Associazione di tipo mafioso o camorristico

Angelo Valerio Lanna
28 Novembre 2018

Il paradigma normativo dell'associazione di tipo mafioso è conformato quale tipica ipotesi di delitto a forma libera; la condotta del partecipe alla stessa può pertanto consistere nella prestazione di un contributo di qualsivoglia genere, purché si tratti di un apporto non meramente occasionale e che risulti poi apprezzabile sotto il profilo della rilevanza causale, con riferimento all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione. Un contributo che deve naturalmente essere corredato dalla consapevolezza dell'esistenza della consorteria criminale e dalla volontà di associarsi a essa, onde perseguire appunto gli scopi tipici del sodalizio delinquenziale mediante l'utilizzo del cosiddetto metodo mafioso. E ciò anche a prescindere dall'effettivo raggiungimento di tali scopi. Attenendosi dunque a una giurisprudenza del tutto pacifica e ormai risalente, si può affermare come la condizione del partecipe debba...
Inquadramento

Il modello legale in esame è stato inserito nel sistema – segnatamente, nel Titolo V del Libro II - a opera dell'art. 1 l. 13 settembre 1982, n. 646; il nomen juris originario di associazione di tipo mafioso è stato sostituito dall'attuale (associazioni di tipo mafioso anche straniere) dall'art. 1, comma 1, lett. b-bis), n. 5) d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv., con mod. in l. 24 luglio 2008, n. 125. Le modifiche che si sono succedute nel tempo sono opera della l. 19 marzo 1990, n. 55 (abrogazione della originaria previsione – a carico del condannato ex art. 416-bis c.p. – di automatica decadenza da licenze e concessioni, nonché dall'iscrizione agli albi degli appaltatori) e del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in l. 7 agosto 1992, n. 356 (che ha comportato l'inserimento all'interno del terzo comma – tra i fini propri dell'associazione mafiosa – dell'ingerenza nell'esercizio del voto in occasione di consultazioni elettorali). Il trattamento sanzionatorio si è evoluto nel tempo secondo i seguenti passaggi:

I.

pena prevista per chi faccia parte dell'associazione (art. 416-bis,comma 1, c.p.):

  • pena originaria = da tre a sei anni di reclusione;
  • pena sostituita ex art. 1,comma 2, lett. a) l. 5 dicembre 2005, n. 251 = da cinque a dieci anni di reclusione;
  • pena sostituita ex art. 1 comma 1 lett b-bis) n. 1)d.l. 23.5.2008, n. 92, conv. con mod. in l. 24.7.2008, n. 125 = da sette a dodici anni di reclusione;
  • pena sostituita ex art. 5comma 1 lett. a) l. 27.5.2015, n. 69 = da dieci a quindici anni di reclusione.

II.

pena prevista per chi promuova, diriga o organizzi l'associazione (art. 416-bis, comma 2, c.p.):

  • pena originaria = da quattro a nove anni di reclusione;
  • pena sostituita ex art. 1 comma 2 lett. b), l. 5 dicembre 2005, n. 251 = da sette a dodici anni di reclusione;
  • pena sostituita ex art. 1,comma 1, lett b-bis) n. 2) d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. con mod. in l. 24.7.2008, n. 125 = da nove a quattordici anni di reclusione;
  • pena sostituita ex art. 5,comma 1, lett. b) l. 27.5.2015, n. 69 = da dodici a diciotto anni di reclusione.

Il bene giuridico che è oggetto di tutela è qui pacificamente l'ordine pubblico; ciò risulta agevolmente evincibile tanto dalla collocazione sistematica della norma, quanto dall'analisi dell'evoluzione storica, sociologica e giurisprudenziale dalla quale la normativa rampolla. Concetto di ordine pubblico da intendersi sia in senso oggettivo (quale insieme delle situazioni che consentono il mantenimento della sicurezza generalizzata, dunque del sereno svolgersi della vita dei cittadini sotto l'impero delle leggi), sia sotto il profilo soggettivo (quindi come diritto di ognuno di autodeterminarsi, restando immune dalle illecite coercizioni provenienti da compagini che siano costituite e mantenute in vita proprio al fine di perpetrare fatti delittuosi).

In evidenza

«Differenziate sono le posizioni della dottrina sul problema del bene giuridico tutelato dalla norma. A fronte di chi ritiene ardua l'individuazione sia del bene protetto sia dell'evento che ne possa esprimere compiutamente l'offesa, sta l'opinione secondo cui – diversamente da quanto è accaduto in relazione alla fattispecie dell'art. 416 c.p., di incerta decifrazione offensiva in ragione della genericità della previsione legale – la descrizione normativa consente di indicare in una ben afferrabile nozione di ordine pubblico materiale lo spettro della tutela, la cui offesa effettiva consegue ai metodi utilizzati dal sodalizio al di fuori di qualsiasi schema di pericolo concreto o presunto. Altro, diffuso orientamento, condiviso anche in giurisprudenza, reputa che il reato abbia natura plurioffensiva, in quanto orientato alla compromissione dell'ordine pubblico materiale, dell'ordine economico, vale a dire della libertà di mercato e di iniziativa economica, nonché dei diritto politici del cittadino e della libertà morale in senso lato. Un'ulteriore tesi sostiene che le associazioni mafiose realizzino un'aggressione allo stesso sistema democratico, sub specie “esclusività dell'ordinamento statale”, oltre a ledere la libertà di iniziativa economica»[Maiello, voce Ordine pubblico (delitti contro), in Enc. Giur. Il Diritto, vol. X, Milano, 2007].

La struttura del reato

Il paradigma normativo dell'associazione di tipo mafioso è conformato quale tipica ipotesi di delitto a forma libera; la condotta del partecipe alla stessa può pertanto consistere nella prestazione di un contributo di qualsivoglia genere, purché si tratti di un apporto non meramente occasionale e che risulti poi apprezzabile sotto il profilo della rilevanza causale, con riferimento all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione. Un contributo che deve naturalmente essere corredato dalla consapevolezza dell'esistenza della consorteria criminale e dalla volontà di associarsi a essa, onde perseguire appunto gli scopi tipici del sodalizio delinquenziale mediante l'utilizzo del cosiddetto metodo mafioso. E ciò anche a prescindere dall'effettivo raggiungimento di tali scopi. Attenendosi dunque a una giurisprudenza del tutto pacifica e ormai risalente, si può affermare come la condizione del partecipe debba concretizzarsi in una stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del gruppo malavitoso. Nel senso che tale appartenenza non deve risolversi in uno status, bensì deve consistere nell'assunzione di un ruolo dinamico e funzionale; l'associato deve insomma rimanere a disposizione del gruppo, per il perseguimento dei comuni fini criminosi (i principi sopra enucleati possono leggersi in Cass. pen., Sez. unite, n. 33748/2005).

