire il primato del codice di deontologia forense rispetto a tutte le altri fonti regolatrici, condannate a soccombere ove contrastanti con il primo.

È ragionevole interrogarsi sulla legittimità di quest'ultima locuzione, nella misura in cui tratteggia una prevalenza del codice deontologico rispetto alle fonti legislative ed alle regole associative.

Pare doversi propendere per una risposta assertiva dell'illegittimità dell'impostazione a cui il codice deontologico aderisce, se non altro perché, a voler diversamente argomentare, si giungerebbe all'irragionevole conclusione di imporre all'avvocato di astenersi dallo svolgimento dell'attività di mediazione qualora le norme legali contrastino con il codice deontologico ovvero di non iscriversi ad organismi di mediazione governati da regole in conflitto con esso.

Tuttavia, essendo ormai consolidata la convinzione che il codice deontologico esprima delle regole prive di forza ed efficacia normativa e, quindi, non direttamente inquadrabili nella gerarchia delle fonti del diritto (Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2015, n. 19246), sembra potersi escludere che il Giudice amministrativo possa direttamente annullarle: ciò non toglie, però, che, qualora la violazione delle regole deontologiche comporti l'esercizio del potere disciplinare a carico dell'associato, quest'ultimo, in sede giurisdizionale, può chiedere l'annullamento delle sanzioni, previo accertamento incidentale dell'illegittimità della regola deontologica per incompetenza, violazione di legge o eccesso di potere.

Il contenuto degli obblighi deontologici

I doveri deontologici del mediatore possono ricondursi, a fini classificatori, in tre macrocategorie, così sinteticamente denominabili:

  • i doveri di efficienza e di professionalità;
  • i doveri di imparzialità sostanziale ed apparente;
  • i doveri di neutralità comportamentale.
Segue. Professionalità e competenza.

Il mediatore non è un giudice, non è un arbitro, non è un perito, ma un soggetto chiamato a favorire la conciliazione fra i contendenti e, più precisamente, a promuovere una soluzione amichevole complessivamente preferibile rispetto all'alternativa giudiziale.

Il mediatore, in buona sostanza, si pone quale “amico comune” a tutti i contendenti, che, proprio grazie all'affidamento che questi ultimi ripongono in lui, è in grado di massimizzare le chances di mediabilità della lite.

Il mediatore, pertanto, nello svolgimento della sua attività, deve cercare di costituire un rapporto d'empatia con le parti, i difensori ed i consulenti tecnici, instaurando un dialogo costante con i medesimi per identificare le questioni su cui gli stessi sono irremovibili e, di contro, gli aspetti su cui sono disponibili a fare concessioni all'avversario.

Tuttavia, tale sforzo intellettuale, pur costituendo un tassello essenziale dell'attività del mediatore, ben difficilmente sarà sufficiente per il buon esito della mediazione, implicando, quest'ultima, nella massima parte dei casi, una prognosi, anche solo rudimentale o in forma embrionale, in ordine agli esiti di un eventuale giudizio civile.

Non s'intende affermare, si badi bene, che l'accordo amichevole raggiunto in sede di mediazione debba rappresentare la riproduzione ovvero l'anticipazione della decisione giudiziale, ma soltanto che è la consapevolezza circa i rischi di soccombenza e le possibilità di vittoria in un ipotetico processo uno dei più forti incentivi ad una mediazione seria, effettiva, costruttiva e, in definitiva, utile ai litiganti.

È per questa ragione che al mediatore viene vietato di assumere l'incarico «in difetto di adeguata competenza» (cfr. art. 62, comma 2); competenza che non si traduce nella solo conoscenza degli atti e dei documenti che le parti hanno depositato innanzi all'organismo di mediazione, ma esige un'articolata indagine in ordine alle problematiche di carattere giuridico sottese alla lite che s'intende conciliare.

Questo dovere, tuttavia, non è così agevolmente attuabile.

Infatti, al fine di poter valutare la sua idoneità ad occuparsi della singola fattispecie allo stesso sottoposta, il mediatore deve poter accedere, quantomeno, alla documentazione capace di evidenziare le reciproche contestazioni e pretese, la quale non sempre istante ed invitato non si curano di allegare, rispettivamente, all'istanza di mediazione ed all'atto di adesione.

