Gli equivoci del rito abbreviato: la parabola discendente di un codice “colabrodo”

05 Novembre 2018

Nei giorni in cui il Legislatore, animato da istanze contingenti e nient'affatto programmatiche, s'affatica sull'ennesima riforma del giudizio abbreviato, può essere utile qualche riflessione sulle interpolazioni asimmetriche subite negli anni dal codice di procedura penale. Il rito allo stato degli atti offre un'interessante chiave di lettura sulle “violenze” subite nei ventinove anni di vita del nuovo codice di procedura penale.
Abstract

Nei giorni in cui il Legislatore, animato da istanze contingenti e nient'affatto programmatiche, s'affatica sull'ennesima riforma del giudizio abbreviato, può essere utile qualche riflessione sulle interpolazioni asimmetriche subite negli anni dal codice di procedura penale.

Il rito allo stato degli atti offre un'interessante chiave di lettura sulle “violenze” subite nei ventinove anni di vita del nuovo codice di procedura penale.

Tutto si tiene? Non piu!

Il codice Vassalli aveva una sua logica sistematica: era orientato sul “momento” dibattimentale e sulla prova che si forma in contraddittorio. Tutto l'impianto processuale era stato immaginato e costruito intorno a quella fase: il contraddittorio per la prova. Un confronto di tesi: contra dicere in condizioni di parità e equidistanza da chi deve ius dicere.

Secondo l'insegnamento tradizionale il contraddittorio per la prova va distinto dal suo gemello “cattivo”: il contraddittorio sulla prova.

Così non è stato.

Le ragioni del fallimento sono diverse; le responsabilità molteplici ed equamente distribuibili.

Il sistema accusatorio fu calato in una realtà culturalmente impreparata a recepirlo, talvolta ideologicamente ostile, altre volte ideologicamente resistente. Vi erano, sin dall'origine, alcuni bug di sistema: in un software accusatorio sopravvivevano – e oggi continuano ancor di più a sopravvivere – alcuni virus inquisitori.

Quel progetto aveva però un'armonia di sistema ed era il frutto di un'idea culturalmente e scientificamente definita. Certo non era un progetto perfetto, ma nel tempo è stato peggiorato e trasformato in qualcos'altro: in un sistema accusatorio per tendenza o per aspirazione. Un sistema infettato da “cellule malate” (il doppio binario, il sistema della prevenzione, l'inquisizione latente) in grado di indebolirlo dall'interno e di moltiplicare le procedure penali.

È oggi giustamente radicata l'idea che il nostro processo penale non sia un sistema accusatorio puro. La domanda è: il sistema “tiene” ancora?

La parabola del giudizio abbreviato: prima della legge Carotti

Il summary trial all'italiana nacque come meccanismo di compensazione inquisitorio all'interno di un rito tendente all'accusatorio.

Tutto ciò che non meritava i costi, i tempi e gli approfondimenti dibattimentali avrebbe dovuto trovare definizione contratta in udienza preliminare e sulla base del solo materiale di indagine raccolto dal pubblico ministero. In cambio e nell'ipotesi di condanna lo Stato offriva un beneficio: la pena ridotta di un terzo.

Le chiavi di accesso – nella sua formulazione originaria – richiedevano però il consenso del pubblico ministero e la valutazione di definibilità allo stato degli atti da parte del giudice dell'udienza preliminare. Spesso il consenso era negato e il rito fallì la sua portata deflattiva.

Intervenne la Consulta: la parte processuale che negava il consenso alla definizione abbreviata doveva motivarne le ragioni. Se in esito al dibattimento il dissenso fosse risultato immotivato, la “perdita di tempo procurata al sistema” avrebbe premiato l'imputato, così che il giudice del dibattimento avrebbe dovuto accordargli il beneficio (Corte cost., 8 febbraio 1990, n. 66).

Analoga soluzione venne adottata per le ipotesi in cui il giudice per le indagini preliminari, nonostante il consenso del pubblico ministero, non avesse pronunciato ordinanza di ammissione al rito abbreviato sulla ritenuta impossibilità di decidere allo stato degli atti. Anche in tale caso, il giudice del dibattimento avrebbe potuto “sanzionare” la preclusione della scelta deflattiva e applicare la riduzione premiale (Corte cost.,31 gennaio 1992, n. 23).

La sentenza n. 23/1992 della Corte costituzionale si sforzava di trovare un equilibrio all'autarchia decisionale del giudice per le indagini preliminari sul rilievo che «qualora nonostante l'adesione del pubblico ministero, la pretesa stessa non venga soddisfatta dal giudice per le indagini preliminari, non possa spettare a questi l'ultima parola, in modo preclusivo, sulla decidibilità allo stato degli atti, con una pronuncia che, senza possibilità di controllo, incide sulla misura della pena».

