La Cassazione è sempre più granitica sul punto: sono inammissibili le impugnazioni (anche quelle cautelari) trasmesse con PEC
20 Novembre 2018
Massima
Con la sentenza del 15 maggio 2018, n. 43872, depositata il 3 ottobre 2018 la quarta Sezione penale della Cassazione ha ribadito che «È inammissibile l'impugnazione cautelare reale trasmessa alla A.G. mediante l'uso della posta elettronica certificata (c.d. PEC) o mediante fax in quanto le modalità di presentazione e di spedizione dell'impugnazione, disciplinate dall'art. 583 c.p.p. - esplicitamente indicato dall'art. 309, comma 4, a sua volta richiamato dall'art. 310, comma 2, c.p.p. - sono tassative, inderogabili e non ammettono equipollenti, mentre nessuna norma prevede la trasmissione delle impugnazioni mediante l'uso della PEC o del fax». Il caso
Il Tribunale di Salerno, quale giudice del riesame, con ordinanza pronunciata il 27 novembre 2017 ha dichiarato inammissibile la richiesta di riesame reale presentata dal difensore degli indagati avverso il provvedimento di sequestro eseguito il 27 ottobre 2017, ritenendo tardiva l'impugnazione depositata in cancelleria all'undicesimo giorno ed irrituali, e dunque tali da rendere l'atto irricevibile, quelle inviate al decimo giorno utile a mezzo fax e a mezzo posta elettronica certificata (di seguito PEC).
Avverso l'ordinanza emessa dal giudice del riesame, ha proposto ricorso per cassazione il difensore dei due indagati deducendo, quale unico motivo, la violazione di legge nell'assunto che dovesse essere ritenuta tempestiva l'impugnazione proposta, in quanto inviata nel decimo giorno utile, e dunque nei termini, a mezzo fax e a mezzo PEC, strumento, questo, che è consentito dall'art. 48 del d.lgs. n. 82 del 7 marzo 2005, come sostituito dall'art. 33 del d.lgs. n. 235 del 30 dicembre 2010, e dall'art. 16, comma 4, del d.l. n. 179 del 16 ottobre 2012.
La quarta Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 43872 del 3 ottobre 2018 (ud. 15 maggio 2018), in commento, ha ritenuto manifestamente infondati e dunque inammissibili i ricorsi. La questione
La questione che la Corte affronta può essere così sintetizzata: è ammissibile proporre impugnazione, nel caso di specie una impugnazione cautelare reale, a mezzo PEC? Si torna dunque a parlare della possibilità per le parti processuali - nel caso in esame private, ma il discorso si estende anche alla parte pubblica - di effettuare il deposito telematico dell'atto di impugnazione, trasmettendolo alla cancelleria dell'ufficio giudiziario interessato con posta elettronica. La risposta che da la Corte è negativa ed essa è in linea con l'orientamento granitico sul punto specifico. Le soluzioni giuridiche
La questione di cui la Corte si occupa nella sentenza n. 43872/2018 in esame, si inquadra nell'ambito del più generale discorso sui limiti normativi e di sistema che incontrano le trasmissioni di atti con PEC in “uscita” da una parte processuale (privata o pubblica) ed “in entrata” negli uffici giudiziari. Se infatti il legislatore, con l'art. 16, comma 4, del d.l. n. 179 del 16 ottobre 2012 e succ mod. ha espressamente previsto che le notificazioni a cura della cancelleria a persona diversa dall'imputato a norma degli arttt. 148, comma 2-bis, 149, 150 e 151, comma 2, c.p.p. avvengano per via telematica con PEC, manca, nella normativa in esame, una norma di egual tenore che, in via generale, consenta alla persona diversa dall'imputato di trasmettere atti alla AG con PEC La Corte viene dunque chiamata a valutare se l'impugnazione cautelare reale possa essere trasmessa con PEC e dunque, in definitiva, se sia consentito il deposito telematico dell'atto di impugnazione.