Nel caso in cui il carteggio prodotto dalle parti non appaia sufficiente a dipingere con esattezza i connotati della lite, il mediatore designato dall'organismo potrebbe, in via teorica, richiedere ai contendenti di integrare le produzioni documentali già eseguite ovvero di rendere delle spiegazioni.

Una simile iniziativa, tuttavia, oltre a non riposare su alcuna norma giuridica espressa, ben potrebbe concretizzarsi in un'alterazione degli equilibri instaurati fra le parti, nonché determinare una violazione del diritto alla riservatezza dei soggetti coinvolti ovvero della loro libertà di organizzare liberamente la loro strategia processuale o conciliativa.

Altra problematica particolare potrebbe emergere nell'ipotesi in cui il mediatore scopra di non essere scientificamente all'altezza del mandato ricevuto soltanto in pendenza della mediazione (ad esempio, in quanto, nel corso del procedimento, l'oggetto del contendere e, dunque, della negoziazione è stato ampliato, con conseguente immissione nel confronto di ulteriori tematiche giuridiche).

Secondo il tenore letterale della disposizione deontologica, il mediatore non sarebbe tenuto a declinare l'incarico, anche perché una simile determinazione provocherebbe un duplice inconveniente pratico: da un lato, la durata della procedura si dilaterebbe ingiustificatamente, in violazione del principio di celerità e di concentrazione della conciliazione sancito dall'art. 6 del d.lgs. n. 28/2010 e, dall'altro, sconvolgerebbe il rapporto fiduciario costituito con le parti e, magari, già consolidato.

Del resto, in questa singolare evenienza, non è così azzardato assumere che il mediatore, allo scopo di supplire al suo difetto informativo e cognitivo, possa designare un ausiliario, avvalendosi della facoltà di cui all'art. 8, comma 4, del d.lgs. n. 28/2010, il quale, pur letteralmente previsto per le sole controversie implicanti la risoluzione di questioni tecniche di speciale complessità, potrebbe ragionevolmente estendersi alle liti pendenti per le quali il mediatore si accorga di non essere perfettamente preparato.

Segue. Imparzialità sostanziale ed apparente.

L'equidistanza rispetto ai contendenti rappresenta ulteriore tratto essenziale della figura del mediatore, che non può mancare per intuibili ragioni, prima fra tutte il rischio che le parti temano le sue iniziative, piuttosto che salutarle come abbrivio per il raggiungimento di soluzioni conciliative.

Trattasi di una qualità del mediatore che si manifesta tanto sotto il profilo sostanziale, quanto sul versante dell'apparenza.

A livello generale, a rilevare è l'art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 28/2010, che impone al mediatore tanto di «sottoscrivere, per ciascun affare per il quale è designato, una dichiarazione di imparzialità secondo le formule previste dal regolamento di procedura applicabile, nonché gli ulteriori impegni eventualmente previsti dal medesimo regolamento», quanto di «informare immediatamente l'organismo e le parti delle ragioni di possibile pregiudizio all'imparzialità nello svolgimento della mediazione».

Per quanto concerne l'avvocato, invece, il codice deontologico forense fissa una disciplina ben più pregnante (grosso modo corrispondente a quella giudicata illegittima dalla giurisprudenza amministrativa con sentenze che, tuttavia, proprio in ragione dell'autonomia fra fonti normative e fonti deontologiche, non si estende a queste ultime).

L'imparzialità sostanziale è garantita dal divieto imposto al mediatore di assumere incarichi in relazione ai quali si trovi in una situazione di cointeressenza rispetto ad una, ad una pluralità o a tutte le parti (cfr. art. 62, comma 3).

La cointeressenza non viene definita sulla base di una formula astratta, bensì mediante l'individuazione di una serie di fattispecie tipiche espressive della non alterità del mediatore di fronte agli interessi in gioco. Così, il mediatore è giudicato incapace quando:

a) abbia in corso o abbia avuto nell'ultimo biennio dei rapporti professionali con una delle parti;

b) una parte sia assistita o sia stata assistita, sempre nell'ultimo biennio, da un professionista di lui socio o con lui associato ovvero che eserciti negli stessi locali;

c) ricorrano una delle ipotesi di ricusazione degli arbitri contemplate dal codice di procedura civile.

