Codice antimafia. Le novità introdotte con il decreto sicurezzaFonte: DL 4 ottobre 2018 n. 113
07 Novembre 2018
Abstract
Non si tratta di una riforma, propriamente detta, bensì di un tentativo di “razionalizzazione” della procedura finalizzata all'irrogazione delle misure di prevenzione; l'obiettivo è porre rimedio a talune prassi distorsive che ponevano dei profili di incertezza negli organi adibiti a decidere sulle impugnazioni (art. 10), ai profili di coordinamento istituzionale fra gli organi proponenti (art. 17) e all'effettuazione delle indagini patrimoniali (art. 19). L'estensione dell'“interdittiva antimafia” (art. 67) anche ai condannati per i reati di cui all'art. 640, comma 2, n. 1) c.p., commesso ai danni dello Stato o di altro ente pubblico e art. 640-bis c.p. risponde, invece, a logiche di politica criminale. Nel c.d. decreto sicurezza – d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 – sono previste, all'art. 24, una serie di modifiche al codice antimafia volte – piuttosto che in un “giro di vite”, come sarebbe stato lecito attendersi dalla logica ispiratrice dell'intervento legislativo – a “razionalizzare” l'azione di prevenzione avviato dalle autorità competenti. Non, quindi, una riforma organica del codice antimafia né, tanto meno, una modifica “sostanziale” degli istituti giuridici inseriti nel d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Il decreto legge che, al momento in cui si scrive, non è stato convertito in legge, sebbene non constino modifiche che, in parte qua, possano riguardare il codice antimafia in sede di conversione del suddetto provvedimento, interviene su quattro disposizioni normative del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159: in tema di impugnazioni (art. 10), di titolarità della proposta (art. 17), di indagini patrimoniali (art. 19) e di effetti delle misure di prevenzione (art. 67). Le novità in tema di “impugnazioni” delle misure di prevenzione di cui all'art. 10 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159
Il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, all'art. 24, lett. a), prevede l'inserimento, all'art. 10 del codice antimafia, di un nuovo comma, il 2-quater, per cui: «in caso di conferma del decreto impugnato, la corte di appello pone a carico della parte privata che ha proposto l'impugnazione il pagamento delle spese processuali». La novella pone rimedio a una lacuna dell'originario codice antimafia che ha indotto i giudici di appello, nell'incertezza, a non statuire alcunché in ordine alle spese processuali del giudizio di impugnazione. Si tratta, invero, di un chiarimento legislativo cui può supplirsi attraverso una lettura sistematica del testo del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui, all'art. 10, comma 4, stabilisce che «salvo quanto stabilito nel presente decreto, per la proposizione e la decisione dei ricorsi, si osservano in quanto applicabili, le norme del codice di procedura penale riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi all'applicazione delle misure di sicurezza». Il rinvio recettizio alle norme del codice di rito implicano l'applicazione, tra le altre norme, dell'art. 592 c.p.p., per cui «con il provvedimento che rigetta o dichiara inammissibile l'impugnazione, la parte privata che l'ha proposta è condannata alle spese del procedimento». Si tratta, quindi, non proprio di una novità ma di una mera precisazione che impone il richiamo alla prassi applicativa che si è sedimentata nell'ambito del codice di rito penale. Cosicché, sul dubbio circa l'imputazione delle spese processuali, nel caso in cui la conferma sia parziale e non completa, la giurisprudenza ha affermato che «l'accoglimento, anche parziale, dell'impugnazione dell'imputato, comporta l'esclusione della sua condanna alle spese del procedimento» (Cass. pen., Sez. I, 24 novembre 2011, n. 3819) o, ancora, «il giudice di appello che modifichi la decisione di primo grado in senso più favorevole all'imputato non può contestualmente condannarlo alle spese processuali, in quanto tale condanna consegue esclusivamente, e senza possibilità di deroghe, al rigetto dell'impugnazione o alla declaratoria della sua inammissibilità» (Cass. pen., Sez. V, 4 luglio 2017, n. 40825). D'altronde, il tenore letterale della norma – che parla, tout court, di conferma del decreto impugnato – induce a ritenere che la condanna al pagamento delle spese processuali consegua solo nel caso di integrale conferma del decreto impugnato, perché nel caso di riforma, anche parziale, si legittimerebbe