Le regole degli appalti pubblici anche per i c.d.Ospedali classificati?: la parola alla CGUE

Paola Martiello
20 Novembre 2018

Le questioni affrontate dalla sentenza in commento sono due: la prima attiene alla valutazione della legittimità dell'affidamento diretto e della compatibilità dello stesso con la normativa europea, anche alla luce del concetto di onerosità della fornitura; la seconda riguarda la natura giuridica degli ospedali privati classificati.
Massima

L'articolo 1, paragrafo 2, lettera a), e l'articolo 2 della direttiva 2004/18 devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale, che equiparando gli ospedali privati «classificati» a quelli pubblici, attraverso il loro inserimento nel sistema della programmazione pubblica sanitaria nazionale, regolata da speciali convenzioni, distinte dagli ordinari rapporti di accreditamento con gli altri soggetti privati partecipanti al sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie, li sottrae alla disciplina nazionale e a quella dell'Unione in materia di appalti pubblici, anche nei casi in cui tali soggetti siano incaricati di fabbricare e fornire gratuitamente alle strutture sanitarie pubbliche specifici prodotti necessari per lo svolgimento dell'attività sanitaria, quale corrispettivo per la percezione di un finanziamento pubblico funzionale alla realizzazione e alla fornitura di tali prodotti.

Il caso

La controversia posta all'attenzione della Corte trae origine dall'affidamento diretto, da parte di un' Unità Sanitaria Locale USLL e di un Ospedale veneto, della fornitura gratuita di un farmaco, nonché di un finanziamento di scopo ad una struttura ospedaliera religiosa di diritto privato (cd. Ente classificato). La convenzione conclusa nell'ambito del suddetto appalto di fornitura prevedeva che la Regione versasse all'istituto una sovvenzione di 700.000 euro destinata alla produzione del suddetto farmaco e che l'ospedale classificato fornisse il farmaco gratuitamente ai vari ospedali pubblici regionali, dietro rimborso di una somma per il trasporto del prodotto fissata forfettariamente a 180 euro per ciascun invio.

Avverso tale procedura, veniva proposto ricorso dalla società concessionaria esclusiva (fino a quel momento) in Italia del farmaco in questione, la quale censurava l'operato della USSL e dell'Ospedale, mettendo in evidenza la natura onerosa del contratto e l'assenza di una procedura ad evidenza pubblica, necessaria per l'affidamento in questione.

Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio rigettava il ricorso affermando, in primo luogo, che la fornitura in contestazione doveva qualificarsi come gratuita, non essendoci un nesso di diretta corrispettività tra il finanziamento e l'assegnazione dei prodotti ai singoli presidi ospedalieri pubblici e, in secondo luogo, che non si ravvisava un illegittimo affidamento diretto, dal momento che il rapporto giuridico contestato riguardava una particolare modalità organizzativa del servizio sanitario pubblico, attinente al fisiologico sviluppo delle relazioni istituzionali tra le amministrazioni regionali e gli Ospedali “classificati” i quali, pur avendo natura formalmente privata, sono stabilmente inseriti nel sistema del servizio sanitario pubblico.

Della complessa vicenda veniva investito il Consiglio di Stato, il quale pur ritenendo erronea la valutazione compiuta dal Tribunale in merito all'interpretazione della nozione di onerosità del contratto , anche in riferimento a quanto contenuto nelle direttive europee, comunque condivideva la valutazione del giudice di prime cure sulla natura del contratto di fornitura anche rilevando un possibile contrasto con la disciplina sovranazionale.

Il Consiglio rimetteva, dunque, in via pregiudiziale le due questioni interpretative ( sull'onerosità del contratto e sulla natura degli enti classificati) alla Corte di Giustizia UE che decideva con sentenza C-606/17.

La questione

Le questioni affrontate dalla sentenza in commento sono due: la prima attiene alla valutazione della legittimità dell'affidamento diretto e della compatibilità dello stesso con la normativa europea, anche alla luce del concetto di onerosità della fornitura; la seconda riguarda la natura giuridica degli ospedali privati classificati.

Sul primo punto il Collegio remittente non ha condiviso pienamente quanto affermato nella sentenza di primo grado in merito all'interpretazione della nozione di contratto a titolo oneroso.

Al fine di comprendere se la concessione del finanziamento funzionale dovesse essere soggetta, nel caso de quo, a procedura ad evidenza pubblica, il Collegio si è soffermato sul concetto di onerosità di cui all'art. 1, paragrafo 2, lettera a) della Direttiva 2004/18/CE, concernente il coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, applicabile.