Per quanto concerne il primo aspetto, è ragionevole domandarsi se i rapporti professionali ostativi all'assunzione dell'incarico di mediatore siano soltanto l'assistenza e la difesa giudiziale ovvero anche la mera consulenza oppure ancora qualunque relazione tecnicamente qualificata. La formula adottata dal codice deontologico sembra includere tutte le prestazioni d'avvocato realizzate a beneficio di una delle parti coinvolte nella mediazione, comprensive, dunque, di assistenza, di difesa e di consulenza, con esclusione, però, delle attività professionali estranee al mondo forense.

In ordine alla seconda fattispecie, invece, è plausibile ritenere che il dovere in questione non si spinga sino a pretendere che il mediatore chieda ai proprio colleghi se hanno assistito le parti che, di volta in volta, partecipano alla mediazione a cui viene designato.

In questo modo, infatti, verrebbe violata la fisiologica riservatezza che deve governare il rapporto fra avvocato e cliente, che comprende, ovviamente, anche il divieto di esibire a terzi l'esistenza stessa della relazione per ragioni non strettamente essenziali allo svolgimento dell'incarico.

La terza figura d'incompatibilità, infine, appare piuttosto eccentrica, se non altro a cagione dell'intrinseca diversità fra il ruolo del mediatore (chiamato ad agevolare la conciliazione della lite) ed il compito dell'arbitro (deputato a dirimere la controversia, non già secondo valutazioni di convenienza, ma secondo il diritto o l'equità).

Alcune cause di ricusabilità degli arbitri, poi, sono manifestamente incompatibili con la figura ed il ruolo del mediatore: ad esempio, la norma di cui al n. 1), che consente la ricusazione dell'arbitro privo delle qualifiche espressamente convenute fra le parti, non sembra potersi estendere, neppure parzialmente, al mediatore, che deve essere sempre preparato tecnicamente ad affrontare la controversia, a prescindere, dunque, dalla volontà dei contendenti, secondo una valutazione effettuata dal mediatore stessa e dall'organismo di mediazione.

L'imparzialità nell'apparenza è presidiata da una serie di norme tutte protese ad evitare che l'attività di mediatore possa confondersi o sovrapporsi a quella di avvocato, ingenerando nell'utenza l'impressione che il professionista possa avvalersi dell'una per favorire l'altra.

Si fa riferimento, in modo particolare, ai divieti per il mediatore:

  • di intrattenere rapporti con una delle parti nei due anni successivi alla definizione del procedimento di mediazione e, senza limiti cronologici, per attività aventi lo stesso oggetto di quella trattata nel procedimento conciliativo; divieto, questo, esteso, con previsione giudicata illegittima, ai soci o agli associati del mediatore, nonché ai professionisti che esercitino nei suoi stessi locali (cfr. art. 62, comma 4);
  • di consentire all'organismo di mediazione di collocare la sede presso il suo studio ovvero di porre il suo studio presso la sede dell'organismo di mediazione (cfr. art. 62, comma 5).

La prima preclusione, specialmente nella parte in cui estende a terzi i divieti gravanti sul mediatore, corrisponde alla causa di incompatibilità già sancita dall'art. 14-bis del d.m. n. 180/2010, seppur giudicato illegittimo dagli interventi del Giudice Amministrativo per violazione del principio di legalità.

Il secondo veto, forse meno penetrante, è comunque piuttosto eccentrico, in quanto parrebbe impedire a tutti gli avvocati e, quindi, non soltanto agli avvocati/mediatori di condividere degli spazi o degli ambienti con gli organismi di mediazione.

Segue. Neutralità comportamentale

L'alterità del mediatore rispetto ai contendenti non si manifesta soltanto sotto il profilo statico dell'assenza di conflitto d'interesse, ma anche nel dovere, che si snoda in maniera ben più dinamica nel corso dell'intera procedura conciliativa, di governare le trattative senza assumere iniziative decisorie e, ancor meno, quelle iniziative che potrebbero rivelare una posizione più propensa alle tesi sostenute dall'una o dall'altra parte.

A questo proposito, si distinguono, in modo particolare, i limiti correlati alla formulazione delle proposte conciliative, siano esse di natura facilitativa ovvero attributiva, costituente una delle fasi topiche del procedimento di mediazione.