Per rispondere al quesito, la Corte analizza gli arresti giurisprudenziali, che, con riferimento alle modalità di trasmissione delle impugnazioni, sono conformi ed assolutamente granitici. Vengono quindi richiamate le massime delle sentenze in cui la Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione proposto a mezzo PEC (Sez. 6, n. 55444 del 5 dicembre 2017; nello stesso senso, Sez. 4, n. 18823 del 30 marzo 2016), o l'opposizione a decreto penale di condanna (Sez. 3, n. 50923 dell'11 luglio 2017; in conformità, da ultimo, Sez. 4, n. 21056 del 23 gennaio 2018). E vengono anche richiamate quelle decisioni, relative all'inoltro dell'impugnazione con fax, che hanno escluso anche questa modalità di trasmissione (Sez. 1, n. 16356 del 20 marzo 2015, in senso conforme, in un caso di impugnazione cautelare del P.M. impropriamente "anticipata" a mezzo fax, v. Sez. 5, n. 21942 del 6 maggio 2010). Il principio espresso dalla Corte in tutti questi casi è infatti sempre lo stesso: in materia di impugnazioni vige il principio di tassatività ed inderogabilità delle forme stabilite dalla legge per la presentazione del ricorso in quanto si tratta di requisiti la cui osservanza è sanzionata a pena di inammissibilità; da ciò l'inammissibilità di forme di trasmissione diverse da quelle tassativamente previste, tra le quali rientrano sia l'invio dell'impugnazione con fax, che, più di recente, con PEC.
Questo principio vale anche nel caso delle impugnazioni cautelari. Di qui il richiamo alle sentenze che hanno ritenuto inammissibile anche l'impugnazione cautelare proposta dal P.M. (Sez. 5, n. 24332 del 5 marzo 2015), le cui massime si attagliano perfettamente al caso in esame («È inammissibile l'impugnazione cautelare proposta dal P. M. mediante l'uso della posta elettronica certificata (c.d. PEC), in quanto le modalità di presentazione e di spedizione dell'impugnazione, disciplinate dall'art. 583 c.p.p. - esplicitamente indicato dall'art. 309, comma 4, a sua volta richiamato dall'art. 310, comma 2, c.p.p. - e applicabili anche al pubblico ministero sono tassative e non ammettono equipollenti, stabilendo soltanto la possibilità di spedizione dell'atto mediante lettera raccomandata o telegramma, al fine di garantire l'autenticità della provenienza e la ricezione dell'atto, mentre nessuna norma prevede la trasmissione mediante l'uso della PEC»).
La Corte, nella sentenza in commento, facendo proprio l'orientamento espresso, censura i rilievi difensivi anche sotto altri profili. Nel premettere che allo stato è normativamente prevista solo la notificazione a mezzo PEC a cura della cancelleria, diretta a persone diverse dall'imputato e che la PEC garantisce, in realtà, la sola riferibilità della provenienza del file dal servizio amministrativo che lo spedisce, né più né meno del fax appartenente al detto servizio, esclude che la tassatività delle forme di impugnazione sia superabile alla luce dell'altra norma invocata dalla difesa, ossia l'art. 48 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (norma che per altro è stata interessata dal correttivo introdotto con il d.lgs 217/2017 che, all'art. 65 co. 7, ha espressamente stabilito che “L'articolo 48 del decreto legislativo n. 82 del 2005 È abrogato a decorrere dal 1° gennaio 2019”, n.d.r.), che sancisce l'equiparazione della trasmissione di un documento informatico con la posta elettronica certificata, alla notificazione a mezzo posta, poiché tale norma fa salva, comunque, la specialità delle normative di settore, nel caso in esame integrate dal disposto dell'art. 583 c.p.p.. Parimenti esclude che il caso in esame possa essere assimilato a quello dell'istanza di rinvio del difensore per adesione all'astensione della udienza tramite fax, ovvero tramite PEC, trattandosi di un caso del tutto diverso dalla presentazione dell'impugnazione, che è governata dal principio della tassatività e della inderogabilità delle forme ex art. 583 c.p.p.. Diversamente dall'ipotesi in esame, la richiesta di rinvio per adesione all'astensione (oltre a fondarsi su una specifica regolamentazione di settore – art 3 del codice di autoregolamentazione, n.d.r.) porta poi a delle conseguenze diverse che la Corte cosi sintetizza: 1) l'uso delle modalità di trasmissione in questione (fax e posta elettronica) al fine di avanzare richiesta di rinvio dell'udienza espone il richiedente al rischio della intempestività, nell'ipotesi in cui l'istanza di rinvio dell'udienza non venga portata a conoscenza del giudice procedente 2) il giudice è tenuto ad esaminare l'istanza di rinvio inoltrata a mezzo fax (cui va equiparata la posta elettronica) ma solo se ne abbia avuto conoscenza in tempo utile Si tratta però di una situazione diversa da quella in esame, e di qui la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di 2.000,00 euro ciascuno, da versare alla cassa delle ammende. Osservazioni