Tale normativa definisce gli appalti pubblici come “contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi ai sensi della presente direttiva”

Secondo un'interpretazione letterale di tale norma, viene rilevato dal Collegio che l'onerosità riguarderebbe il contenuto intrinseco del contratto stipulato dall'amministrazione aggiudicatrice con l'operatore economico. Utilizzando tale criterio, l'affidamento in questione dovrebbe, quindi, qualificarsi come gratuito, non rilevando neppure la previsione di un modesto costo per il recapito del prodotto.

Ove, invece, si effettui una interpretazione logico-sistematica della richiamata disposizione, (soluzione condivisa dal Consiglio di Stato), l'onerosità sussisterebbe anche nei casi in cui l'esecutore della fornitura riceva un significativo vantaggio economico da parte di un'altra amministrazione pubblica, allorché sia ragionevole ritenere, che detto finanziamento sia finalizzato proprio alla realizzazione del servizio o della fornitura in favore di altre amministrazioni pubbliche.

In termini generali in punto di onerosità, è sottolineato che il vigente codice dei contratti pubblici dispone all'art. 5, comma 6, che “Un accordo concluso esclusivamente tra due o più amministrazioni aggiudicatrici non rientra nell'ambito di applicazione del presente codice, quando a) l'accordo stabilisce o realizza una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che essi sono tenuti a svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire gli obiettivi che essi hanno in comune; b) l'attuazione di tale cooperazione è retta esclusivamente da considerazioni inerenti all'interesse pubblico; c) le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20 per cento delle attività interessate dalla cooperazione.”

La disposizione è ritenuta ricognitiva di un quadro normativo e giurisprudenziale già pienamente consolidato, anche alla luce della costante giurisprudenza della Corte europea e pertanto dovrebbe essere applicabile anche alla presente vicenda.

A parere del Collegio, la natura di appalto del contratto stipulato non potrebbe essere messa in dubbio neanche se l'onerosità dello stesso fosse limitata ad un mero rimborso delle spese sostenute per fornire il servizio. Ai sensi del diritto dell'Unione europea, infatti, non è possibile per due o più pubbliche amministrazioni stipulare, senza prima aver esperito una gara di appalto, un contratto attraverso cui esse instaurino un rapporto di cooperazione, salvo il caso in cui sia possibile rinvenire la sussistenza di determinati requisiti –non enucleabili nel caso di specie- elaborati della Corte di Giustizia ( ad esempio il requisito del “controllo analogo” ai sensi della sentenza Teckal (C‑107/98), o della cooperazione tra entità pubbliche finalizzata al solo adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a queste ultime, ai sensi in particolare della sentenza, Piepenbrock (C‑386/11)).

Alla luce di tali elementi, il Cds ritiene sussistere l'onerosità del rapporto giuridico in questione. Fatta tale premessa il Collegio rileva che potrebbe comunque prospettarsi che una siffatta interpretazione risulti contrastante con la formulazione letterale della direttiva e pone quindi questione pregiudiziale interpretativa ex art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia dell'Unione europea con il seguente quesito: «se la disciplina europea in materia di affidamento dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture e, segnatamente, gli articoli 1 e 2 della Direttiva 2004/18/CE, comprenda nel proprio ambito applicativo anche le operazioni complesse mediante le quali un'amministrazione pubblica aggiudicatrice intenda attribuire direttamente ad un determinato operatore economico un finanziamento di scopo, interamente finalizzato alla realizzazione di prodotti destinati ad essere forniti gratuitamente, senza ulteriore procedura di gara, a diverse amministrazioni, esentate dal pagamento di un qualsiasi corrispettivo al predetto soggetto fornitore».

Sulla natura giuridica degli enti classificati, seconda questione affrontata dal Collegio, è condivisa la valutazione del giudice di prime cure secondo cui l' “Ospedale Classificato”, deve essere pienamente equiparato ad una amministrazione pubblica aggiudicatrice, pur essendo pacifico tra le parti che tale soggetto non abbia i requisiti dell'organismo di diritto pubblico, né che esso possa qualificarsi come soggetto operante in regime di in house providing.

A sostegno di tale impostazione è richiamata la normativa interna che adotta una nozione ampia di “ospedale pubblico”, all'interno della quale convergono anche alcune strutture formalmente private, ma individuate secondo rigorose procedure di “classificazione”.