l'impugnazione proposta dalla parte privata. Nessuna modifica riguarda l'ambito soggettivo dei soggetti legittimati ad avanzare la proposta di misura di prevenzione. Restano all'uopo competenti: il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove dimora la persona, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, il questore o il direttore della Direzione nazionale antimafia. Invero, l'art. 17 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 è uno dei testi maggiormente rimaneggiato dai vari interventi legislativi che si sono succeduti nel tempo (d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito con modificazioni dalla l. 17 aprile 2015, n. 43; l. 17 ottobre 2017, n. 161 e, da ultimo, d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, qui in commento). Il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, interviene solo sulle procedure di coordinamento, tra il questore o il direttore della Direzione investigativa antimafia – nell'ipotesi in cui la proposta provenga da questi soggetti – e i “procuratori della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto”, al fine di evitare che la richiesta di misura di prevenzione arrechi pregiudizio alle attività di indagine condotta in altro procedimento (art. 17, comma 3-bis, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159). La riforma è volta allo “snellimento” della procedura, semplificando gli oneri comunicativi che gravano sul questore e sul direttore della Direzione investigativa antimafia che abbiano in animo di avanzare la proposta di misura di prevenzione. Infatti, la comunicazione che deve essere effettuata al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove dimora il prevenuto, almeno dieci giorni prima della presentazione della proposta medesima, con la riforma, deve essere effettuata in forma “sintetica” e non analitica. Anche in questo caso, si tratta di una precisazione, piuttosto che una vera e propria novità legislativa, atteso che la forma “sintetica” della preventiva informazione da inviare al procuratore della Repubblica del tribunale del capoluogo del distretto è, di per sé, rinvenibile dal fatto che il Legislatore abbia previsto una mera “comunicazione” e non una preventiva trasmissione della proposta della misura di prevenzione. Novità di rilievo è rappresentata dalla eliminazione dell'ipotesi di inammissibilità, in caso di omissione della suddetta comunicazione da parte del questore e del direttore della Direzione investigativa antimafia. Una sanzione che il Legislatore ha contemplato per meno di un anno dalla sua introduzione con l'art. 5, comma 1, lett. c), l. 17 ottobre 2017, n. 161. Sicché, la previa comunicazione al procuratore della Repubblica potenzialmente competente ad avanzare proposta di misura di prevenzione diviene un obbligo imperfetto, ovverosia senza alcuna sanzione processuale in caso di omissione. Contemplare come inammissibile la comunicazione non giunta dieci giorni prima della proposizione della richiesta della misura di prevenzione implica che questo termine sia da ritenere perentorio. L'eliminazione di questa sanzione restituisce coerenza a un meccanismo procedimentale che, con la riforma del 2017, sembra irrimediabilmente persa perché la sanzione dell'inammissibilità per la mancata comunicazione (e, quindi, del mancato coordinamento) è apparso, sin da subito, non “in linea” con la scansione procedimentale in parola. Ripercorrendo la natura epistemologica dalla sanzione processuale de qua, si ritiene che la stessa scaturisca da un difetto di legittimazione, ovvero della mancanza di uno dei requisiti tipici della proposta espressamente richiesti dalle disposizioni normative che regolano l'istituto. Ma così non è. Non si tratta, infatti, di un problema di legittimazione perché il questore e il direttore della Dia sono, per tabulas, legittimati a proporre la misura di prevenzione. Del pari, non si tratta di un requisito tipico che attiene alla forma della proposta, bensì di un onere di coordinamento tra due organi istituzionali potenzialmente in grado di avanzare la medesima proposta di misura di prevenzione. Di conseguenza, anche il termine dilatorio di dieci giorni prima della proposizione della richiesta di misura è da ritenersi non più presidiato dalla perentorietà. Il procuratore della Repubblica presso il capoluogo del distretto ha ulteriori dieci giorni, a partire dal momento in cui giunge la comunicazione di cui alla lett. c), dell'art. 17 del codice antimafia, di comunicare «all'autorità proponente l'eventuale sussistenza di