Modificabilità degli accordi di separazione e rinuncia alla domanda
07 Novembre 2018
Massima
La modificabilità dei provvedimenti relativi alla separazione tra coniugi, di cui all'art. 710 c.p.c., non può riguardare gli accordi patrimoniali inseriti nell'accordo di separazione che hanno natura autonoma. La rinuncia agli atti del giudizio può essere validamente espressa, oltre che nelle forme indicate dall'art. 306 c.p.c., anche mediante un atto extraprocessuale e si perfeziona, nel caso vi siano parti interessate alla prosecuzione del processo, con l'accettazione della medesima, portata a conoscenza del rinunziante; in caso contrario, con la mera notificazione alle altre parti, prescritta dall'art. 306, comma 2,c.p.c.. Il caso
La questione analizzata riguarda due coniugi che, con l'accordo di separazione omologato dal Tribunale, avevano disposto, tra le altre cose, dell'utilizzo e dell'attribuzione di due immobili in comproprietà per quote indivise. In particolare, le parti avevano pattuito che un appartamento sarebbe rimasto a disposizione della moglie con successiva costituzione del diritto di usufrutto in suo favore sull'intero, mentre l'altro sarebbe rimasto nella disponibilità del padre e del figlio, con impegno della moglie a trasferire in seguito la sua quota al marito. Dopo sedici anni la donna aveva agito in giudizio chiedendo la costituzione del diritto di usufrutto sul primo immobile - ai sensi dell'art. 2932 c.c. - e la divisione del secondo; il convenuto aveva eccepito l'improcedibilità della domanda, in quanto, trattandosi di modifica di accordo di separazione, il giudizio avrebbe dovuto svolgersi con rito camerale ai sensi dell'art. 710 c.p.c. e, nel merito, aveva comunque chiesto, in via riconvenzionale, un indennizzo per l'utilizzo in via esclusiva del primo immobile e il rimborso delle spese di manutenzione del secondo. Il figlio era intervenuto nel giudizio chiedendo l'accertamento dell'acquisto della proprietà della quota parte della madre del secondo immobile per intervenuta usucapione. Nel corso del giudizio, la moglie aveva inviato al giudice istruttore una lettera con la quale dichiarava di voler rinunciare alla divisione, il documento era stato inserito nel fascicolo d'ufficio, ma alla successiva udienza di precisazione delle conclusioni la moglie aveva insistito sulla domanda di divisione medesima. Solo in seguito – in pendenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memoria di replica - il convenuto aveva chiesto il rilascio di una copia della lettera e una dichiarazione del cancelliere che attestasse la presenza del documento nel fascicolo, poi, in sede di memoria di replica, aveva dichiarato di accettare la rinuncia. Parte attrice aveva invece dichiarato di avere redatto la missiva in un momento di stanchezza susseguente ad un lungo rinvio dell'udienza, ma che non aveva alcuna volontà abdicativa della domanda. Il giudice del primo grado aveva deciso la causa dichiarando, preliminarmente, inammissibile l'intervento del figlio, aveva accolto le domande della moglie e rigettato quelle del convenuto, e, infine, aveva dato atto dell'errato inserimento della lettera nel fascicolo, escludendo che la stessa potesse avere rilievo ai fini della rinuncia alla domanda. Appellata la sentenza, la corte d'appello aveva confermato la decisione del primo grado precisando che il marito non aveva titolo per richiedere l'indennizzo, in quanto nell'accordo di separazione era espressamente stabilito che il primo immobile veniva assegnato alla moglie e che la dichiarazione stragiudiziale di rinuncia alla divisione, inviata dalla moglie all'istruttore, non poteva avere valore di rinuncia alla domanda, in quanto non ritualmente prodotta in giudizio. Il marito ricorreva dunque alla Suprema Corte che veniva chiamata a pronunciarsi su due questioni. La questione
Qual è il rito applicabile all'esecuzione e alla modifica di accordi contenuti nella separazione consensuale e quali sono i requisiti per una valida rinuncia agli atti del giudizio? Le soluzioni giuridiche