È poi incontestato il fatto che l'adesione al sodalizio non postuli necessariamente né un atto di rituale iniziazione, né un formale inserimento nell'ambito dell'organizzazione criminosa. L'organicità del singolo al fenomeno associativo può quindi esser tratta anche dalla mera reiterazione di condotte che – sebbene di semplice tenore esecutivo, espressione della c.d. manovalanza criminale – siano però teleologicamente rivolte al perseguimento degli obiettivi dell'associazione; condotte che assumono così una inequivoca significazione, divenendo evocative della permanente disponibilità e quindi dell'esistenza della cosiddetta affectio societatis.

La partecipazione all'associazione non cessa nemmeno con l'adozione di provvedimenti restrittivi della libertà personale, essendo pacifico in giurisprudenza che tale evento non faccia necessariamente venire meno il legame associativo. Anzi. Nella comune esperienza giudiziaria non mancano esempi in cui, proprio durante il regime detentivo, si viene a palesare la sussistenza del vincolo (si pensi alla corresponsione dei sussidi, di cui spesso i clan si fanno carico, in favore degli affiliati detenuti e della famiglia di questi). Ma anche dal punto di vista pratico-operativo, è ben possibile – e anzi molto frequente – che ad onta della privazione della libertà personale, l'associato continui a mantenere contatti e legami con l'organizzazione.

Il reato in esame ha natura permanente; esso giunge a consumazione quando la consorteria abbia conseguito una conclamata e concreta capacità di intimidazione, alla quale si correli una situazione generalizzata – in una certa area geografica – di assoggettamento e omertà. La cessazione della permanenza coincide con lo scioglimento del gruppo malavitoso; anche l'emissione di sentenza in primo grado segna la cessazione della permanenza del reato associativo (per la cessazione della permanenza al momento della pronuncia di sentenza di primo grado si veda Cass. pen., Sez V, n. 36928/2008; si veda altresì Cass. pen., Sez. V, n. 21294/2014, a mente della quale l'imputazione ex art. 416-bis – laddove temporalmente circoscritta mediante l'utilizzo dell'espressione fino a data odierna – deve intendersi estesa fino alla data di emissione del decreto che dispone il giudizio e, quando questo non ci sia procedendosi in rito abbreviato, fino alla data della richiesta di rinvio a giudizio.

Si reputa generalmente non configurabile l'ipotesi del tentativo.

Ricordiamo che – ai sensi dell'art. 416-bis, comma 7, c.p. – è prevista una misura di sicurezza patrimoniale, rappresentata dalla confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché delle cose che ne costituiscono il prezzo, prodotto, profitto o impiego. L'art. 417 c.p prevede infine che – in caso di condanna per il delitto ex art. 416-bis c.p. – debba sempre essere ordinata una misura di sicurezza.

In evidenza

Il sopravvenuto stato detentivo non causa necessariamente l'automatica cessazione della partecipazione dell'affiliato stesso, a una compagine mafiosa. Tale sodalizio si connota infatti per avere una struttura complessa, oltre che per i profondi vincoli esistenti fra i componenti e per l'entità dei progetti criminosi, spesso proiettati sul lungo periodo; gli eventuali periodi di detenzione dei sodali – in particolar modo quando essi ricoprano ruoli di vertice – rappresentano pertanto eventi non in grado di inibire il mantenimento dei contatti tra gli accoliti, nonché la partecipazione del singolo detenuto alle vicende del gruppo e alla programmazione delle attività delinquenziali. Trattandosi peraltro di possibilità messe in conto dall'associazione, che ne accetta il rischio, non comportano il venir meno della disponibilità dell'affiliato – una volta venuta meno la privazione della libertà personale e quindi cessato l'impedimento – a riprendere il proprio ruolo nella compagine (Cass. pen., Sez. II, n. 8461/2017).

L'oggettività del reato

Trattasi di una figura tipica che è stata costruita dal Legislatore quale norma speciale della più ampia categoria dell'associazione per delinquere ex art. 416 c.p. Ciò che distingue le due fattispecie – impedendo tendenzialmente la configurabilità del concorso di reati – è la presenza degli elementi distintivi, in grado di rendere appunto speciale la figura in commento; questi sono rappresentati dal fatto di commettere delitti giovandosi «della forza di intimidazione del vincolo associativo» e della consequenziale «condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva».

In evidenza

Secondo Cass. pen., Sez. VI, n. 11356/2017, l'associazione per delinquere di stampo mafioso può a determinate condizioni concorrere con l'associazione per delinquere di natura generica. Ciò può infatti verificarsi allorquando quest'ultima appaia dotata di una sua struttura organizzativa indipendente, che si giovi dell'apporto di propri sodali anche diversi dai soggetti affiliati al sodalizio mafioso, perseguendo un proprio generico programma criminoso, dalla realizzazione del quale derivi poi il concomitante raggiungimento dei risultati che sono propri del sodalizio mafioso (trattavasi nella specie di associazione semplice attiva nel settore del gioco d'azzardo).

I tratti essenziali dell'associazione. Come ogni forma associativa riconducibile entro l'alveo del penalmente rilevante, anche l'associazione mafiosa è riconoscibile in ragione anzitutto dell'esistenza di una compagine di accoliti, che siano tra loro coordinati secondo una almeno rudimentale configurazione gerarchica. Rilevano altresì l'esistenza di una struttura organizzativa stabile, permanente nel tempo in modo del tutto scisso rispetto alla perpetrazione di fatti isolatamente considerati; l'ambito territoriale di esplicazione dell'attività; la natura dei reati-scopo, che sono per espresso dettato normativo il fine e la ragione stessa di esistere delle organizzazioni mafiose comunque denominate.