La sentenza in commento è conforme all'orientamento uniforme della Corte, espresso nei casi in cui il legislatore stabilisca, in modo inderogabile e tassativo, quali siano le modalità di trasmissione. Un dato di partenza è indiscusso, ed esso appare essere ben chiaro alla Corte, anche quando non viene chiaramente esplicitato: le notificazioni o comunque le comunicazioni da parte dei privati, rivolte alla AG, non possano farsi con PEC, da un lato perchè la PEC è lo strumento normativamente previsto (dall'art. 16, co 4, d.l. 18 ottobre 2012 n. 179 e succ. modificazione) per le notificazioni (non anche per le comunicazioni, a rigore) che la cancelleria effettua a persona diversa dall'imputato, mentre il contrario (ossia dalle parti alla cancelleria) non è normativamente disciplinato, almeno non nella legge in questione; da un altro lato, perchè manca una norma che preveda e quindi consenta in via esclusiva il deposito telematico degli atti, come invece è previsto nel procedimento civile (all'art. 16-bis del d.l. n. 179/2012). La decisione in esame si colloca in questo filone, che, si fonda sull'attuale assetto normativo e tiene conto del fatto che questa tipologia di atti prevedono una particolare forma di trasmissione, che esclude del tutto il deposito telematico degli atti e dunque, di riflesso, la loro trasmissione alla A.G. da parte del privato a mezzo pec (ma il principio vale anche per il fax).
In questo ambito, prevedendo il legislatore una modalità tassativa di trasmissione che non è la PEC, essa va sicuramente esclusa e così si spiegano tutte le decisioni, conformi, in tema di impugnazioni, nelle quali i mezzi per presentarla (spedizione dell'atto mediante lettera raccomandata o telegramma) sono tassativi e ciò sia quando si tratti di impugnazioni ordinarie che cautelari, anche se proposte dal P.M, o in tema di ricorso per cassazione (Sez. 5, Sentenza n. 12347 del 13 dicembre 2017 Ud. (dep. 16 marzo 2018); Sez. 4, Sentenza n. 18823 del 30 marzo 2016 - dep. 5 maggio 2016) o, ancora, in caso di opposizione a decreto penale di condanna (Sez. 4, Sentenza n. 21056 del 23 gennaio 2018 Cc. - dep. 11 maggio 2018; Sez. 3, Sentenza n. 50932 del 11 luglio 2017 - dep. 8 novembre 2017), che viene assimilata alle impugnazioni.
A questi casi, espressamente contemplati dalla Corte, si aggiunge il caso del deposito di memorie innanzi alla Corte di cassazione o il caso del deposito della lista testimoniale (Sez. 3, Sentenza n. 6883 del 26 ottobre 2016 Ud. - dep. 14 febbraio 2017).
L'ulteriore caso che la Corte analizza, ossia quello della richiesta di rinvio per adesione all'astensione, per escludere che possa trovare applicazione nelle ipotesi in cui le modalità di trasmissione siano tassative, si colloca a ben guardare in un altro filone di pronunce, che non appaiono, secondo la scrivente, in contrasto con questo orientamento (diversamente da quanto di recente affermato dalla terza Sezione nella sentenza n. 43184 del 1° ottobre 2018 - ud. 17 maggio 2018-, che fa riferimento ad un contrasto sul tema nella giurisprudenza della Corte, in realtà solo apparente – n.d.r.). A parere di chi scrive, nella giurisprudenza della Corte sono enucleabili tre filoni, che rispondono ad uno stesso principio (Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), che, quand'anche non esplicitato, li connota tutti. L'interprete, nell'applicare il criterio secondo cui ciò che non sia previsto, non è voluto, ma non è neanche vietato, è tenuto anche a valorizzare gli input che provengono dal sistema giuridico attuale, che si mostra favorevole all'utilizzo della telematica nel processo penale. Ne deriva che quello stesso interprete, nei casi in cui non vi siano prescrizioni di forma speciali ed in quelli in cui vi siano solo generici riferimenti, dovrebbe prediligere interpretazioni in sintonia con questa evoluzione, arrestandosi per converso soltanto nei casi in cui l'espresso divieto di legge impedisce il ricorso ad altri argomenti interpretativi e non consenta forme "alternative" di comunicazione tra A.G. e parti processuali.