Il primo aspetto esaminato dalla Corte riguarda il rito applicabile alla vicenda. Il marito sosteneva infatti che la domanda di divisione dell'immobile (quello rimasto nella disponibilità sua e del figlio in virtù dell'accordo di separazione) avrebbe dovuto essere trattata con il rito camerale ai sensi dell'art. 710 c.p.c., sia perché andava a modificare un accordo omologato, sia in quanto relativa a una clausola dell'accordo inerente la regolamentazione dei rapporti riguardanti il figlio, al quale la madre aveva concesso l'uso della sua quota parte e chiedeva la cassazione della sentenza deducendo sia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, sia la violazione e falsa applicazione dell'art. 710 c.p.c.. La Corte ha dichiarato infondato il motivo, affermando che la censura di omesso esame di un fatto storico si riferisce esclusivamente al mancato esame di un elemento materiale, di un episodio fenomenico rilevante e delle sue ricadute in termini di diritto, che sia stato oggetto di discussione tra le parti e abbia il carattere della decisività, mentre con il ricorso, in realtà, si è censurata una mera questione di diritto, cioè l'omessa pronuncia di uno dei motivi di gravame, che non è un “fatto” principale o secondario, ma una “domanda” finalizzata all'accoglimento dell'appello e, quindi, eventualmente censurabile in cassazione sotto il profilo della violazione di legge. Con riferimento alla falsa applicazione dell'art. 710 c.p.c., invece, i Giudici di legittimità hanno ricordato che è pacifico che la clausola dell'accordo di separazione che contiene esclusivamente pattuizioni di contenuto patrimoniale, se autonomi e non direttamente connessi alla separazione, non sono suscettibili di modifica con il rito speciale camerale, ma sono soggetti al rito ordinario e disciplinati dall'art. 1372 c.c.. La questione non è nuova e con la decisione in commento si conferma l'orientamento che ritiene modificabili con il rito camerale esclusivamente le parti dell'accordo di separazione che sono strettamente connesse con il contenuto essenziale e tipico del negozio di separazione stesso. Come è noto, infatti, la separazione consensuale è un negozio giuridico di diritto familiare con un contenuto essenziale (la volontà di vivere separati, la regolamentazione dei rapporti con la prole, il mantenimento dei figli e, se ne ricorrono i presupposti, il contributo per il mantenimento del coniuge) e con un eventuale ulteriore contenuto, che trova solamente “occasione” della separazione. Con tale contenuto non necessario, le parti assumono obblighi che non hanno causa nella separazione, ma sono solo assunti in occasione della stessa, non dipendono dai diritti e dagli obblighi che derivano dal matrimonio, ma sono solo espressione della libera autonomia contrattuale; si tratta, in sostanza, di obblighi distinti e autonomi dalla separazione, ma che convivono nel medesimo atto, per ragioni di opportunità. Non è infatti infrequente che i coniugi, nel momento in cui prendono atto della crisi del rapporto coniugale vogliano definire ogni questione che li riguarda e che potrebbe tenerli legati in futuro, nonostante il venir meno dell'affectio coniugalis. Si tratta di accordi che rispondono, di norma, «ad un originario spirito di sistemazione, in occasione appunto dell'evento di "separazione consensuale" … di tutta quell'ampia serie di rapporti (anche del tutto frammentari) aventi significati (o, eventualmente, anche solo riflessi) patrimoniali maturati nel corso della (spesso anche lunga) quotidiana convivenza matrimoniale» (così Cass. civ., 22 novembre 2007, n. 24321). I patti che costituiscono il contenuto essenziale della separazione possono essere modificati, laddove sopravvengano elementi nuovi, o con le forme previste dall'art. del 710 c.p.c., oppure in sede di divorzio, gli altri, invece, sono regolati dall'art.1372 c.c. e dal