L'indipendenza concettuale – prima ancora che giuridica – del reato associativo rispetto ai reati-fine che ne costituiscono la specifica finalità, comporta la piena configurabilità del primo, pure allorquando non risultino commessi delitti-scopo. Resta però ferma la possibilità di dedurre l'esistenza e operatività dell'associazione di stampo mafioso, proprio dalla realizzazione dei delitti ricompresi nel generico programma delinquenziale, essendo innegabile che proprio attraverso questi spesso si manifesti la vitalità del sodalizio.

In evidenza

È consentito al giudice – nonostante l'autonomia della fattispecie associativa rispetto ai reati-fine – trarre il convincimento dell'esistenza di un'associazione mafiosa proprio dalla realizzazione dei delitti facenti parte della generica ideazione delinquenziale, nonché dall'esame delle modalità esecutive degli stessi. Ciò in quanto proprio attraverso la concretizzazione dei reati rientranti nel generico programma criminoso si manifesta, in concreto, l'operatività della compagine associativa (Cass. pen., Sez. unite, n. 10/2001).

Il metodo mafioso. Tale concetto viene comunemente letto secondo due distinte accezioni. Si parla infatti di metodo mafioso per contrassegnare l'esplicazione – ad opera degli associati – di quella forza intimidatrice immediatamente connessa alla notorietà, alla reputazione di cui una certa compagine criminale goda in un determinato ambito territoriale. Attitudine all'intimidazione che è talmente pervasiva e penetrante – proprio per il richiamo anche implicito alla pregressa commissione di fatti delittuosi – che non postula, per la sua manifestazione, che vengano concretamente posti in essere nei confronti del soggetto passivo atti minacciosi, vessatori o ricattatori. Proprio la notorietà del sodalizio e la ampia conoscenza – da parte di una collettività indifferenziata e vastissima – delle brutali gesta compiute e quindi il panico indotto dal timore di nuove efferatezze, producono una condizione di soggezione, di inferiorità psicologica diffusa in vasti strati della popolazione. In tale condizione – definita dal Legislatore come una «condizione di assoggettamento e di omertà», i soggetti passivi accondiscendono a tenere comportamenti non voluti e anche pregiudizievoli; permangono infatti in uno stato di sottomissione, indotto anche da riferimenti generici e velati o dal compimento di azioni aventi una capacità dimostrativa e esemplare [si è scritto in dottrina che: «Quanto al metodo mafioso, l'ambigua formula utilizzata dal legislatore per la sua descrizione (si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo) viene intesa dalla giurisprudenza nel senso di ritenere non necessario che gli associati compiano atti violenti. Infatti, la forza intimidatrice deriva dalla fama criminale che l'associazione si è conquistata e che provoca una condizione di assoggettamento ed omertà. Ovviamente, è sempre possibile che gli associati compiano azioni violente, ma il reato risulta integrato anche in assenza di esse qualora risulti un clima di diffusa intimidazione derivante dalla consolidata consuetudine di violenza dell'associazione stessa, clima percepito all'esterno e del quale si avvantaggiano gli associati per perseguire i loro fini. Parte della dottrina censura una tale interpretazione in quanto rischia di accentuare l'indeterminatezza della formula legislativa, suscitando perplessità sul terreno delle garanzie di certezza» (CARINGELLA, DE PALMA, FARINI, TRINCI, Manuale di Diritto Penale, PS, 531, Roma, 2016)].

In evidenza

«L'art. 416-bis c.p., nei primi due commi riproduce il modulo tipico del reato associativo, mentre nei commi successivi indica gli elementi specializzanti costituiti da:

  • avvalersi della forza intimidatrice: non è necessaria la realizzazione di concreti atti di minaccia, in quanto la dipendenza psicologica di assoggettamento e di omertà del soggetto passivo nei confronti dell'associazione può derivare anche dal “prestigio criminale” di cui gode nel territorio il sodalizio criminoso;
  • provocare una condizione di assoggettamento e di omertà: questo è il c.d. metodo mafioso che produce nelle vittime una sottomissione psicologica e il rifiuto generalizzato a collaborare con la giustizia […]» (Messina, Spinnato, Manuale Breve di Diritto Penale, Milano, 2018).
Le finalità dell'associazione

L'associazione di stampo mafioso ha finalità di vasta portata, che non sono riconducibili esclusivamente al compimento di fatti costituenti reato. Rientrano infatti fra gli scopi tipici di tale tipologia di organizzazione anche scopi che astrattamente potrebbero anche restare leciti, quali l'acquisizione di influenze sul mondo politico, ovvero l'ottenimento del controllo – pur indiretto – di attività economiche, nonché di concessioni, autorizzazioni, appalti o servizi pubblici. A ben vedere, sono dunque le modalità operative, i mezzi prescelti dall'organizzazione, a qualificare tali condotte in termini di illiceità.

In evidenza

Un'organizzazione di stampo mafioso può anche perseguire la finalità di perpetrare reati, che siano atti a portare ingiusti vantaggi di natura non economica. Nella concreta fattispecie, era restato provato come il vantaggio ingiusto inseguito dal gruppo fosse rappresentato dal fatto di affermarsi quale sodalizio egemone, all'interno di una data comunità etnica presente in una città di grosse dimensioni (Cass. pen., Sez. I, n. 16353/2014).

I soggetti

Trattasi di un reato comune, come desumibile già dall'utilizzo del termine chiunqueper indicarne l'autore. Dello stesso può quindi rendersi protagonista qualsiasi soggetto. È inoltre un reato necessariamente plurisoggettivo, potendo esser commesso solo ad opera di almeno tre persone che si associno fra loro.

Le condotte oggetto di tipizzazione sono distinte secondo il ruolo svolto nella struttura associativa, oltre che in ragione dell'importanza del contributo. Vi è quindi una summa divisio fra le condotte di rango superiore (quelle che testualmente — secondo il dettato normativo — si concretano nel fatto di promuovere, di costituire o di organizzare l'associazione, ovvero di esserne comunque a capo), rispetto alla condotta da ritenersi di livello inferiore, in quanto connotata dalla mera partecipazione del soggetto ad una compagine già esistente (una compagine quindi già costituita ad opera di altri soggetti e che possa facilmente proseguire l'attività, pure in assenza dell'apporto causale del mero partecipe). Secondo logica, i ruoli del promotore e del costitutore postulano che il gruppo criminale sia ancora a uno stadio meramente genetico; la partecipazione si colloca, al contrario, in un momento successivo, rispetto alla costituzione dell'associazione. È però ovvio che la stessa natura illecita del sodalizio determina l'inesistenza di limiti ontologici demarcati ed immutabili, fra i diversi ruoli. Si possono quindi distinguere le seguenti condotte, che si atteggiano tra loro secondo un rapporto di alternatività reciproca (ciascuna di esse può quindi integrare il paradigma normativo in commento):