Gli ospedali Classificati, infatti rientrano nella rete regionale di assistenza sanitaria e sono inseriti nell'ambito della programmazione pubblica dei servizi resi all'utenza. Ne conseguirebbe, dunque, una natura sostanzialmente pubblica dei medesimi e, in punto di rapporti tra tali enti e gli altri soggetti pubblici inseriti nell'ambito del servizio sanitario nazionale, la sussistenza di relazioni di carattere pubblicistico, che dunque impedirebbero l'applicazione delle regole in materia di affidamento di contratti pubblici.

Secondo tale orientamento l'Ospedale parteciperebbe all'erogazione delle prestazioni offerte direttamente dal servizio sanitario in posizione di vantaggio, non essendo soggetto al regime dell'accreditamento e, in particolare, il medesimo potrebbe prendere parte alle attività strumentali e a quelle convenzionate. Tale attività rientrerebbe, infatti nell'ambito “interno” al servizio sanitario regionale e, pertanto, il suo affidamento non apporterebbe un vantaggio concorrenziale per l'Ospedale stesso.

Tuttavia, la tesi interpretativa proposta inciderebbe, secondo il percorso interpretativo seguito dal Cds, non solo sulla portata delle direttive del 2004, applicabili alla vicenda in contestazione,( in quanto il diritto UE contempla solo il meccanismo dell'in house providing come sistema mediante il quale l'Amministrazione può legittimamente affidare a soggetti formalmente privati e ad essa estranei determinate prestazioni), ma anche sugli orientamenti espressi dalla giurisprudenza eurounitaria in tema di definizione dell'ambito applicativo della normativa europea in materia di contratti pubblici.

Per tale motivo, il Consiglio di Stato ha reputato necessario rimettere innanzi alla Corte di Giustizia una seconda questione pregiudiziale riguardante la natura degli ospedali classificati e la loro possibile sottrazione alla disciplina in materia di appalti.

Il quesito posto è stato il seguente «se la disciplina europea (…) osti(no) ad una normativa nazionale che, equiparando gli ospedali privati “classificati” a quelli pubblici, attraverso il loro inserimento nel sistema della programmazione pubblica sanitaria nazionale (…), in assenza dei requisiti per il riconoscimento dell'organismo di diritto pubblico e dei presupposti dell'affidamento diretto, secondo il modello dell'in house providing, li sottrae alla disciplina nazionale ed europea dei contratti pubblici, anche nei casi in cui tali soggetti siano incaricati di realizzare e fornire gratuitamente alle strutture sanitarie pubbliche specifici prodotti necessari per lo svolgimento dell'attività sanitaria, ricevendo contestualmente un finanziamento pubblico funzionale alla realizzazione di tali forniture».

Le soluzione giuridiche

Con la sentenza C-606/17 , sulla prima questione, il giudice europeo ha ritenuto non sussistere alcun dubbio in merito al carattere oneroso del contratto. Un contratto come quello in discussione, mediante il quale un operatore economico si impegna a fabbricare e a fornire un prodotto a diverse amministrazioni quale corrispettivo di un finanziamento interamente finalizzato alla realizzazione di tale obiettivo, deve certamente rientrare nella nozione di contratto «a titolo oneroso», ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/18, quand'anche i costi di fabbricazione e di distribuzione del suddetto prodotto non siano interamente compensati dalla sovvenzione di cui eventualmente pattuita ovvero dalle spese di trasporto che possono essere fatturate alle amministrazioni. ( si veda in tal senso, sentenze del 19 dicembre 2012, C‑159/11, EU:C:2012:817, punto 29, nonché del 13 giugno 2013, Piepenbrock, C‑386/11, EU:C:2013:385, punto 31).

Con riferimento alla seconda questione, la Corte europea ha ricordato che, per costituire un appalto pubblico, il contratto concluso a titolo oneroso deve essere stipulato tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici.

Come risulta dal costante indirizzo sopra richiamato, i contratti, conclusi da entità pubbliche non rientrano nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione in materia di appalti quando (oltre al caso dell'in house providing) i contratti istituiscono una cooperazione tra entità pubbliche finalizzata a garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a queste ultime, a condizione che tali contratti siano stipulati esclusivamente tra entità pubbliche, senza la partecipazione di una parte privata, e che nessun operatore privato sia posto in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti oltre che la cooperazione istituita da detti contratti sia retta unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico.