Sulla considerazione che l'accordo sul rito fosse rimesso alla disponibilità delle parti, la Corte costituzionale rilevò come «lesiva della relativa posizione sostanziale dell'imputato l'attribuzione, in via esclusiva, al giudice per le indagini preliminari del potere di definire in senso negativo il giudizio […], senza alcun controllo al riguardo. Dato che "nessuna disposizione del codice medesimo consente al giudice del dibattimento di sindacare la determinazione del giudice per le indagini preliminari contraria all'adozione del rito abbreviato" (vedi ord. n. 101 del 1991), sottrarre al primo un controllo diretto a verificare la sussistenza del presupposto della decidibilità allo stato degli atti, limiterebbe in modo irragionevole il diritto di difesa dell'imputato, nell'ulteriore svolgimento del processo, su di un aspetto che ha conseguenze sul piano sostanziale».

Un abbreviato diverso da quello originario

Il giudizio abbreviato, che era stato “progettato” con pesi e contrappesi, dopo le prime pronunce di incostituzionalità aveva perduto la sua identità.

L'indagine rimaneva preliminare, cioè breve, a certo tempo e destinata alle determinazioni ex 405 c.p.p.; si manteneva finanche la diversità lessicale degli atti di indagine (le informazioni sommarie, gli accertamenti tecnici etc.) ma il pubblico ministero e il giudice per le indagini preliminari non erano più arbitri della piattaforma probatoria, dovendo motivare le ragioni del dissenso e della non ammissione al rito col rischio di vedere processualmente censurata la preclusione premiale.

La semplificazione deflattiva: l'apparente equilibrio anche dopo la riforma Orlando

Falliti gli obiettivi deflattivi del rito, del resto complicati dalle “addizioni” del giudice di legittimità, il Legislatore (legge c.d. Carotti n. 479/1999) ne rilanciò il “fascino premiale” prevedendo, nella forma del c.d. abbreviato semplice cioè non subordinato alla condizione di integrazione probatoria, che il semplice “gesto del bottone pigiato dall'imputato” potesse bloccare il divenire processuale e imporre pronuncia “allo stato degli atti”.

Per compensare quello che era divenuto, nell'ipotesi di abbreviato semplice, un vero e proprio diritto potestativo dell'imputato (così P. Ferrua), furono previsti meccanismi di integrazione probatoria rimessi alle valutazioni ex officio del giudicante (art. 441, comma 5, c.p.p.), mutuando sub-modelli inquisitori che qui e là pervadono il codice di procedura (si pensi ad esempio agli artt. 507 e 603 c.p.p.).

Si tratta però di un equilibrio apparente, destinato a creare equivoci e “vulnus” di sistema.

Innanzitutto, un pubblico ministero avveduto dovrà proiettare le sue determinazioni investigative su un doppio piano: quello di indagine e quello probatorio.

Se il piano investigativo “nasce e muore” nelle determinazioni del procedimento (archiviazione oppure esercizio dell'azione penale), il piano probatorio è destinato a sopravvivere all'accertamento di responsabilità. Qualunque pubblico ministero avveduto, nella consapevolezza che l'imputato stimi insufficienti gli accertamenti investigativi e chieda di essere giudicato su di essi, tenderà a “colmare” le deficienza di una raccolta preliminare con l'autosufficienza probatoria delle indagini (indagini che, al contrario, dovrebbero essere finalizzate alle sole determinazioni propulsive del procedimento). Ne segue, come si registra ad ogni latitudine, una inusuale dilatazione dei tempi della fase di indagine con l'allontanamento temporale del fatto dalla sua sede di naturale accertamento: il dibattimento nel contraddittorio per la prova tra le parti.

Le distonie di sistema

L'imputato, ancorché sia “libero di scegliere il suo destino” con la rinuncia all'accertamento dibattimentale dei fatti, rimane vincolato al rito e non ha la possibilità di revocarlo, neppure laddove la piattaforma probatoria muti per effetto dell'esercizio dei poteri d'ufficio (art. 441, comma 5, c.p.p.) del giudice: electa una via, non datur recursus ad altera.

E questo l'aspetto più controverso dell'attuale assetto normativo.

La scelta del rito abbreviato è infatti manifestata direttamente dall'imputato o per il tramite di una procura ad hoc conferita al difensore.

È innegabile come la scelta difensiva - tecnica e di stretta prerogativa del difensore - fondi sul patrimonio probatorio raccolto dall'indagine, con la conseguenza che se cambia la piattaforma probatoria dovrebbe procedersi alla (ri)verifica della volontà di rinuncia al dibattimento.

Detto altrimenti: se l'abbreviato è rito “allo stato degli atti”, la cui scelta dipende dall'esercizio consapevole di un diritto potestativo dell'imputato che rinuncia al diritto di difendersi provando e accetta gli elementi probatori raccolti dall'accusatore, ogni modificazione del piano probatorio dovrebbe rimettere in discussione il consenso prestato prima della integrazione probatoria.

Si tratta, si badi, di una prospettiva che non è rimasta estranea all'ultima novella legislativa (l. 103/2017).