a) promuovere significa dare l'avvio, adoperarsi affinché sorga, favorire la nascita dell'organismo associativo, diffondendone e propagandandone gli scopi e l'attività, facendo proseliti e creando consenso;

b) costituire indica l'attività di chi in concreto faccia sorgere la compagine, di chi la renda percepibile all'esterno, attraverso un'opera di cooptazione di nuovi sodali e di reperimento di mezzi e strutture logistiche;

c) organizzare significa dar vita ad una pur rudimentale ed elementare forma di organizzazione gerarchica ed operativa;

d) capo dell'associazione è chi assuma una posizione apicale, quindi colui che abbia l'autorità per poter dettare regole comportamentali e indirizzare le azioni degli altri associati, fornendo loro le linee-guida per l'esplicazione dell'attività illecita;

e) parteciparesignifica porre in essere qualsivoglia attività di carattere materiale, esteriormente percepibile, che abbia una matrice meramente esecutiva, attuativa e che sia teleologicamente indirizzata al conseguimento della finalità associativa.

In evidenza

Perché resti integrata la condotta del partecipe ad una associazione di tipo mafioso, non occorre che ci si renda protagonista di specifici reati – fine. Ciò in quanto l'apporto causale del partecipe può essere rappresentato anche dal mero inserimento all'interno del sodalizio criminoso, secondo modalità tali che se ne possa evincere come si tratti di persona completamente a disposizione del clan, anche solo per la disponibilità ad agire come uomo d'onore. La Corte ha però ribadito come tale qualità di uomo d'onore non si esaurisca nella semplice adesione morale al sodalizio criminale, dovendosi invece estrinsecare in un contributo comunque atto a contribuire pur minimamente al mantenimento in vita e al perseguimento degli scopi di esso (Cass. pen., Sez. V, n. 49793/2013).

L'elemento psicologico

Secondo alcuni interpreti della norma, il modello legale postula la sussistenza del dolo specifico. Ciò in quanto è richiesta la coscienza e volontà di far parte di un gruppo, proprio al fine specifico di raggiungerne gli obiettivi tipici (così CARINGELLA, DE PALMA, FARINI, TRINCI, op. cit., 536). La giurisprudenza ha però individuato nella condotta del partecipe ad associazione mafiosa l'esistenza di un dolo generico, diretto e non meramente individuale (Cass. pen. Sez. V, n. 15727/2012).

In evidenza

Per quanto attiene al concorso esterno in associazione di tipo mafioso (v. infra, il concorso esterno), perché possa configurarsi il dolo, è necessario che l'agente – sebbene privo dell'affectio societatis, ossia della volontà di essere intraneo all'associazione - sia comunque conscio dell'esistenza di questa, nonché dell'apporto causale offerto con la propria condotta, rispetto alla conservazione o al rafforzamento della stessa. È quindi necessario che l'agire del soggetto sia sorretto dalla volontà di contribuire alla realizzazione - pur parziale - del programma criminoso del sodalizio; si deve in definitiva escludere la sufficienza del dolo eventuale, inteso come semplice accettazione da parte del concorrente esterno del rischio di verificazione - unitamente ad altri risultati intenzionalmente perseguiti - dell'evento, considerato quindi come solo probabile o possibile (Cass. pen. Sez. V, n. 26589/2018).

Il concorso esterno

Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa ha subito nel tempo una vorticosa serie di evoluzioni giurisprudenziali, che hanno condotto parte degli esegeti della norma a ritenerne addirittura la illegittimità codicistica. Pare però ormai consolidata l'opinione della sua perfetta collocazione all'interno del sistema penale sostanziale; l'astratta configurabilità della figura rappresenta infatti un dato ormai pacificamente acquisito. Trattasi dunque della figura del concorso eventuale di persone, rispetto a soggetti diversi da quelli che sono i concorrenti in senso stretto della fattispecie necessariamente plurisoggettiva, quale appunto è l'associazione di stampo mafioso. La veste del concorrente esterno alla compagine può essere attribuita al soggetto che – sebbene non inserito in maniera stabile all'interno dell'organizzazione e privo dunque dell'affectio societatis – riesca comunque a fornire un apporto causalmente efficiente, specifico e consapevole, nonché concretamente apprezzabile all'operatività del sodalizio. Contributo che a sua volta costituisca condizione necessaria. per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative del gruppo criminale (o almeno, di un settore di attività o articolazione geografica del medesimo).

Occorre inoltre che il contributo offerto dal soggetto esterno sia direttamente indirizzato alla realizzazione – sebbene circoscritta – del generico programma criminoso fondante l'associazione mafiosa. La tipicità ed il rilievo causale del contributo apportato dal concorrente esterno è dunque riconducibile ai confini applicativi della norma generale ex art. 110 c.p. (regola che combina la clausola di portata generale in esso contenuta, con le disposizioni delle fattispecie di base distinte nella parte speciale). L'apporto causale atipico offerto dal concorrente esterno – abbia esso indifferentemente la matrice di contributo morale o materiale - deve inoltre porsi in rapporto di sinergia, con quello proveniente da partecipi o promotori interni alla compagine delinquenziale; deve poi anche come detto avere una effettiva attitudine deterministica, rispetto al perseguimento degli scopi del clan.

Il coefficiente psicologico richiesto in capo al concorrente esterno deve allora consistere – proprio in ragione della specifica natura dell'ipotesi concorsuale – nella rappresentazione tanto degli elementi essenziali della figura criminosa associativa, quanto della importanza del proprio apporto. E deve essere sorretto dalla consapevolezza di cooperare sinergicamente con le altrui condotte, per la produzione dell'evento tipicomma In tale ottica, il concorrente esterno deve anche avere consapevolezza di metodi e fini dell'associazione e – seppur non divenga organico a questa – deve essere conscio di fornire una attività di sostegno, o almeno agevolatrice rispetto all'operatività o alla conservazione della compagine mafiosa. Deve infine sottolinearsi come la condotta del concorrente esterno, rispetto al delitto ex art. 416-bis c.p., si svolga comunque sempre secondo lo schema dogmatico del reato a forma libera.

