La flat tax e le esperienze europee nella tassazione proporzionale

Stefano Marchese
21 Novembre 2018

L'aggettivo “flat”, in inglese, significa “piatto”, “uniforme”. Applicato all'imposta (la “tax”, appunto), si può tradurre, di primo acchito, come “tassazione proporzionale” ossia, tipicamente, come “aliquota unica di tassazione (proporzionale) del reddito”. L'Autore, nel contributo, esamina l'evoluzione storica di questa modalità di tassazione, offrendo una comparazione tra le politiche fiscali delle Nazioni che hanno adottato tale impostazione.
L'esegesi della "flat tax"

L'aggettivo “flat”, in inglese, significa “piatto”, “uniforme”. Applicato all'imposta (la “tax”, appunto), si può tradurre, di primo acchito, come “tassazione proporzionale” ossia, tipicamente, come “aliquota unica di tassazione (proporzionale) del reddito”.

Come tale, non è certo una novità del dibattito politico di questi ultimi decenni, visto che di imposta proporzionale si parla sin dai tempi dell'Antico Testamento: la famosa decima, da pagarsi in natura, per il sostentamento dei sacerdoti della tribù di Levi (Levitico 27:30-32), altro non era che una flat tax.

L'imposizione proporzionale si è sostanzialmente mantenuta fino al secolo scorso, con l'importante parentesi della Firenze dei Medici dove l'imposta progressiva veniva utilizzata come strumento per annientare economicamente le famiglie rivali.

In tempi recenti, la sistemazione teorica di una flat tax è stata proposta dal premio Nobel dell'economia Milton Friedman nel suo lavoro del 1962 intitolato “Capitalismo e libertà”. Nel suo modello di “imposta negativa”, Friedman ipotizzava un'imposta ad aliquota proporzionale ma, di fatto, moderatamente progressiva grazie ad una deduzione dal reddito. Essa avrebbe potuto rendere negativa la base imponibile e, quindi, dare luogo ad un'imposta negativa che l'Erario avrebbe dovuto versare al contribuente.

Alcune esemplificazioni

Se ipotizziamo la tassazione del reddito familiare all'aliquota del 20% ed una deduzione di 20.000 euro per coniuge, osserviamo che con un reddito familiare di 50.000 euro l'imposta è di 2.000 euro, pari ad un'aliquota effettiva del 4%; con un reddito familiare di 100.000 euro, l'imposta è di 12.000 euro, con un'aliquota effettiva del 12%; con un reddito familiare di 30.000 euro, si dà luogo ad un'imposta negativa di 2.000 euro, da versare al contribuente.

Caso 1: Reddito familiare 50.000, meno deduzioni 20.000 x 2 coniugi (totale 40.000) = reddito imponibile 10.000 che, tassato all'aliquota del 20%, dà luogo ad un'imposta di 2.000, equivalente al 4% del reddito familiare di 50.000.

Caso 2: Reddito familiare 100.000, meno deduzioni 20.000 x 2 coniugi (totale 40.000) = reddito imponibile 60.000 che, tassato all'aliquota del 20%, dà luogo ad un'imposta di 12.000, equivalente al 12% del reddito familiare di 50.000.

Caso 3: Reddito familiare 30.000, meno deduzioni 20.000 x 2 coniugi (totale 40.000) = reddito imponibile negativo di 10.000 che, all'aliquota del 20%, dà luogo ad un'imposta negativa di 2.000 che l'Erario dovrà versare al contribuente.

Come si vede, il modello di flat tax di Friedman non si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale, di cui all'art. 53 Cost., secondo il quale il sistema tributario è orientato a criteri di progressività, visto che l'aliquota effettiva di tassazione cresce all'aumento del reddito, tendendo al 20%. Per altro verso, esso incorpora un altro tema di attualità nel dibattito politico, il “reddito di cittadinanza” che, nel modello di Friedman, altro non sarebbe che l'imposta negativa.

È però dall'inizio degli anni '80 del secolo scorso che si inizia ad utilizzare l'espressione “flat tax”, in un lavoro pubblicato da Robert Hall e Alvin Rabushka nel 1983, intitolato “Low Tax, Simple Tax, Flat Tax “, il quale ha avuto un'enorme influenza nelle politiche fiscali dei paesi dell'Est Europa. Pochi anni dopo, infatti, a seguito della caduta del muro di Berlino del 1989, tali paesi hanno dovuto disegnare i loro sistemi fiscali con logiche dell'economia di mercato, cui avevano aderito, ed il modello di una flat tax è risultato, per molti di loro, particolarmente attraente, dal punto di vista sia economico, sia politico.

La proposta dei due autori si basa su un modello di tassazione all'aliquota unica del 19% sul reddito prodotto, con previsione di deduzioni personali; la base imponibile del reddito d'impresa sarebbe calcolata al netto delle spese per investimenti, che verrebbero “spesati” integralmente nell'anno di sostenimento, anziché venir dedotti secondo il noto criterio dell'ammortamento. Tale proposta è accompagnata da quattro principi di base:

  1. l'intero reddito dovrebbe essere tassato solo una volta, con esclusione quindi di fenomeni di doppia imposizione, non solo giuridica ma anche economica, e il più vicino possibile alla sua fonte;
  2. tutte le categorie di reddito dovrebbero essere tassate alla stessa aliquota d'imposta;
  3. le famiglie più povere non dovrebbero pagare imposte, mentre quelle con redditi modesti dovrebbero pagare le imposte con un'aliquota effettiva minore rispetto a quella delle famiglie con redditi più elevati;
  4. le dichiarazioni fiscali, sia delle famiglie che delle imprese, dovrebbero essere così semplici da poter essere scritte nello spazio di una cartolina postale.