Ebbene, la giurisprudenza della Corte, sembra rifarsi proprio a questo principio e alla sua lettura sistematica.
Quando le modalità di trasmissione sono tassativamente ed inderogabilmente fissate dalla legge, e fra esse non è contemplata la PEC, quest'ultima va esclusa; quando la normativa di settore consente una qualunque forma di trasmissione, purchè “idonea”, allora la PEC – che è da ritenersi uno strumento “idoneo” - può essere ammessa, anche senza l'assunzione del rischio di intempestività a carico del mittente; se poi non vi è una specifica normativa di settore o se la normativa prevede genericamente il deposito dell'atto, ma non come forma esclusiva di trasmissione, allora, a seconda della tipologia dell'atto, può anche ammettersi che esso venga trasmesso con PEC, ma in questo caso il difensore si assume il rischio dell'intempestività, potendo quell'atto non essere stato portato tempestivamente a conoscenza del giudice.
Nella prima categoria rientrano il caso in esame e tutti gli altri casi sopraindicati.
Nella seconda categoria possono menzionarsi le pronunce in tema di DASPO (Sez. 3, n. 14832 del 13 dicembre 2017 - dep. 4 aprile 2018, Barzanti e altri) o quelle della richiesta di rinvio per adesione all'astensione (Sez. 4, n. 35683 del 26 luglio 2018 -ud. 6 giugno 2018).
Nell'ultima categoria rientrano tutti gli altri casi in cui il difensore voglia trasmettere istanze o memorie, nei quali non c'è nè una indicazione esclusiva sulle modalità di trasmissione (come per le impugnazioni), nè una normativa di settore specifica (come per il DASPO o il rinvio per adesione all'astensione). In questo ambito, le sentenze che aprono alla PEC appaiono essere espressione dell'applicazione di quel principio interpretativo secondo cui, da un lato, ciò che non è previsto, non è voluto, ma non è neanche vietato, e che, dall'altro, valorizza l'argomento ermeneutico, di tipo teleologico – sistematico, dell'evoluzione normativa nella normativa di settore, ormai aperta al telematico.
La richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell'imputato o del difensore è un tipico caso che rientra in questo filone: se si adotta l'interpretazione più restrittiva- espresso da ultimo da Sez. 5, n. 31013 del 12 luglio 2018 (ud. 15 marzo 2018), Sez. 4, n. 35683 del 26 luglio 2018 (ud. 6 giugno 2018); Sez. 2, n. 31314 del 16 maggio 2017 (dep. 22 giugno 2017) -, allora l'invio della richiesta a mezzo PEC va escluso; se invece si adotta l'interpretazione più aperta (che fa applicazione del principio e valorizza l'evoluzione normativa del settore) - Sez. 6, n. 35217 del 19 aprile 2017 - dep. 18 luglio 2017 - allora può fondatamente ritenersi che la trasmissione con PEC dell'atto sia una forma di invio irrituale, ma non tale da rendere l'atto irricevibile o inammissibile. Di qui l'assunzione del rischio in capo a chi le effettua ed il correlativo onere di diligenza del mittente ad accertarsi della sottoposizione tempestiva al giudice.
Si tratta, a ben vedere, di un differente approccio interpretativo, che, con riferimento a quest'ultima tipologia di casi (sugli altri la Corte sembra generalmente seguire sempre gli stessi criteri), non appare espressione di un contrasto: in ogni caso, ed al di là di questa discrepanza, non può non osservarsi come la Cassazione, sollecitata anche da un numero considerevole di ricorsi proposti dagli avvocati, che caldeggiano una parità di strumenti tra tutte le parti processuali, stia gradualmente tracciando binari sempre più lineari (e condivisibili), che possono orientare tutti gli operatori della giurisdizione nella risoluzione (se possibile uniforme) dei vari, numerosi casi di trasmissione di atti con PEC e dunque di deposito telematico di atti. |