In evidenza

Nella nota sentenza c.d. Demitry, affermando la configurabilità del concorso eventuale nel delitto di associazione mafiosa, la Corte ha chiarito la differenza esistente fra i ruoli del partecipe e del concorrente eventuale (morale o materiale). Partecipe è quindi il soggetto senza il cui continuo apporto il sodalizio non realizza i suoi fini (o almeno non li raggiunge in maniera rapida); trattasi quindi di colui che si ponga in una condizione per così dire fisiologica, all'interno della vita operativa dell'organizzazione. Concorrente esterno è colui che non intenda affiliarsi all'associazione e che da questa non è in qualche modo cooptato. Al quale invece il clan si rivolga o al fine di riempire temporanee carenze in un determinato compito; oppure allorquando la situazione fisiologica dell'associazione sia in momentanea crisi, conducendo invece verso una condizione per così dire patologica; e proprio per superare tale situazione di fibrillazione, l'associazione necessità di un limitato apporto esterno, che sia però causalmente efficiente e che magari sia addirittura circoscritto al compimento di un solo atto (Cass. pen., Sez. unite, n. 16/1994). In Cass. pen., Sez. unite, n. 33748/2005, i Giudici di legittimità hanno riconfermato la possibilità di configurare il concorso esterno in associazione mafiosa, ribadendo la necessità di un dolo specificomma

Le forme di manifestazione

Ai commi quarto e quinto della norma in esame è prevista l'aggravante della disponibilità di armi. Questa resta integrata anche in caso di detenzione non attuale ed effettiva di armi e pur laddove non siano ipotizzabili le fattispecie del porto e della detenzione di armi. Anche nel caso di disponibilità di armi legalmente detenute, possono quindi rinvenirsi gli estremi dell'aggravante in parole, di tal che l'associazione di stampo mafioso aggravata dalla disponibilità di armi non forma mai un reato complesso (nel quale rimarrebbero invece assorbiti i delitti di porto e detenzione di arma).

Il comma sesto della norma prevede poi l'aggravante a effetto speciale del reinvestimento dei proventi, che ricorre allorquando le attività economiche delle quali gli associati intendano acquisire o mantenere il controllo siano finanziate pur parzialmente con il prezzo, prodotto o profitto di delitti. La ratio di tale circostanza risiede nell'opportunità di colpire con sanzione maggiormente severa l'inserimento delle organizzazioni mafiose nell'ambito dell'economia legale; ciò rappresenta infatti una sorta di progressione dal reato-base ed è espressione di una più accentuata pericolosità del sodalizio, appunto perché questo in tal modo diviene capace di infiltrarsi nei gangli vitali dell'economia legale.

L'art. 71 d.lgs 6 settembre 2011, n. 159 prevede l'aggravamento di pena da un terzo alla metà, laddove il fatto ex art. 416-bis c.p. – tra gli altri reati ivi previsti - sia posto in essere da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale, durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione.

Al secondo comma dell'art. 452-octies c.p. è previsto l'aggravamento della pena di cui all'art. 416-bis c.p., quando tale forma associativa delinquenziale sia finalizzata alla perpetrazione di taluno dei delitti previsti dal Titolo VI bis del Codice stesso [trattasi degli artt. da 452 bis a 452 quaterdecies, introdotto dall'art. 3, comma 1, lett. a) del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21; titolo intitolato delitti contro l'ambiente, inserito nel Codice sostanziale ad opera della l. 22 maggio 2015, n. 68). Il terzo comma del medesimo art. 452-octies c.p. prevede infine una aggravante a effetto speciale, con incremento sanzionatorio da un terzo alla metà, laddove di tale associazione facciano parte «pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio che esercitano funzione o svolgono servizi in materia ambientale».

In evidenza

Stando a Cass. pen., Sez. unite, n. 25191/2014 la circostanza aggravante del reimpiego, di cui al sesto comma dell'art. 416-bis c.p., ha natura oggettiva. Essa deve quindi essere riferita all'operatività dell'associazione in sé e non esclusivamente alla condotta del singolo affiliato. In tal modo essa diviene apprezzabile nei confronti di tutti coloro che rientrano nella compagine malavitosa, purché si tratti di persone consapevoli dell'avvenuto reinvestimento dei profitti delittuosi; tale circostanza ricorre altresì nei confronti di coloro che comunque abbiano ignorato tale dato per colpa, ovvero per errore determinato da colpa. L'aggravante in parola è poi ascrivibile al soggetto associato, che abbia commesso proprio quel delitto da cui abbiano avuto origine i profitti oggetto di successivo reimpiego a opera sua.

L'art. 416-bis.1.(già aggravanti e attenuanti ex artt. 7 e 8 d.l. 152/1991)

L'art. 7, comma 1, lett. i) del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21 ha abrogato sia l'aggravante a effetto speciale prima prevista dall'art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n.152, convertito con modificazioni in l. 12 luglio 1991, n. 203, sia l'attenuante prima prevista dall'art. 8 della medesima disposizione normativa. L'art. 5, comma 1, lett. d) del medesimo d.lgs. 21/2018 ha però trasfuso tali circostanze – con perfetta continuità normativa e in attuazione del principio della c.d. riserva di codice – all'interno dell'art. 416-bis.1.

La suddetta circostanza aggravante - sotto il profilo tecnico-giuridico – è configurabile con riferimento a ogni tipo di delitto punibile con pena diversa dall'ergastolo, che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. (ossia mediante l'adozione del c.d. metodo mafioso), ovvero che sia stato perpetrato al fine di agevolare l'attività dell'associazione prevista nel predetto articolo (quindi che sia sorretto dalla cd. finalità mafiosa).

La prima ipotesi è configurabile a carico dei soggetti i quali – siano o meno essi partecipi di reati associativi - adottino metodi mafiosi; sarebbe a dire, a carico di coloro che - in maniera anzitutto ostentata, palese e provocatoria – tengano una condotta intimidatoria idonea ad esercitare, nei confronti dei soggetti passivi, quella profonda coartazione e quella correlata forma di intimidazione e paura che sono proprie delle organizzazioni di tipo mafioso. Il classico modo di agire ed atteggiarsi mafioso sussiste peraltro anche in mancanza di minacce esplicite in danno delle vittime dei reati. Tale metodo può infatti parimenti concretarsi in comportamenti sottintesi e simbolicamente allusivi, che siano però pur velatamente evocativi dell'esistenza di più ampi contesti criminali, atti ad intervenire incisivamente nelle situazioni concrete.