Pertanto, il giudice europeo ha ritenuto che affinché si realizzi un affidamento sottratto alla disciplina degli appalti, deve realizzarsi una cooperazione tra entità pubbliche (non sussistente nel caso di specie), poiché, gli ospedali «classificati», come l'istituto religioso in questione, costituiscono persone giuridiche la cui gestione resta, sotto il profilo sia del finanziamento e della nomina degli amministratori sia delle regole di funzionamento interno, interamente privata.

In conclusione la Corte europea ha osservato che occorre interpretare l'articolo 1, paragrafo 2, lettera a), e l'articolo 2 della direttiva 2004/18 nel senso che essi ostano ad una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, la quale, equiparando gli ospedali privati «classificati» a quelli pubblici, attraverso il loro inserimento nel sistema della programmazione pubblica sanitaria nazionale, regolata da speciali convenzioni, distinte dagli ordinari rapporti di accreditamento con gli altri soggetti privati partecipanti al sistema di erogazione delle prestazioni sanitarie, li sottrae alla disciplina nazionale e a quella dell'Unione in materia di appalti pubblici, anche nei casi in cui tali soggetti siano incaricati di fabbricare e fornire gratuitamente alle strutture sanitarie pubbliche specifici prodotti necessari per lo svolgimento dell'attività sanitaria, quale corrispettivo per la percezione di un finanziamento pubblico funzionale alla realizzazione e alla fornitura di tali prodotti.

Osservazioni

La pronuncia in commento è solo l'ultima in ordine di tempo tra quelle emesse dalla Corte di Giustizia , oltre che dal giudice nazionale, in tema di accordi tra enti pubblici in relazione alla normativa che disciplina l'affidamento dei contratti pubblici.

La questione ricorrente e molto dibattuta riguarda la legittimità di quelle tipologie di accordi che prevedono lo svolgimento di determinate prestazioni attinenti alle attività istituzionali degli enti stessi. La legittimità di tali accordi è posta in dubbio dalla circostanza che gli stessi potrebbero costituire una sostanziale elusione delle norme comunitarie e nazionali regolative dell'affidamento degli appalti pubblici.

Il tema è senz'altro di grande attualità poiché il ricorso a questo genere di accordi costituisce prassi più o meno diffusa in tutti i paesi UE, ciascuno con le proprie specificità. In Italia, in particolare, cil nostro ordinamento amministrativo ha previsto l'istituto degli accordi tra pubbliche amministrazioni, con la disciplina dettata all'articolo 15 della legge 241/1990, secondo cui gli enti pubblici possono concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività che rivestono un interesse comune.

La legittimità di tali accordi trova un limite invalicabile nelle misure e nelle norme europee e nazionali la cui corretta applicazione ed interpretazione richiede il costante vaglio delle Corti europee chiamate in più occasioni a valutare la congruenza di singole disposizioni con l'impianto di garanzia della normativa eurounitaria al fine di evitare possibili elusioni della stessa.

Il quadro risulta ancora più complicato quando tali accordi in questione sono conclusi tra pubbliche amministrazioni ed enti di natura giuridica composita ( come nel caso di specie i cd. enti classificati o equiparati), che pur svolgendo funzioni di natura pubblica sono costituite come persone giuridiche la cui gestione resta interamente privata sotto il profilo sia del finanziamento, sia della nomina degli amministratori, sia delle regole di funzionamento interno.

In tali casi, è necessario delimitare e circoscrivere il tipo di accordo per non incorrere nella violazione del principio di libera concorrenza stabilito agli articoli da 101 a 109 del TFUE, declinato nelle direttive appalti e concessioni e recepito nel Codice dei contratti pubblici. La eventuale violazione introdurrebbe, infatti, elementi di grave distorsione del mercato impedendo ad operatori dotati delle necessarie competenze di concorrere per l'affidamento di servizi erogati professionalmente.

In particolare, gli operatori economici nazionali si troverebbero ostacolati dalla stessa pubblica amministrazione che, trattenendo in house i servizi, impedirebbe loro il libero accesso alle gare. Con ciò, peraltro, anche determinando una diversa posizione tra gli operatori economici nazionali e quelli stranieri che nei propri paesi avrebbero condizioni più favorevoli di accesso.

La decisione in commento sottolinea ancora una volta la necessaria funzione integrativa dei principi eurounitari in materie sensibili quali quelle sui contratti pubblici di appalto che richiedono la necessaria convivenza tra perseguimento del pubblico interesse, affermazione dei criteri di trasparenza e correttezza e buon funzionamento del mercato degli operatori economici.

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