Opzioni put a prezzo predefinito nelle pattuizioni parasociali: la Cassazione esclude il divieto di patto leonino

Bianca Caruso
26 Ottobre 2018

È lecito e meritevole di tutela l'accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l'uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l'altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l'attribuzione del diritto di vendita (c.d. “put”) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato
Massima

È lecito e meritevole di tutela l'accordo negoziale concluso tra i soci di una società azionaria, con il quale l'uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l'altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l'attribuzione del diritto di vendita (c.d. “put”) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell'acquisto, pur con l'aggiunta di interessi sull'importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società.

Il caso

La Corte di Cassazione torna dopo alcuni anni a pronunciarsi sulla questione della validità delle opzioni put a prezzo predefinito e sulla loro compatibilità o meno con il divieto di patto leonino sancito all'art. 2265 c.c.

La pronuncia di legittimità si inserisce nella vicenda giudiziale sorta a valle dell'operazione di acquisto da parte di DeA Partecipazioni S.p.A. (DeA), nell'ambito di una cordata, di una partecipazione sociale in Banca Bipielle Net S.p.A. (poi Banca Network Investimenti S.p.A.) pari al 14,99%. Nel 2007 DeA concludeva con la società venditrice, Sopaf S.p.A. (Sopaf), un accordo parasociale - poi modificato l'anno successivo – prevedendo a favore di DeA un'opzione put a prezzo predefinito, ai sensi della quale quest'ultima avrebbe potuto disinvestire in qualsiasi momento, senza alcun onere, la propria partecipazione ad un prezzo almeno pari al costo del proprio investimento iniziale, maggiorato di interessi convenzionali (oltre che – a seguito dell'accordo modificativo – dell'importo di ogni ulteriore versamento a patrimonio netto della società).

Manifestata più volte la volontà di esercitare la summenzionata opzione e scaduti i relativi termini senza che Sopaf avesse trovato terzi interessati né si fosse offerta essa stessa di acquistare le azioni di titolarità di DeA, quest'ultima agiva in giudizio chiedendo l'accertamento dell'inadempimento e la condanna di Sopaf al pagamento del prezzo della partecipazione come predefinito nell'accordo parasociale.

Sopaf si difendeva eccependo la nullità del patto per violazione del divieto di patto leonino di cui all'art. 2265 c.c.

Con sentenza n. 15833 del 30 dicembre 2011, il Tribunale di Milano rigettava le domande attoree, dichiarando la nullità dell'accordo parasociale per violazione del divieto di patto leonino; pronuncia che veniva confermata anche in secondo grado, con la sentenza della Corte di Appello di Milano del 19 febbraio 2016, la quale respingeva l'impugnazione proposta da DeA.

DeA ricorreva, quindi, avverso tale ultima sentenza, sulla base del seguenti cinque motivi: (i) la corte di merito avrebbe, innanzitutto, errato nel reputare la norma di cui all'art. 2265 c.c. applicabile anche alle società per azioni; (ii) in secondo luogo, la stessa corte avrebbe errato nel reputare la sopramenzionata norma applicabile alle pattuizioni parasociali; (iii) la corte, inoltre, avrebbe erroneamente ritenuto che l'accordo tra le parti escludesse in maniera costante e totale la partecipazione alle perdite, requisito – di elaborazione giurisprudenziale – necessario al fine di configurare il patto leonino; (iv) il giudice di secondo grado avrebbe, poi, omesso di valutare la meritevolezza degli interessi tutelati dall'accordo ex art. 1322 c.c.; e (v) infine, nell'affermare la nullità del patto parasociale, come modificato con l'accordo del 2008, il giudice di merito avrebbe erroneamente escluso il vigore della precedente opzione.

Le questioni

Dopo la nota sentenza del giudice di legittimità in argomento, risalente al 1994, la Cassazione ritorna a pronunciarsi sul tema della liceità delle clausole put a prezzo predeterminato contenute in specifiche pattuizioni parasociali e in particolare della loro compatibilità con la disciplina di cui all'art. 2265 c.c. (cfr. Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927 (caso Laminatoio di Buttrio), in Giur. comm., 1995, II, 478 ss., con nota di Ciaffi, Finanziaria regionale e patto leonino).