Nella seconda ipotesi sopra sussunta (la c.d. finalità mafiosa), l'aggravante è invece strutturata secondo lo schema del dolo specificomma Tale forma di manifestazione postula quindi la presenza di elementi che conclamino la direzione lesiva della condotta, la quale deve apparire teleologicamente diretta al fine di agevolare le attività delle associazioni di cui all'art. 416-bis c.p. L'aggravante è poi inconciliabile con la struttura dell'agevolazione colposa; per la sua configurabilità, inoltre, essa esige che l'azione superi il rapporto interpersonale e sia invece orientata ad avvantaggiare l'attività del sodalizio di stampo mafioso. Trattasi infine di due ipotesi distinte, previste in regime di alternatività fra loro; tanto che è sufficiente la sussistenza di una delle due, perché venga realizzato l'aggravamento di pena previsto dalla norma.

L'attenuante prevista dal secondo comma dell'art. 416-bis.1 (già art. 8 d.l. 152/1991), ossia la cd. dissociazione attuosa, opera invece nei confronti di coloro che – sempre nell'ambito dei delitti ex art. 416-bis, ovvero che siano perpetrati avvalendosi delle condizioni colà previste o al fine di favorire le associazioni mafiose – si dissocino dai sodali e si adoperino per evitare che l'attività criminale giunga a conseguenze ulteriori, anche fornendo un concreto aiuto alla p.g. o all'a.g. nella «raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati». In tal caso, la norma prevede la sostituzione della pena dell'ergastolo con la reclusione da dodici a venti anni e la riduzione delle altre pene da un terzo alla metà.

In evidenza

Per la configurabilità dell'aggravante occorre che sussista una piena coscienza – in capo all'agente - della prospettiva in cui egli si muove. E infatti, secondo i giudici di legittimità, occorre che il soggetto abbia in primo luogo la piena consapevolezza di favorire gli interessi della cosca, sebbene magari persegua lo scopo ulteriore di ottenere vantaggi personali attraverso la perpetrazione del fatto delinquenziale (Cass. pen., Sez. V, n. 11101/2015). È inoltre richiesto che l'attività illecita effettivamente posta in essere sia inequivocabilmente diretta a rafforzare e/o favorire il perseguimento degli scopi illeciti dell'associazione (Cass. pen. Sez. V, n. 12010/2016).

Affinché possa trovare applicazione l'attenuante speciale ex art. 8 d.l. 152/1991 conv. in l. 203/1991, occorre che colui che ne fruisca sia ritenuto responsabile di partecipazione ad associazione mafiosa, oppure di un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis o al fine di agevolare le attività mafiose ex art. 7 della medesima disposizione normativa; l'attenuante non può essere al contrario applicata, laddove l'aggravante ex art. 7 suddetta – pur se oggetto di incolpazione – non venga poi ritenuta in sentenza (Cass. pen. Sez. VI, n. 31874/2017).

Ricordiamo anche che Cass. pen., Sez. unite, n. 19756/2015 ha stabilito la imprescrittibilità del delitto in astratto sanzionato con la pena dell'ergastolo – perpetrato in epoca antecedente alla modifica dell'art. 157, operata ex l. 5.12.2005, n. 251 – seppur al ricorrere di una circostanza attenuante che comporti l'applicazione di pena detentiva temporanea in luogo dell'ergastolo. La fattispecie dalla quale origina tale pronuncia concerneva proprio un processo con imputazione per omicidio aggravato, commesso in epoca precedente alla riforma dell'art. 157; in tale processo era stata appunto riconosciuta la circostanza attenuante speciale di cui all'art. 8 d.l. 13.5.1991, n. 152, conv. con l. 12 luglio 1991, n. 203, prevista per i collaboratori di giustizia.

Segnaliamo infine che, quando venga riconosciuta l'attenuante ad effetto speciale ex art. 8 d.l. 152/1991 e ricorrano circostanze attenuanti diverse da sottoporre all'ordinario giudizio di comparazione ex art. 69 rispetto ad altre aggravanti, deve in un primo momento determinarsi la pena operando tale bilanciamento e – solo all'esito di tale operazione – applicare l'attenuante speciale ex art. 8 sulla pena così ottenuta (Cass. pen., Sez. VI, n. 31983/2017).

Profili processuali

È reato procedibile d'ufficio e di competenza del tribunale in composizione collegiale. Per esso l'arresto in flagranza è obbligatorio ed è consentito il fermo; è possibile l'applicazione di tutte le misure cautelari.

Ai sensi dell'art. 51, comma 1, lett. a) e comma 3-bis c.p.p., le funzioni di P.M. nelle indagini preliminari e nei procedimenti in primo grado sono riservate - nei procedimenti ex art. 416-bis c.p.p. – all'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente.

Il termine di durata massima delle indagini preliminari è fissato in due anni, a norma dell'art. 407, comma 2, n. 3) c.p.p.

Per quanto attiene alla possibilità – per i procedimenti relativi ad ipotesi di reato ricomprese nell'elencazione degli artt. 51 comma 3 bis e 3 quater – di eseguire intercettazioni fra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo portatile, si veda l'art. 266, comma 2-bis, c.p.p. (comma aggiunto dall'art. 4, comma 1, lett. a) n. 2 d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, applicabile alle operazioni di intercettazione inerenti a provvedimenti di autorizzazione emessi dopo il 31.3.2019, secondo quanto disposto dall'art. 2, comma 1, d.l. 25 luglio 2018, conv. con mod. in l. 21 settembre 2018, n. 108). Per ciò che concerne il divieto di concessione dei benefici (assegnazione al lavoro all'esterno, permessi premio, misure alternative alla detenzione) ai condannati per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., si veda l'art. 4-bis ord. pen.), inserito dal d.l. 13.5.1991, n. 152, conv. con mod. in l. 12.7.1991, n. 203 e dichiarato illegittimo all'art. 2, comma 1, da Corte cost. 68/1995.

Con riferimento all'esame a distanza degli imputati di reato connesso in processi per mafia, si legga l'art. 147 bis comma 2 e 3) lett. c) disp. att. c.p.p.

L'art. 2 lett. a) n. 11) l. 31 luglio 2006, n. 241 annovera l'art. 416-bis tra i delitti per i quali vige una causa oggettiva di esclusione dall'applicabilità dell'indulto.