L'art. 11, comma 2, nello stabilire che «la proposta non può contenere alcun riferimento alle dichiarazioni rese o alle informazioni acquisite nel corso del procedimento», non mira unicamente a tutelare il diritto delle parti alla riservatezza (integrante un valore indipendente dalle implicazioni di ordine economico), ma anche a garantire, sotto tutti i profili, che le iniziative conciliative del mediatore siano autonome rispetto alla condotta delle parti. Non si tratta, in buona sostanza, di un rafforzamento del dovere del mediatore alla segretezza, bensì del tentativo di emancipare la sua più peculiare attività da ogni possibile condizionamento esterno.

Nella stessa ottica, si pongono la negazione al mediatore del potere di emettere giudizi vincolanti (art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 28/2010), nonché il divieto per il mediatore di formulare proposte aggiudicative senza il consenso delle parti (art. 11, comma 1, terzo periodo, del d.lgs. n. 28/2010).

Giova richiamare l'attenzione, poi, sulla circostanza che soltanto gli avvocati – e non il mediatore – sono obbligati a certificare ed attestare la conformità dell'accordo amichevole alle norme imperative ed all'ordine pubblico, anche nell'ipotesi in cui esso sia il frutto della mera adesione delle parti alla proposta conciliativa predisposta dal mediatore (il quale, ai sensi dell'art. 14, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 28/2010, deve stendere proposte conformi all'ordinamento, senza, però, farsi garante della validità).

Tutto ciò non può che spiegarsi se non con la volontà del legislatore di scongiurare che il mediatore possa essere o apparire come artefice dell'intesa conciliativa, anche nella forma più sfumata di garante della validità delle clausole contrattuali.

Il problema della gratuità della prestazione

A margine dei doveri deontologici del mediatore, principalmente posti a presidio del buon procedimento e nell'interesse delle parti rimane insoluta una questione che stride profondamente con il Codice Deontologico Forense, in particolare con l'art. 9 comma 2 CDF il quale prevede che «L'avvocato, anche al di fuori dell'attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense».

È legittimo, quindi, chiedersi come si possa definire dignitosa, decorosa e in linea con la reputazione e l'immagine della categoria forense, la circostanza che molti avvocati sono chiamati a svolgere a titolo totalmente o parzialmente gratuito l'attività di mediatore nella prima parte del procedimento, ossia quella che va dall'accettazione della nomina alla prestazione del consenso delle parti.

Accade sempre più spesso, infatti, che le parti all'esito della parte informativa del procedimento e della parte di creazione giurisprudenziale, relativa al rispetto del principio di effettività del procedimento stesso, ossia della dimostrazione che, prescindendo dal consenso, abbiano effettivamente provato a mettersi d'accordo con l'aiuto del mediatore, non prestino il consenso alla prosecuzione del procedimento.

Tale fase, potrebbe durare delle ore se non più giorni e, tuttavia, la normativa di riferimento, il d.lgs. n. 28/10, il d.m. n. 180/10, non prevedono alcuna forma di compenso per il mediatore che si sia cimentato con le parti.

Su questa pessima scelta normativa dovrà presto intervenirsi al fine di scongiurare che la gratuità della prestazione allontani la qualità del procedimento e dei mediatori e ciò prescindendo dall'annosa questione dell'utilità del procedimento di mediazione che tanto ancora (inutilmente) impegna il dibattito della classe forense a scapito, invece di un dibattito utile a rivendicare il diritto a non dover lavorare a titolo gratuito, per scelta indotta o, peggio, per previsione normativa.

In conclusione

I doveri deontologici del mediatore non possono adeguatamente e correttamente apprezzarsi se non sono letti in sinergia con la naturale riservatezza che presidia l'espletamento del procedimento conciliativo e le finalità perseguite dal legislatore nella creazione e nella regolazione dell'istituto.

Per quanto concerne i divieti rivolti a garantire l'imparzialità del mediatore, essi sono stati notevolmente temperati grazie all'intervento caducatorio della giurisprudenza amministrativa, fermo restando che i codici deontologici possono prevedere o introdurre vincoli di analoga portata. L'obbligo di assumere i soli incarichi per cui si è competenti, infine, è soggetto al controllo incrociato del mediatore medesimo, dell'organismo di mediazione e delle parti.

Sarà soltanto la prassi ad evidenziare l'opportunità di raccogliere in un corpo normativo unitario, eventualmente incardinato all'interno del d.lgs. n. 28/2010, tutti i doveri deontologici, allo scopo di evitare antinomie o scollamenti fra le varie fonti normative e consegnare a chi ne richieda l'intervento, un mediatore qualificato e degnamente retribuito.

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