La Suprema Corte ripercorrendo le argomentazioni addotte dalla società ricorrente nei motivi del suo ricorso, affronta le diverse questioni poste alla sua attenzione.

In primis, si sofferma sull'ambito applicativo del divieto di patto leonino.

Secondo la ricorrente, l'art. 2265 c.c. non troverebbe applicazione nell'ambito delle società di capitali, in quanto norma eccezionale insuscettibile di applicazione analogia ai sensi dell'art. 14 delle preleggi; né nelle società per azioni sussistono le medesime esigenze che il divieto in questione è volto a tutelare, atteso che i soci delle società azionarie non sono (e non possono essere) direttamente coinvolti nella gestione sociale, che ai sensi dell'art. 2380-bis c.c. spetta in via esclusiva agli amministratori.

A riprova di tale impostazione – afferma inoltre la ricorrente – con la riforma del diritto societario del 2003, sarebbe stata introdotta nel sistema la previsione di cui all'art. 2346, comma 4, c.c. che ammetterebbe la facoltà di prevedere in statuto un'assegnazione delle azioni non in proporzione ai conferimenti effettuati e, secondo un'interpretazione audace della norma, anche in assenza di conferimenti.

Sebbene la S.C. riconosca che il principio dell'art. 2265 c.c. sia dettato principalmente con riferimento alle società di persone, in cui ogni socio è anche gestore della società e risponde in via illimitata e personale delle obbligazioni dell'ente, condivide l'orientamento maggioritario secondo cui la norma avrebbe applicazione generale: se, infatti, la società è un'organizzazione volta allo svolgimento di un'attività economica al fine di dividerne gli utili, l'esclusione di un socio dagli stessi sarebbe in contrasto con la sua stessa ratio.

Il legislatore ha previsto un contratto tipico di società, a cui i soci non possono apportare deroghe. Non giova neppure citare, secondo la Cassazione, un'audace e non pacifica interpretazione dell'art. 2346 c.c., che anche qualora condivisa troverebbe comunque applicazione con riferimento a un'intera categoria di azioni.

La Corte, trattando congiuntamente gli ulteriori motivi di ricorso, passa dunque a esaminare la questione – che pone al centro della sua decisione – dell'applicazione del divieto di patto leonino agli accordi tra soci (i.e. patti parasociali), al di là dunque del dettato statutario.

Andando a ripercorrere la ratio del divieto, il giudice di legittimità rammenta come questa risieda nel preservare la causa societatis e, al contempo, a impedire la creazione di dinamiche di conflitto o di mancato interesse alla proficua gestione della società da parte dei soci, che ne aumentino la propensione al rischio (in tal senso si era già pronunciata: Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927, cit.; più risalente, Cass. 22 giugno 1963, n. 1686; in dottrina, si veda G. Minervini, V. Cuffaro, F. Giorgianni, Un lodo sul patto leonino nelle società di capitali, in Contratto e Impresa, 2000, 2, 959 ss., ove si legge: «L'esigenza di un corretto esercizio del potere di gestione del socio verrebbe invero compromessa dall'esclusione del socio dalle perdite, perché questa situazione lo indurrebbe a privilegiare affari più azzardati, purché gli apparissero prospetticamente più proficui, posto che in ogni caso non sopporterebbe le conseguenze di un loro esito negativo […]». Ravvisano il rischio del verificarsi di conflitti di interesse, Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contr. e impr., 1988, 808; Abriani, Il divieto di patto leonino, cit., 40).

Tuttavia, secondo la Cassazione, affinché una simile pattuizione possa alternare la causa societatis, dovrebbe essere oggetto del contratto sociale che disciplina il rapporto con la società: la pattuizione deve, quindi, avere effetti sullo status di socio, così come delineato all'interno dello statuto sociale, non essendo rilevanti le pattuizioni che regolano il rapporto tra soci.

In altri termini, l'alterazione della causa sociale deve riguardare l'intera compagine azionaria con effetti reali nei confronti della società ed erga omnes; non rileva invece il trasferimento del rischio da un socio all'altro che abbia effetti solo inter partes, allorché non abbia nessun effetto nei confronti della società, la quale continuerà ad imputare le perdite e gli utili alle partecipazioni sociali di tutti i soci nel rispetto dell'art. 2265 c.c.