In evidenza

L'art. 5 c.p.p. (nel testo successivo all'intervento del d.l. 12 febbraio 2010, n. 10, conv. con mod. in l. 6 aprile 2010, n. 52), riserva quoad titulum alla competenza del Tribunale tutti i reati associativi comunque aggravati. Tale norma - di applicazione retroattiva - deroga alla competenza generale stabilita quoad poenam in favore della Corte d'Assise. A tale risultato deve inequivocabilmente pervenirsi in forza dell'interpretazione letterale della disposizione transitoria ex art. 1, comma 1 lett. a), d. l. 10/2010 (Cass. pen., Sez. I, n. 47655/2011; Cass. pen., Sez. VI, n. 21063/2011 ha anche precisato che la competenza in relazione ad ogni ipotesi di reato ex art. 416-bis – restando ininfluente la pena edittale prevista in ordine alla violazione contestata – è riservata al Tribunale. Tale ripartizione opera anche con riferimento ai procedimenti instaurati in epoca antecedente all'entrata in vigore del d.l. 12 febbraio 2010, n. 10. Fanno ovviamente eccezione i processi che – a quella data – abbiano già avuto inizio dinanzi alla Corte d'Assise.

Casistica

La Cassazione ha stabilito che la decisione assunta dalla Cedu in data 14 aprile 2015 nel caso Contrada/Italia non può estendere i propri effetti a casi diversi da quello che ne forma oggetto. Soltanto in ordine a quest'ultimo, quindi, operano gli obblighi di conformazione ex art. 46 Cedu. L'affermazione secondo la quale il concorso esterno in associazione mafiosa sarebbe una figura di mera creazione giurisprudenziale non è pertanto calzante rispetto all'ordinamento penale nazionale, laddove vige il modello della legalità formale (così può leggersi in Cass. pen. Sez. I, n. 36509/2018, la quale ha chiarito come le decisioni delle SS.UU. che hanno sancito la configurabilità di tale reato siano conformi ai principi della legalità formale e della tassatività delle fattispecie incriminatrici, basandosi sul saldarsi della figura tipica di parte speciale con la regola generale ex art. 110 c.p.).

Perché si realizzi una partecipazione all'organizzazione mafiosa non è essenziale che intervenga una investitura formale, oppure che vengano materialmente perpetrati reati-fine strumentali al conseguimento degli interessi della cosca. Lo stabile e organico inserimento del singolo nella trama associativa deve infatti essere considerato secondo un'ottica non parcellizzata, bensì globale, di tutti gli indici significativi dell'assunzione di un ruolo dinamico nella compagine; e tali indici possono esser desunti anche attraverso l'esame di facta concludentia (Cass. pen., Sez. V, n. 32020/2018).

L'attitudine intimidatrice di un gruppo mafioso non necessita di una esternazione mediante il compimento di specifici fatti minacciosi o violenti Essa può infatti anche evincersi dalla realizzazione di condotte che – sebbene non genuinamente violente - siano però evocative dell'operatività, della negativa reputazione, del prestigio delinquenziale dell'organizzazione; oppure anche da altre circostanze di carattere oggettivo, che siano atte a mostrare la capacita attuale - della compagine, o di coloro che ad essa si richiamano - di incutere paura; o anche dalla generalizzata percezione, in capo alla collettività, circa l'efficienza del gruppo criminale nell'esercizio della coercizione fisica. (Cass. pen., Sez. VI, n. 28212/2017).

Quando venga disposta la custodia cautelare in carcere in relazione al reato ex art. 416-bis c.p., affinché possa reputarsi superata la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari ex art. 275, comma 3, c.p.p., non rileva la distinzione tra mafie cd. storiche e gruppi di recente costituzione. In ambedue i casi, la suddetta presunzione è infatti vinta dall'acquisizione della prova in ordine all'irreversibile allontanamento del soggetto dal gruppo mafioso, pure indipendentemente dalla esistenza perdurante di quest'ultimo (Cass. 6, n. 15753/2018).

L'accertamento operato con la sentenza di condanna delimita l'estensione temporale della permanenza del reato, per ciò che concerne la data finale alla quale fa riferimento la contestazione, oppure la diversa data accertata in sentenza, ovvero – in presenza di una cd. contestazione aperta - la data dell'emissione della sentenza di primo grado. Deriva da ciò che la successiva prosecuzione della stessa condotta delinquenziale, già oggetto del primo accertamento, può venire considerata soltanto come presupposto fondante il riconoscimento dell'unico disegno criminoso tra i vari episodi (Cass. pen., Sez. VI, n. 3054/2017).

Laddove si prospetti la possibilità di applicare una misura di prevenzione, occorre considerare come la nozione di appartenenza ad una organizzazione mafiosa ricomprenda condotte che – seppur non qualificabili quale partecipazione – si sostanzino comunque in azioni, pur episodiche, strumentali rispetto al perseguimento delle finalità associative. Restano pertanto escluse da tale concetto le situazioni di mera contiguità o vicinanza al clan (Cass. pen., Sez. unite, n. 111/2017).

Secondo Cass. pen., Sez. VI, n. 2025/2017 – in caso di condanna per partecipazione ad organizzazione mafiosa - l'applicazione della misura di sicurezza ex art. 417 c.p. non postula la concreta verifica circa la pericolosità del soggetto. Deve al contrario reputarsi esistente una presunzione semplice (ricavabile dalle connotazioni stesse del gruppo criminoso e dalla permanenza temporale del vincolo associativo), la quale può esser vinta solo allorquando risultino acquisiti elementi significativi del concreto venir meno di tale pericolosità (quale può ad esempio essere l'inizio di una collaborazione con l'A.G.).

Secondo Cass. 1 n. 14255/2016, perché possa esser configurata l'aggravante della disponibilità delle armi non è necessaria l'esatta individuazione delle armi stesse. È al contrario bastevole il concreto accertamento, in fatto circa la disponibilità di un armamento (fatto ad esempio evincibile dalla commissione di fatti di sangue ad opera del gruppo criminale, oppure dal contenuto delle intercettazioni).