pregiudizi per le indagini preliminari in corso». Anche qui, non si tratta di un termine perentorio, ben potendo sollevare la pregiudizialità anche dopo questo termine. Tuttavia, siffatta comunicazione di pregiudizialità non contempla la priorità di una iniziativa rispetto ad un'altra, bensì la necessità che «il procuratore concord[i] con l'autorità proponente le modalità di presentazione congiunta della proposta». Il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 ha, altresì e sempre nell'ottica dello snellimento delle procedure, eliminato l'onere di predisporre un provvedimento formale, corredato di motivazione – gravante sul questore o sul direttore della Direzione nazionale antimafia e rivolto al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto – ove, a seguito delle indagini patrimoniali, si ritengano insussistenti i presupposti per l'esercizio dell'azione di prevenzione. Una sorta di provvedimento di archiviazione, inserito con l'art. 5, comma 1, lett. c), l. 17 ottobre 2017, n. 161 che, oltre a costituire un “drappello” formale destinato ad “appesantire” la procedura di prevenzione, spiega inevitabili effetti preclusivi laddove altre autorità, legittimate all'azione di prevenzione, volessero intraprendere una procedura tesa all'applicazione di una misura di prevenzione personale o patrimoniale. È evidente, infatti, che le deduzione inserite nel provvedimento di archiviazione dell'azione di prevenzione è destinato a precludere o, quanto meno, a condizionare in maniera consistente qualsivoglia iniziativa, del medesimo genere intrapresa da altri soggetti legittimati. Resta inteso che, nel giudizio di prevenzione e, di conseguenza, anche per il provvedimento che chiude anticipatamente la procedura in parola, «l'intangibilità del giudicato opera rebus sic stantibus e non impedisce né l'esame di nuove e diverse circostanze, sopravvenute o emerse successivamente, anche se anteriori, né la valutazione, nella nuova situazione, di tutte le circostanze, comprese quelle considerate nella precedente decisione, al fine di applicare una misure in precedenza negata ovvero una misura più grave di quella già inflitta» (di recente, Cass. pen., Sez. V, 23 febbraio 2015, n. 16019). L'eliminazione del provvedimento che, all'esito delle indagini patrimoniali, il questore o il direttore della Direzione investigativa antimafia avrebbero dovuto adottare nel caso non si individuassero i presupposti per dare adito all'azione di prevenzione impedisce che si abbia questo effetto preclusivo, non essendovi alcuna forma di para-decisione, con supporto motivazionale, che consenta qualsivoglia possibilità di richiamo successivo. Il comma 4 dell'art. 19 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 è stato modificato dall'art. 24, comma 1, lett. c), d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, aggiungendo l'inciso di cui al primo periodo, nell'intento di circoscrivere la possibilità di procedere a sequestro, ai sensi degli artt. 253, 254 e 255 c.p.p., della documentazione necessaria per effettuare le indagini patrimoniali. L'aggiunta di tale inciso, infatti, permette di procedere a sequestro della «documentazione ritenuta utile ai fini delle indagini» che si trova presso «ad ogni ufficio della pubblica amministrazione, ad ogni ente creditizio nonché alle imprese, società ed enti». È lecito ritenere che si tratta di un'occasione mancata perché il “decreto sicurezza” rappresenta, senza dubbio, l'occasio legis per poter estendere le prerogative del sequestro anche alla disposizione codicistica di cui all'art. 254-bis c.p.p., relativo al sequestro di dati informatici presso fornitori di servizi informatici, telematici e di telecomunicazione. Non si può dubitare che le comunicazioni per via telematica costituiscano una preziosa fonte di potenziali informazioni sulla consistenza patrimoniale del prevenuto o del tentativo di questi di dissimularne la consistenza. Al di là di questa circostanza, è da ritenersi che la possibilità di procedere a sequestro secondo le disposizioni codicistiche richiamate riguardi la documentazione in originale, attesa che la facoltà di estrarne copia (con conseguente rilascio della documentazione in originale al legittimo detentore) è già contemplata nel primo periodo dello stesso articolo. È chiaro che siffatta prerogativa è subordinata alla «previa autorizzazione del procuratore della Repubblica o del giudice competente». L'estensione degli “effetti delle misure di prevenzione” alla truffa aggravata ex art. 640, comma 2, n. 1), e 640-bis c.p.