Il giudice di legittimità si sofferma poi sul requisito della meritevolezza degli accordi atipici: come lo stesso giudice ha già numerose volte osservato, la norma di cui all'art. 1322, comma 2, c.c. subordina i contratti atipici alla verifica che gli stessi siano diretti a perseguire interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico (da ultimo, Cass. 10 novembre 2015, n. 22950).

Tale valutazione deve essere effettuata in concreto, avendo riguardo alla finalità pratica dell'affare dovendosi valutare la sua «[…] idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale» (si veda, tra le altre, Cass., Sez. Un., 6 marzo 2015, n. 4628, sebbene in relazione ad una diversa fattispecie). Tornando, dunque, all'opzione put a prezzo predeterminato, la causa dell'operazione è quella del finanziamento dell'impresa: infatti, accanto alle consuete forme di apporto di risorse finanziarie all'impresa (a titolo sia di capitale di rischio sia di capitale di debito), la società può ben far ricorso a simili accordi, in cui la causa concreta può definirsi mista, in quanto associativa e di finanziamento, con la connessa funzione di garanzia assolta dalla titolarità delle azioni e dalla facoltà di exit dalla società a determinate condizioni.

In particolare, riprendendo l'iter giuridico-argomentativo già percorso con la pronuncia del 1994, viene ribadito come gli interessi sottostanti all'operazione oggetto di vaglio da parte sua siano analoghi a quelli rinvenibili nel pegno sulla partecipazione sociale: in quest'ultimo caso, infatti, al creditore, pur non socio, è concesso il diritto di voto al fine del controllo della garanzia del suo credito. Ne discende che non bisogna necessariamente ricoprire la veste di soci per avere un interesse nel buon andamento dell'impresa e con l'attribuzione del voto al creditore pignoratizio il legislatore ha riconosciuto l'idoneità della causa di garanzia a legittimare la partecipazione alla vita amministrativa; e analogamente al creditore pignoratizio, che ha interesse a votare per la valorizzazione della partecipazione sociale oggetto della propria garanzia reale, anche un finanziatore che abbia apportato delle risorse finanziarie alla società e che sia divenuto socio con clausola put, avrà comunque interesse a realizzare il maggior profitto possibile dalla vendita della sua partecipazione sociale e, dunque, dal suo investimento; a tal proposito, infatti, ragionevolmente l'investitore non si limiterà a voler recuperare l'investimento effettuato, ma auspicherà di moltiplicarne il valore; inoltre, anche nel primo caso, il suo debitore potrà con maggior probabilità restituire l'importo pattuito se la società ha un andamento quanto più positivo.

Il diritto di esercitare l'opzione put e ottenere la restituzione delle risorse investite, quindi, non necessariamente comporta un'indifferenza nei confronti delle dinamiche gestorie della società e dell'andamento della stessa.

Osservazioni

Dopo quasi venticinque anni, la Suprema Corte torna a pronunciarsi sull'applicazione del divieto di patto leonino alle opzioni put contenute all'interno di pattuizioni parasociali.

In particolare, la Corte, sebbene riconosca il pregio delle argomentazioni addotte dal ricorrente, secondo cui non possono trascurarsi le diversità strutturali tra le varie forme associative e, nello specifico, tra le società personali e le società di capitali, abbraccia la tesi della dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, che ritengono tale principio applicabile anche alle società di capitali, riconoscendone la natura di principio generale (in tal senso, tra gli altri, Abriani, Il divieto di patto leonino, Milano, 1994, 77; Barcellona, Clausole di put & call a prezzo predefinito: fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, Milano, 2004, 34; in giurisprudenza, Cass., 29 ottobre 1994, n. 8927, cit.; in senso contrario, Penzo, Opzione di vendita a prezzo fisso e divieto di patto leonino: una convivenza possibile, in Soc., 2, 2014, 146 ss.). Secondo la S.C., infatti, la partecipazione agli utili e alle perdite è requisito stesso di società, posto dal legislatore all'art. 2247 c.c. e, di conseguenza, l'esclusione di un socio dagli stessi sarebbe in contrasto con la causa stessa di società.