Per ciò che attiene all'iter formativo della prova e segnatamente al tema della chiamata di correo, non sono equiparabili a mere dichiarazioni de relato quelle dell'intraneo che riporti notizie ottenute nell'ambito associativo (le quali rappresentino un patrimonio comune), in ordine agli affiliati ed alle attività peculiari dell'organizzazione mafiosa (Cass. pen., Sez. I, n. 28239/2018). In ordine sempre al profilo della chiamata in correità nel reato di partecipazione ad associazione mafiosa, le relazioni – rappresentate da contatti o frequentazioni - del chiamato con altri soggetti inseriti nella organizzazione criminale, oltre che con i soggetti che occupano una posizione apicale, sono in linea generale inadatte – se considerate isolatamente - a legittimare l'affermazione di penale responsabilità per il suddetto reato. In presenza però di una chiamata di correo intrinsecamente attendibile e laddove rimanga carente una possibile spiegazione difforme, le relazioni qualificate sono elementi idonei a fungere da riscontro esterno individualizzante ex art. 192, comma 3, c.p.p. e a fondare l'affermazione di colpevolezza (Cass. pen., Sez. II, n. 18940/2017).

Perché si possa reputare provata la matrice mafiosa della articolazione di un'organizzazione mafiosa, che sia costituita lontano dall'area geografica di radicamento di questa, occorre che tale diramazione del gruppo originario eserciti nel nuovo ambito geografico una forza di intimidazione che sia effettiva e verificabile in maniera oggettiva. In tale processo, la Corte ha ritenuto non provata la natura mafiosa di una organizzazione stabilitasi in Germania, per esser restata carente la prova circa l'adozione - in tale nuovo contesto territoriale - del metodo mafioso. Si era invece acquisita solo la prova circa le correlazioni, tra gli esponenti della articolazione collocatasi in terra tedesca ed esponenti della ndrangheta calabrese, nonché dell'adozione di alcuni dei tipici rituali di tale tipo di mafia (Cass. pen., Sez. I, n. 55359/2016).

Può ritenersi integrato il delitto in esame anche in presenza di associazioni che non siano assimilabili alle mafie cd. tradizionali e che siano composte da un ristretto numero di affiliati; a patto però che venga comunque adottato il metodo mafioso, onde diffondere – in un contesto geografico pur limitato - una diffusa situazione di assoggettamento e omertà (Cass. pen., Sez. VI, n. 57896/2017).

Il soggetto che rivesta una posizione apicale in una associazione mafiosa risponde – a titolo di concorso morale – di un omicidio al quale abbia dato tacito consenso, mantenendo un atteggiamento silente nel corso di una riunione, oppure all'atto della doverosa informazione proveniente da altro membro del gruppo. E infatti, la mera presenza ed il solo sottinteso beneplacito espressi dal capo sono idonei a rappresentare una condizione per la concretizzazione del delitto, ovvero per il significativo rafforzamento dell'intenzione omicidiaria (Cass. pen., Sez. I, n. 19778/2015).

Laddove si intenda disporre un sequestro funzionale alla successiva confisca, nei confronti di un soggetto che sia indagato per la partecipazione ad un'organizzazione di stampo mafioso, è necessario che resti dimostrata l'esistenza di una specifica e concreta correlazione, tra la gestione dell'impresa alla quale sono riferibili i beni da sottoporre al vincolo e le attività riconducili al clan; non è al contrario sufficiente il mero riferimento alla veste di amministratore della società ricoperta dall'indagato (Cass. 6, n.° 6766/2014). Secondo Cass. pen., Sez. unite, n. 40985/2018, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, di cui all'art. 12-sexies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in l. 8 luglio 1992, n. 356, può essere disposto in relazione ad uno dei reati-presupposto, anche quando questo ricorra nella forma tentata, a patto che comunque sussista l'aggravante ex art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. dalla l. 12 luglio 1991, n. 203.

Il dato differenziale esistente tra l'organizzazione di stampo mafioso e l'associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti (ed elemento al ricorrere del quale si può ipotizzare il concorso fra le due figure), è rappresentato non tanto dal fine di porre in essere altri reati, bensì dal profilo programmatico dell'adozione del metodo. Questo nell'ambito di un sodalizio rilevante ex art. 416-bis c.p. ha una portata non circoscritta al narcotraffico, ma si estende all'imposizione di una sfera di predominio di cui fanno parte la commissione di reati, l'ottenimento della gestione di attività economiche, di concessioni, appalti e servizi pubblici, nonché l'impedimento o l'ostacolo al libero esercizio del diritto di voto e il procacciamento del voto in consultazioni elettorali (Cass. pen., Sez. VI, n. 563/2015).

Il concetto dell'omertà - che si pone in una relazione di causa a effetto, rispetto alla forza intimidatrice del clan di stampo mafioso - deve essere sufficientemente propagata, sebbene non sia assolutamente generalizzata. Essa può avere scaturigine sia dal timore per i danni alla persona, sia dalla paura per la possibile concretizzazione di minacce atte a causare danni rilevanti. Il tutto deve diffondere il concetto secondo il quale il collaborare con l'autorità giudiziaria non potrà scongiurare ritorsioni gravi in danno della persona del denunciante, stante l'articolazione ramificata dell'associazione, le capacità criminali della stessa e il possibile coinvolgimento di altre persone non identificabili, in grado comunque di danneggiare chi osi contrapporsi all'associazione (Cass. pen., Sez. feriale n. 44315/2013).

Guida all'approfondimento

Bricchetti-Pistorelli, Elevate le pene per l'associazione mafiosa, in GDir., n. 32, 2008;

Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo. Le ipotesi delle associazioni per delinquere e di tipo mafioso, Napoli, 2003;

Conso, La criminalità organizzata nel linguaggio del Legislatore, in GP, 1992;

Dell'Utri, in AA.VV., Codice Penale diretto da Beltrani, Milano, 2017;

Di Fresco, Mafia al nord e problemi applicativi dell'art. 416 bis c.p., www.ilPenalista, 20.10.2017;

Fiandaca, Musco, Diritto Penale, Parte Speciale, Bologna, 2012;

Giordano, L'imprenditore e l'associazione di tipo mafioso: il “colluso” e la “vittima”, in ilPenalista, 16.2.2018;

Ingroia, L'associazione di tipo mafioso, Milano, 1993;

Morosini, La difficile tipizzazione giurisprudenziale del concorso esterno in associazione, in DPP, 2006;

Padovani, Il concorso dell'associato nei delitti-scopo, in RIDPP, 1998;

Spagnolo, L'associazione di tipo mafioso, Padova, 1997;

Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 1995;

Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003.

Sommario