rito ordinario (Cass. civ., 12 settembre 1997, n. 9034; Cass. civ., 15 maggio 1997, n. 4306; Cass. civ., 17 giugno 2004, n. 11342; Cass. civ., 23 marzo 2004, n. 5741; Cass. civ., 14 marzo 2006, n. 5473; Cass. civ.,24 aprile 2007, n. 9863; Cass. 22 novembre 2007, n. 24321). Al fine di valutare compiutamente quale sia la natura degli accordi, la Suprema Corte ha indicato alcuni parametri dei quali si deve tener conto al fine di stabilire se si tratti di patti connessi e collegati eziologicamente alla separazione o se siano accordi autonomi e diversi, solo occasionalmente collegati alla cessazione della convivenza. Non si può, infatti, affermare semplicisticamente che gli accordi che trovano la loro causa nella separazione riguardano esclusivamente l'assegnazione dell'abitazione familiare o l'assegno di mantenimento, ma si deve considerare che l'assegno può essere sostituito da altra forma di contribuzione, tra le quali può rientrare un particolare utilizzo della casa familiare, o che possono essere previsti obblighi sostitutivi dell'assegno mediante una specifica regolamentazione di rapporti patrimoniali. In tal senso è chiarissima la pronuncia Cass. civ., 19 agosto 2015, n. 16909 - che ha cassato con rinvio la decisione della Corte d'appello di Firenze che, in un giudizio di divorzio, aveva revocato la decisione del tribunale dichiarando privi di efficacia gli accordi patrimoniali conclusi dalle parti con la separazione – che ha affermato che è onere del giudice esaminare sia il materiale istruttorio, sia l'accordo di separazione consensuale al fine di distinguere quali patti abbiano causa concreta nella separazione stessa e nei doveri di solidarietà familiari, e quali invece «trovino in essa mera occasione mirando a riequilibrare la reciproca situazione patrimoniale in ragione di pregresse dazioni di denaro effettuate ad un coniuge in favore dell'altro». Con riferimento alla curiosa rinuncia alla domanda – inviata dalla parte personalmente con lettera indirizzata all'istruttore – il giudice di legittimità ha rigettato il motivo di impugnazione ribadendo quali sono le forme in cui può essere effettuata una valida rinuncia agli atti. Se è infatti vero che nessuna disposizione di legge impone che la rinuncia agli atti ricopra le forme di un atto processuale, essendo sufficiente un qualsiasi atto sottoscritto dalla parte - anche stragiudizialmente - purché dimostri la volontà di porre fine al giudizio, è altrettanto vero che, al fine dell'estinzione del processo e della dichiarazione di cessazione della materia del contendere tale volontà deve tradursi o in una dichiarazione processuale (della parte o del suo procuratore) o nella notifica dell'atto di rinuncia alle altre parti processuali, forme espressamente previste dall'art. 306, comma 2,c.p.c.. Osservazioni
Nella decisione in commento i Giudici di legittimità ricordano la distinzione tra contenuto necessario ed eventuale dell'accordo di separazione, ma non hanno potuto approfondire la questione del collegamento causale dell'accordo patrimoniale dedotto in giudizio con la separazione, e ciò, per quanto è dato comprendere, perché il ricorrente si è limitato a invocare genericamente l'applicazione dell'art. 710 c.p.c. senza alcuna distinzione sulla natura della clausola. Dalla premessa emerge infatti che le parti avevano stabilito di utilizzare ciascuna un immobile (entrambi in comproprietà pro indiviso), che uno dei due era stato concesso in uso anche al figlio, ma nulla è stato precisato in merito al valore economico e/o contributivo che avevano inteso attribuire a tali disposizioni, precludendo pertanto l'indagine sul punto. Per quanto riguarda, invece, la dichiarazione di volontà di rinunciare alla domanda, correttamente la Corte ha ribadito che la lettera inviata al magistrato non può ritenersi idonea ad estinguere il giudizio, in quanto non resa nel verbale di udienza né notificata alle altre parti e, quindi, priva di valore processuale. |