Nel recepire un orientamento giurisprudenziale tanto consolidato quanto opinabile, la riforma Orlando ha novellato l'art. 438, comma 4, c.p.p. con la previsione che il pubblico ministero può chiedere un termine per lo svolgimento di indagini suppletive ogniqualvolta l'imputato opti per il rito abbreviato immediatamente dopo aver depositato gli esiti delle indagini difensive. Per compensare ed equilibrare il rapporto, la norma ha tuttavia previsto che, laddove il pubblico ministero eserciti il diritto alla controprova sulle nuove informazioni probatorie introdotte dalla difesa, l'imputato può revocare la richiesta di celebrazione nelle forme del giudizio abbreviato.

Si tratta, com'è agevole osservare, di una “preoccupazione” avvertita sin dalla sentenza della Corte costituzionale (n. 23/1992, cit.) che aveva rimarcato come la scelta del rito fosse «intimamente collegat[a] e strettamente consequenzial[e] ad una situazione processuale prevalentemente rimessa alla disponibilità delle parti».

Non si comprende dunque per quale ragione un'analoga previsione di recesso non sia stata disciplinata nelle ipotesi di integrazione ex officio ex art. 441, comma 5, c.p.p.. Né varrebbe al riguardo obiettare che, in questo caso, la differenza risieda nel soggetto che dispone la prova.

Infatti, il tema della critica che qui si affronta all'attuale sistema processuale è un altro: a patrimonio informativo variato, s'impone la (ri)verifica della volontà dell'imputato di rinunciare alla prerogativa costituzionale del giusto processo? Si giustifica o no, la possibilità dell'imputato di tirarsi fuori dal rito sommario in conseguenza dell'alea probatoria non più rimessa alla sua disponibilità?

Del resto, ragionando in termini più generali, la parte civile ha la possibilità di non accettare il rito abbreviato (art. 441, comma 4,c.p.p), nel quale, di norma, non può introdurre elementi di prova sulla lite minore (salve le indagini difensive).

Il responsabile civile, per le medesime ragioni, è estromesso d'ufficio dal giudizio abbreviato (art. 87, comma 3, c.p.p.).

Ne deriva, all'evidenza, che accusa e difesa sono gli unici protagonisti del rito. La prima perché “forma” il materiale probatorio del giudizio contratto; la seconda perché lo accetta, accedendo al rito sommario. Per dirla con le parole della Corte Costituzionale, il giudizio abbreviato – recte il corredo probatorio - è nella disponibilità di quelle due parti, potendo le parti eventuali tirarsene fuori.

Ad aggravare il sacrificio del diritto costituzionale al giusto processo concorrono le rinunce conseguenti alla scelta del rito: la sanatoria delle nullità, la non rilevabilità delle inutilizzabilità e finanche la lesione del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 438, comma 6-bis, c.p.p.).

Né varrebbe obiettare che la prova disposta dal giudice sia neutra e, in ipotesi, favorevole all'imputato. L'attuale assetto del giudizio penale è, infatti, orientato sull'obbligo, da parte del giudice, di sperimentare il dubbio e cioè di disporre prove tutte le volte in cui in esse intraveda la soluzione allo stallo del giudizio. Si tratta quindi di una prerogative che nel sistema è riconosciuta al giudice non in chiave di garanzia per l'imputato, ma in funzione strettamente inquisitoria. Solo laddove la sperimentazione del dubbio mediante la prova d'ufficio non avrà soluzione, il giudice dovrà risolvere il giudizio pro reo.

L'argomento sulla (presunta) natura “neutra” della prova ex officio rischia dunque di confondere i piani di indagine.

Il tema rimane quello di partenza: a fronte di una rinuncia consapevole e irrevocabile, che compromette diritti costituzionali, per quale ragione l'imputato dovrebbe accettare anche l'alea di una piattaforma probatoria modificata in suo sfavore?

Al fondo della questione il tema è frutto di un equivoco: nella prassi quotidiana è ormai prevalente l'opinione che la scelta del giudizio abbreviato sia esclusivamente figlia della premialità del rito, sicché essa sarebbe l'opzione del colpevole che intende lucrare sul trattamento sanzionatorio. In realtà, e come sappiamo, la scelta del giudizio abbreviato può dipendere da strategie processuali che mirano alla celerità del rito, alla riservatezza della sua celebrazione e alla invariabilità del patrimonio informativo del processo.

Questi sono i temi che un legislatore attento dovrebbe porre al centro delle intenzioni riformatrici dell'istituto, la cui storia, come si è visto, è animata dalla costante ricerca dell'equilibrio tra i benefici e i sacrifici del rito.

Assistiamo invece alla replica dell'equivoco di fondo: la riduzione delle chance premiali dell'istituto. È facile profetizzare l'ennesimo fallimento deflattivo del rito speciale con effetti contrari a quelli auspicati in termini di ragionevole durata dei processi.

Infatti, la scarsa attrattività del sistema (con le rinunce previste dal comma 6 bis dell'art. 438 c.p.p.), la aleatorietà del patrimonio probatorio (con la possibilità integrativa del giudice ex art. 441, comma 5, c.p.p.) e la compressione della premialità, costituiscono sicuri indici della “convenienza” alla ribalta dibattimentale della vicenda processuale. L'esatto contrario di ciò che la propaganda politica propina.

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