L'art. 24, comma 1, lett. d), d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, estende gli effetti delle misure di prevenzione – la c.d. interdittiva antimafia – anche a coloro che sono stati condannati, in via definitiva «o, ancorché non definitiva, confermata in grado di appello», «per i reati di cui all'articolo 640, secondo comma, n. 1), del codice penale, commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico, e all'articolo 640-bis del codice penale», integrando, così, il contenuto dell'art. 67, comma 8, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Colore che sono condannati per truffa aggravata accusati di aver commesso il fatto «a danno dello Stato o di altro ente pubblico» (si esclude l'anacronistico riferimento al «pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare», ancora contenuto nell'art. 640, comma 2, n. 1), c.p.) ovvero «per il conseguimento di erogazioni pubbliche», di cui all'art. 640-bis c.p. Costoro, anche a seguito della sola sentenza di condanna di secondo grado per taluni di questi reati (che si vanno ad aggiungere a quelli già contemplati nell'art. 51, comma 3-bis, c.p.p.), incorrono nei divieti e nelle decadenze di cui ai commi 1, 2 e 4 dell'art. 67 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. A coloro che sono colpiti dalla c.d. interdittiva antimafia è fatto divieto di ottenere: a) licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio; b) concessioni di acque pubbliche e diritti ad esse inerenti nonché concessioni di beni demaniali allorché siano richieste per l'esercizio di attività imprenditoriali; c) concessioni di costruzione e gestione di opere riguardanti la pubblica amministrazione e concessioni di servizi pubblici; d) iscrizioni negli elenchi di appaltatori o di fornitori di opere, beni e servizi riguardanti la pubblica amministrazione, nei registri della camera di commercio per l'esercizio del commercio all'ingrosso e nei registri di commissionari astatori presso i mercati annonari all'ingrosso; e) attestazioni di qualificazione per eseguire lavori pubblici; f) altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati; g) contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali; h) licenze per detenzione e porto d'armi, fabbricazione, deposito, vendita e trasporto di materie esplodenti. Alla stessa stregua, nel caso in cui il soggetto sia colpito dalla interdittiva in parola dopo aver conseguito una delle posizioni soggettive indicate nelle lettere che precedono, si verifica la decadenza di siffatti rapporti «nonché il divieto di concludere contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, di cottimo fiduciario e relativi subappalti e subcontratti, compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera». Le licenze, le autorizzazioni e le concessioni sono ritirate e le iscrizioni sono cancellate ed è disposta la decadenza delle attestazioni a cura degli organi competenti. Questi divieti e decadenze – per effetto del richiamo all'art. 67, comma 4, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, contenuto nel comma 8 dello stesso articolo – operano anche nei confronti di chiunque conviva con la persona condannate, anche solo confermata in appello, per taluno dei reati di cui agli artt. 640, comma 2, n. 1), 640-bis c.p. (oltre a quelli richiamati nell'art. 51, comma 3-bis, c.p.p.), nonché nei confronti di imprese, associazioni, società e consorzi di cui il medesimo soggetto sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi. In tal caso i divieti sono efficaci per un periodo di cinque anni. Ciò posto, occorre interrogarsi se l'estensione della c.d. interdittiva antimafia, anche alle truffe ai danni dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, “snaturi” le caratteristiche somatiche di questo istituto che, di recente, il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, ha definito come «una particolare forma di incapacità ex lege, parziale — in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica amministrazione — e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto — persona fisica o giuridica — è precluso avere con la Pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall'art. 67, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159» (Cons. Stato, ad. pl., 6 aprile 2018, n. 3). La risposta non può che essere negativa, atteso che l'estensione operata con il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, lungi dal porre novità strutturali nell'istituto in parola, si limita ad effettuare un'estensione oggettiva legata a logiche di politica criminali a chi, nei confronti dello Stato, di altro ente pubblico o delle Comunità europee, si sia comportato in maniera infedele. In conclusione
Giunti al termine di questa disamina non resta che constatare la logica di fondo che ha animato il Legislatore nel momento in cui, con il c.d. decreto sicurezza, ha ritenuto solo di lambire il codice antimafia, senza tuttavia scardinarne la logica di sistema. Chiaro che non fosse il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, l'oggetto della riforma, tuttavia si è voluto sfruttare l'occasione per restituire coerenza ad un sistema procedimentale “corroso” da tanti e disorganici interventi legislativi. Non si può certo dire che il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 contribuisca a disorientare l'interprete che si approccia al codice antimafia perché è cosi tenue l'impatto della novella da non lasciare quasi il segno. È possibile che in sede di conversione possano esserci delle modificazioni che riguardino il codice antimafia, pur tuttavia colpisce il fatto che alcune interventi hanno riguardato disposizioni normative entrate in vigore da meno di un anno (si pensi alla riforma dell'art. 17) che, verosimilmente, si sono rivelate del tutto asimmetriche rispetto alla logica delle misure di prevenzione. Questa è, forse, l'unica riflessione degna di rilievo: la qualità dell'intervento riformatore sul codice antimafia è spesso scadente e priva di una seria riflessione logica e giuridica sull'impatto che le novelle potrebbero avere sulla prassi applicativa. A distanza di pochi anni dall'adozione del codice antimafia e dopo una moltitudine di interventi legislativi, è già giunto il momento di “ripensare”, in chiave sistematica, all'intero apparato del codice antimafia. |