La posizione della Cassazione è avvalorata, inoltre, dalla constatazione fattuale dello stretto legame che caratterizza il rapporto tra gli amministratori e i soci che li hanno nominati nelle società azionarie, tale da ben giustificare una generica portata applicativa del principio del divieto di patto leonino (sul punto, si vedano Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contratto e Impresa, 1988, 771 ss.; Sbisà, Circolazione delle azioni e patto leonino, in Contr. e impr., 1987, 816 ss.).

Una volta sancita la portata di principio generale del divieto di patto leonino, applicabile a tutti i tipi sociali, la questione centrale oggetto della pronuncia in commento è l'applicazione del divieto, al di là del dettato statutario, negli accordi tra i soci.

Il giudice di legittimità – discostandosi in parte dalla precedente pronuncia del 1994 (Cass., 29 ottobre 1994, n. 8927, cit.), nonché dalla dottrina maggioritaria – giunge alla conclusione che tale divieto, proprio per la sua finalità di preservare la causa di società, non può e non deve trovare spazio negli accordi tra i soci, che regolano i loro rapporti interni (in dottrina, si è espresso per l'applicazione del divieto di patto leonino anche con riferimento ai patti tra soci, tra gli altri, Barcellona, Clausole di put & call a prezzo predefinito: fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, Milano, 2004, 34).

Sebbene le due pronunce partano dalla medesima considerazione che, nel caso dei rapporti parasociali, la società che esercita l'opzione è creditrice non già della società, ma del socio, attenendo la previsione di cui alla clausola put ai rapporti interni tra i singoli soci (in tal senso, in giurisprudenza anche Trib. Cagliari, 3 aprile 2008, in Banca borsa tit. cred., 2009, 746 ss., con commento di Santagata, Partecipazioni in s.r.l. a scopo di finanziamento e divieto del patto leonino), le stesse giungono a conclusioni differenti.

La sentenza del 1994 stabiliva, infatti, che le clausole put contenute in un patto parasociale, proprio per la loro diversa natura, meritassero un'analisi casistica volta ad appurare, innanzitutto il loro carattere assoluto e costante e, in secondo luogo, la loro idoneità a realizzare autonomi interessi meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 1322, comma 2, c.c., al contrario delle clausole del medesimo tenore contenute nello statuto sociale che dovevano considerarsi nulle tout court per violazione di una norma imperativa.

La pronuncia in commento, con maggior vigore rispetto alla precedente, si spinge invece a concludere che tale divieto non possa trovare spazio – a prescindere dalle valutazioni sulla meritevolezza – nelle pattuizioni parasociali proprio per la mancanza di un impatto “esterno” nei confronti della società, essendo irrilevante il trasferimento del rischio fra un socio e un altro che non alteri la posizione nei confronti della società.

La Corte, infine, si sofferma sul requisito della meritevolezza, che ravvisa nel caso di specie nell'apporto di risorse finanziarie alla società, mediante nuove alleanze strategiche.

Conclusioni

La pronuncia della Corte di Cassazione può considerarsi assolutamente innovativa, arrivando a sancire espressamente come l'autonomia delle parti possa spingersi al di là delle previsioni codicistiche in materia, e in particolari dell'art. 2265 c.c.

Le conclusioni cui giunge la pronuncia, oltre che condivisibili, sono soprattutto in linea con le concrete esigenze dettate dall'evoluzione della prassi, anche in un'ottica di salvaguardia degli investimenti e del generale principio di certezza dei traffici giuridici.

Distinguendosi dalla sentenza del 1994, in cui l'elemento preponderante del ragionamento giuridico della corte di legittimità finiva per essere la meritevolezza, requisito soggetto ad una valutazione assolutamente discrezionale dei giudici di merito, oggi sembra che la S.C. voglia dare preponderanza all'argomentazione relativa alla natura delle previsioni contenute di pattuizioni parasociali (nonché difformità di trattamento rispetto alle previsioni statutarie), lasciando al requisito della meritevolezza ex art. 1322 c.c. un ruolo non necessariamente determinante, e così fornendo maggiori certezze agli operatori del mercato.