La decisione era già stata anticipata con un comunicato stampa della Corte costituzionale che annunciava il rinvio della trattazione della causa sottolineando le carenze normative del nostro ordinamento sul tema del fine vita. Le motivazioni della decisione sono state rese note il 16 novembre, con il deposito dell'ordinanza n. 207/2018. La pronuncia precisa che «l'incriminazione dell'aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione», ma occorre considerare specificamente situazioni come quelle del giudizio a quo, «situazioni inimmaginabili all'epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali».
Tutela del diritto alla vita. Ciò posto il Giudice delle Leggi non condivide totalmente i dubbi di costituzionalità sollevati dalla Corte D'Assise di Milano secondo la quale l'incriminazione delle condotte di aiuto al suicidio, laddove non siano rafforzative del proposito della vittima, contrasta con i principi di cui agli artt. 2 e 3 Cost. dai quali discenderebbe la libertà della persona di scegliere se, come e quando porre fine alla propria vita.
«Analogamente a quanto avviene nelle altre legislazioni contemporanee» si legge nell'ordinanza «anche il nostro ordinamento non punisce il suicidio, neppure quando sarebbe materialmente possibile, ossia nel caso di tentato suicidio. Punisce, però, severamente (con la reclusione da 5 a 12 anni) chi concorre nel suicidio altrui, tanto nella forma del concorso morale, vale a dire determinando o rafforzando in altri il proposito suicida, quanto nella forma del concorso materiale, ossia agevolandone “in qualsiasi modo” l'esecuzione. Ciò, sempre che il suicidio abbia luogo o che, quantomeno, dal tentato suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima (nel qual caso è prevista una pena minore). Il legislatore penale intende dunque, nella sostanza, proteggere il soggetto da decisioni in suo danno: non ritenendo, tuttavia, di poter colpire direttamente l'interessato, gli crea intorno una “cintura protettiva”, inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui». L'art. 580 c.p., nel punire la cooperazione materiale al suicidio, risponde infatti alla necessità di tutela di interessi meritevoli: «L'incriminazione dell'istigazione e dell'aiuto al suicidio […] è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l'ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio».
Le disposizioni anticipate di trattamento. Ciò posto, precisa la Corte, occorre considerare specifiche situazioni come quella di Dj Fabo, definita «paradigmatica»: una situazione in cui le sofferenze psicologiche per la drammatica condizione di cecità e totale immobilità si sommavano a quelle fisiche, particolarmente acute, prodotte dagli spasmi e dalle contrazioni da cui il soggetto era quotidianamente percorso.
In forza della l. n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), il malato in tali situazioni potrebbe aver già preso la decisione di lasciarsi morire con effetti vincolanti nei confronti di terzi. Il legislatore ha infatti riconosciuto la possibilità ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario anche se necessario per la propria sopravvivenza (art. 1, comma 5). Il medico sarà in tal caso tenuto a rispettare la volontà del paziente.
Il vuoto normativo. «La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte». In tale specifico e delimitato ambito «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost., imponendogli in ultima analisi un'unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza».
Ma la Corte afferma di non poter porre rimedio a tale vulnus attraverso la depenalizzazione assoluta dell'aiuto al suicidio: una soluzione di questo tipo lascerebbe, infatti, del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi.
In conclusione, i Giudici affermano che «la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolge l'incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere, questa Corte reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch'essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale».
*Fonte www.dirittoegiustizia.it