Messa alla prova. Nessuna menzione nei certificati penali se l'esito è positivo
10 Dicembre 2018
In data 7 dicembre 2018 è stato pubblicato dall'Ufficio Stampa della Corte costituzionale il comunicato con il quale si rendeva noto il deposito della sentenza n. 231/2018 che ha dichiarato l'illegittimità degli artt. 24, comma 1, e 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, recante Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (Testo A), nel testo anteriore alle modifiche, non ancora efficaci, recate dal decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 122 (Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103),nella parte in cui non prevedono che nel certificato generale e nel certificato penale del casellario giudiziale richiesti dall'interessato non siano riportate le iscrizioni dell'ordinanza di sospensione del processo con messa alla prova dell'imputato ai sensi dell'art. 464-quater, del codice di procedura penale e della sentenza che dichiara l'estinzione del reato ai sensi dell'art. 464-septies, c.p.p. La Corte ha ritenuto che l'implicito obbligo di iscrivere nel certificato del casellario a richiesta dei privati il provvedimento relativo alla messa alla prova finisca per risolversi in un trattamento deteriore rispetto a coloro che optando per un procedimento “speciale” – quale l'applicazione della pena su richiesta delle parti o il decreto penale di condanna – beneficiano già oggi della non menzione dei relativi provvedimenti nei certificati richiesti dai privati. «Rispetto in particolare al patteggiamento, questa Corte ha in effetti già avuto modo di qualificare il beneficio ex lege della non menzione delle sentenze ex art. 444 e seguenti cod. proc. pen. nel certificato del casellario giudiziale come un incentivo finalizzato a indurre «l'imputato a pervenire sollecitamente alla definizione del processo» (sentenza n. 223 del 1994). Poiché tanto la messa alla prova quanto il patteggiamento costituiscono procedimenti «diretti ad [assicurare all'imputato] un trattamento più vantaggioso di quello del rito ordinario» (sentenza n. 91 del 2018), non è conforme a ragionevolezza che il beneficio della non menzione venga riconosciuto ex lege a chi si limiti a concordare con il pubblico ministero l'applicazione di una pena sulla base di un provvedimento equiparato a una sentenza di condanna, salve le eccezioni previste dalla legge (art. 445, comma 1-bis, cod. proc. pen.), e non – invece – a chi eviti la condanna penale attraverso un percorso che comporta l'adempimento di una serie di obblighi risarcitori e riparatori in favore della persona offesa e della collettività, per effetto di una scelta volontaria, e con esiti oggettivamente e agevolmente verificabili: e ciò nella medesima ottica di risocializzazione cui avrebbe dovuto tendere la pena, qualora il processo si fosse concluso con una condanna». Per la generalità dei casi esiste, inoltre, la possibilità di beneficiare della non menzione della condanna nei certificati qualora si sia ottenuta la riabilitazione (art. 24, comma 1, lettera d) e art. 25, comma 1, lettera d), del T.U. casellario giudiziale) e la circostanza che ciò sia precluso nei casi di provvedimento relativo alla messa alla prova costituisce un altro profilo di irragionevolezza ingenerato dalla disciplina censurata dalla Corte. La Corte costituzionale ha ritenuto, altresì, fondate le questioni sollevate in relazione all'art. 27, comma 3, Cost. richiamando la sentenza a sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. unite 31 marzo 2016, n. 36272) che ha definito la sospensione del procedimento con messa alla prova un «istituto che persegue scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto». L'istituto, dunque, è connotato dal finalismo rieducativo di cui all'art. 27, comma 3, della Costituzione. La menzione dei provvedimenti relativi alla messa alla prova nei certificati richiesti dai privati è stata, dunque, ritenuta disfunzionale rispetto a tale finalità rieducativa in quanto la suddetta menzione costituisce, invece: «un ostacolo al reinserimento sociale del soggetto che abbia ottenuto, e poi concluso con successo, la messa alla prova, creandogli – in particolare – più che prevedibili difficoltà nell'accesso a nuove opportunità lavorative, senza che ciò possa ritenersi giustificato da ragioni plausibili di tutela di controinteressi costituzionalmente rilevanti, dal momento che l'esigenza di garantire che la messa alla prova non sia concessa più di una volta (art. 168-bis, comma 4, cod. pen.) è già adeguatamente soddisfatta dall'obbligo di iscrizione dei menzionati provvedimenti sulla messa alla prova e della loro indicazione nel certificato “ad uso del giudice” (rispettivamente artt. 3, comma 1, lettera i-bis, e 21, comma 1, del t.u. casellario giudiziale)». La Corte ritiene che non ci sia alcuna ragione per cui si debba iscrivere anche nei certificati richiesti dai privati (con i conseguenti effetti negativi a carico di un soggetto presunto innocente fino alla condanna definitiva) un provvedimento interinale come l'ordinanza che dispone la sospensione con messa alla prova per l'imputato che, successivamente, è destinato ad essere travolto o da un provvedimento successivo- che dichiara l'estinzione del reato (la maggioranza dei casi) in caso di esito positivo della messa alla prova o dall'ordinanza che dispone la prosecuzione del processo in caso di esito negativo della stessa. «D'altra parte, una volta che il processo si sia concluso con l'estinzione del reato per effetto dell'esito positivo della messa alla prova, la menzione della vicenda processuale ormai definita contrasterebbe con la ratio della stessa dichiarazione di estinzione del reato, che comporta normalmente l'esclusione di ogni effetto pregiudizievole – anche in termini reputazionali – a carico di colui al quale il fatto di reato sia stato in precedenza ascritto». Questa importante pronuncia della Corte costituzionale restituisce e rinforza ulteriormente la funzione premiale e risocializzante della sospensione del procedimento con messa alla prova per l'imputato. Quest'ultimo, infatti, potrà essere maggiormente indotto a scegliere tale rito alternativo che gli permetterà di non subire più gli effetti pregiudizievoli derivanti dalle iscrizioni nel certificato a richiesta di privati consentendo allo stesso un più agevole reinserimento nella società. |