Il raffronto fra le politiche fiscali continentali

Tale impostazione, come dicevamo, ha avuto una significativa influenza sulle politiche fiscali dei paesi dell'Est. I primi paesi ad introdurre la flat tax sono state le Repubbliche baltiche, nel 1994-5: l'Estonia e la Lituania, nel 1994, hanno introdotto un'imposta rispettivamente del 26% e del 33% e la Lettonia, nel 1995, del 25%. Ad esse, nei paesi della Unione Europea, hanno fatto seguito la Slovacchia, che nel 2004 ha stabilito la flat tax al 19%; la Romania, nel 2005, con un'aliquota del 16%; seguite poi dall'Ungheria. Ma anche altri paesi dell'Est extra-Ue hanno introdotto la flat tax, come la Russia, nel 2001 al 13%; la Serbia, nel 2003 al 14%; l'Ucraina, nel 2004 al 15%; la Georgia, nel 2005 al 12%; la Macedonia, il Montenegro e l'Albania, tutti nel 2005, rispettivamente al 12%, 15% e 10%; l'Islanda nel 2007, al 36%; la Repubblica Ceca e la Bulgaria nel 2008, al 15% e al 10%.

Alcuni paesi hanno mantenuto l'impostazione di fondo della flat tax, al massimo variandone l'aliquota e i modelli di attuazione; altri, invece, hanno abbandonato tale modello, ritornando a modelli più “classici” di imposizione progressiva: l'Islanda ha abbandonato la flat tax nel 2010, l'Ucraina nel 2011, la Repubblica Ceca e la Slovacchia nel 2013, l'Albania nel 2014, la Lettonia nel 2017.

Ad oggi, nell'Unione europea i paesi con una flat tax sul reddito delle persone fisiche sono la Bulgaria (10%), l'Estonia (20%), l'Ungheria (15%), la Lituania (15%), la Romania (10%).

La domanda che sorge spontanea è se, sulla base delle esperienze europee, l'introduzione di una flat tax abbia o meno incentivato la crescita economica dei paesi che l'hanno adottata. A tale riguardo è assai interessante lo studio fatto dalla BCE nel 2007 (BCE, Flat Taxes in Central and Eastern Europe, in ECB Monthly Bulletin, September 2007, 81 ss.), secondo cui la risposta è tutt'altro che univoca. Probabilmente, la crescita significativa evidenziata dai paesi dell'Est Europa che hanno introdotto la flat tax è dovuta ad un insieme di fattori, tra i quali, oltre alla diminuita pressione fiscale, vanno annoverate le importanti riforme strutturali che hanno accompagnato quella fiscale, la competitività del costo del lavoro e la capacità di attirare investimenti; per altro verso, è pure emerso che la flat tax, da sola, non è sufficiente per semplificare il sistema fiscale.

La "tassa piatta" nel disegno di Legge di bilancio 2019

In questa prospettiva, possiamo svolgere qualche considerazione sulla proposta di “flat tax all'italiana”, quale emerge dal disegno di Legge di bilancio 2019 di cui al comunicato del 15 ottobre 2018 del Consiglio dei Ministri. La flat tax è prevista al 15% per i titolari di partita IVA con fatturato fino a 65 mila euro, concretizzandosi dunque in un'estensione dell'attuale regime forfettario, nonché per l'IRES, sempre al 15%, ma limitatamente alla parte di utili reinvestiti in ricerca e sviluppo, in macchinari e per garantire assunzioni stabili.

Questa flat tax, che si vuole introdurre, è tutto meno che una flat tax: semmai è una “spaghetti flat tax”: le aliquote IRPEF progressive continuano a colpire, pesantemente, i redditi da lavoro, dipendente, autonomo e d'impresa, e le pensioni; mentre diverse flat tax esistono già da anni per i redditi di finanziari (imposta sostitutiva al 26%), e per alcuni redditi fondiari (cedolare secca). I regimi forfettari estesi, come quello prospettato, invece, sono un “aiutino” per i contribuenti minori, inducono in tentazione i contribuenti sopra soglia a fare “sforzi” per stare nei limiti del volume d'affari consentito, e invitano gli studi professionali associati a sciogliersi, quando la concentrazione degli studi oggi è l'unica strategia per contrastare la crisi delle libere professioni. Nel caso dell'IRES, abbiamo una parte di reddito imponibile soggetto ad aliquota agevolata del 15%, mentre la restante parte è già tassata con una flat tax del 24% (oltre all'IRAP), quindi un sistema a doppia aliquota e non una vera flat tax.

Esempio: in uno studio professionale associato composta da due professionisti, con un fatturato di 100.000 euro annui, vi sarà l'incentivo a scioglierlo e ad aprire due partite iva individuali, con un fatturato di 50.000 euro ciascuno, e quindi rientrante nel regime forfettario (con flat tax).

In buona sostanza, la “flat tax all'italiana” non è una flat tax, non semplifica il sistema tributario e non darà, verosimilmente, alcuno stimolo significativo all'economia reale, aumentando invece quel fenomeno di discriminazione qualitativa dei redditi “al contrario” che rende pesantemente iniquo il sistema fiscale italiano.


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