Indebite compensazioni fiscali: profili di responsabilità penale anche del professionista

10 Dicembre 2018

Sul versante penal-tributario, l'interesse dello Stato ad una tempestiva ed efficace riscossione delle imposte, dei contributi e degli altri crediti è stato assicurato dalla previsione del reato di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000. Tuttavia, è innegabile come la tutela di tale bene giuridico sarebbe gravemente compromessa nel caso in cui il soggetto attivo del reato in esame venisse considerato, in maniera riduttiva, il solo contribuente. In tale contesto, la Corte di Cassazione è tornata recentemente sull'argomento e con la prima pronuncia del 18 gennaio 2018, n. 1999, successivamente ribadita nelle sentenze nn. 29870 del 3 luglio 2018 e 37094 del 1° agosto 2018, ha esteso il raggio d'azione del reato anche alle figure del debitore accollante e del professionista (nei confronti del quale è stato anche previsto un concorso “qualificato”).
Il reato di indebita compensazione

Sul versante penal-tributario, l'interesse pubblico alla tempestiva ed efficace riscossione delle imposte, dei contributi e degli altri crediti è stato tutelato dall'introduzione, ad opera dell'art. 35, comma 7, del D.L. n. 223 del 4 luglio 2006 (convertito con L. 4 agosto 2006, n. 248), del reato di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

Il delitto de quo, teso a reprimere, unitamente alle fattispecie previste dagli artt. 10-bis (omesso versamento delle ritenute certificate) e 10-ter (omesso versamento dell'Iva dovuta) del medesimo decreto, quelle condotte rientranti nella c.d. evasione da riscossione, è stato oggetto di una profonda rivisitazione e ristrutturazione da parte dell'art. 9, co.1, del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158.

Infatti, a differenza della sua originaria formulazione, che faceva rinvio all'art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000 non solo per la soglia di punibilità (fissata in 50.000 euro annui) ma anche per la cornice edittale (reclusione da sei mesi a due anni), la novellata fattispecie delittuosa assume una nuova veste e tenta di far fronte alle reiterate e manifeste condotte illecite dei contribuenti, tendenti a sfruttare lo strumento della compensazione fiscale e a versare meno di quanto richiesto.

Per effetto delle modifiche apportate, il nuovo art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000, oltre a non fare più rimando all'art. 10-bis, prevede, a seconda della tipologia di credito oggetto di compensazione, un differente trattamento sanzionatorio (prima equiparato), più severo nel caso dei crediti inesistenti, per cui è prevista la pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni (comma 2), rispetto all'ipotesi di indebita compensazione ottenuta tramite crediti non spettanti, rimasta punita con la reclusione da sei mesi a due anni(comma 1).

Integra, dunque, il reato di indebita compensazione chiunque non versi le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell'art. 17 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti (ovvero quei crediti che, seppur sussistenti, non sono utilizzabili in operazioni finanziarie di compensazione) o inesistenti (ovvero quelli privi di fondamento giuridico e frutto, dunque, di pura invenzione) per un importo annuo superiore a cinquantamila euro.

Dal tenore letterale della norma, come peraltro evidenziato negli anni dalla giurisprudenza di legittimità, si evince che il delitto in esame è a condotta mista, poiché quest'ultimo si concretizza con una condotta:

a) commissiva, posta in essere con l'indicazione dell'illecita compensazione nel modello F24 e con il contestuale invio di quest'ultimo;

b) omissiva, data dal mancato conferimento della delega irrevocabile per il versamento delle somme dovute, ove superiori alla citata soglia, a prescindere dal fatto che l'illecita compensazione effettuata sia stata verticale (per crediti e debiti afferenti il medesimo tributo) o orizzontale (per crediti e debiti di imposta di natura diversa).

Nello specifico, si assiste ad una vera e propria distorsione, compiuta dal contribuente, di quel meccanismo di auto-liquidazione realizzato in sede di pagamento unificato che il legislatore ha inteso garantire con la previsione contenuta nell'art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997, a mente del quale viene riconosciuta ai contribuenti (che eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all'INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali) la possibilità di compensare con eventuali crediti, maturati nello stesso periodo nei confronti dei medesimi soggetti, e risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche.

E sebbene, seguendo il tenore letterale dell'art. 10-quater, il soggetto attivo della condotta delittuosa sia “chiunque”, si tratta di un reato proprio, in cui l'intraneus è stato da sempre considerato il contribuente, ossia colui che, essendo titolare di una posizione debitoria verso l'Erario, beneficia della possibilità di poter compensare gli eventuali crediti vantati anche nei confronti di diversi soggetti pubblici.

In tale prospettiva, i soggetti legittimati, ex art. 17 e ss. D.Lgs. n. 241/1997, ad effettuare pagamenti d'imposta, utilizzando in compensazione crediti di origine tributaria vantati nei confronti del Fisco, sono stati fatti rientrare, a pieno titolo, tra i soggetti attivi del reato.

In tale contesto, giova comunque evidenziare che non è mai stata preclusa l'estensione di una responsabilità penale a titolo di concorso di persone dell'extraneus, come ad esempio l'intermediario e/o il consulente, il quale, ricevuto l'incarico dal cliente, invii un modello F24 in cui siano state effettuate illecite compensazioni e ne sia dolosamente consapevole.

Infatti, la giurisprudenza di legittimità, nell'affrontare casi analoghi, è tornata recentemente sull'argomento e, facendo riferimento al fatto che l'agente-intraneus del reato è “chiunque”, ha specificato, in primis nella sentenza n. 1999 del 18 gennaio 2018 e, successivamente, nelle pronunce nn. 29870 del 3 luglio 2018 e 37094 del 1° agosto 2018, che la norma in questione pone l'accento “non tanto su una qualifica soggettiva, ma su un soggetto qualsiasi che peraltro si qualifica in base a ciò che compie, ossia non versa le somme dovute utilizzando in compensazione crediti inesistenti”.

Ne deriva che il raggio d'azione del reato in trattazione è stato esteso anche alle figure del debitore accollante e del consulente fiscale (nei confronti del quale è stato previsto anche un concorso “qualificato”).

Accollo d'imposta

Come poc'anzi anticipato, la Suprema Corte ha riconosciuto quale soggetto attivo del reato di indebita compensazione anche la figura del debitore accollante, ovvero colui che, vantando dei crediti fiscali verso l'Erario e volendo monetizzarli in tempi brevi senza attendere il previsto rimborso, si fa volontariamente carico, in virtù di un contratto di accollo, del debito di altri (c.d. accollati) i quali, sulla base della convenzione con il creditore d'imposta, riescono a risparmiare una percentuale variabile delle imposte dovute.

Avendo l'accollante, nel caso specifico, proceduto al pagamento dei debiti fiscali mediante compensazione, ex art. 17 del D.Lgs. n. 241/97, con crediti d'imposta inesistenti, è stato ritenuto responsabile del delitto di cui all'art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000 poiché commesso, a parere dei giudici di Piazza Cavour, attraverso “l'elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale”, ovvero mediante forme di evasione particolarmente complesse ed elaborate.

Inoltre, la compensazione de qua, avvenuta a seguito del c.d. accollo fiscale, è stata ritenuta illegittima in quanto, non essendo stata realizzata tra i medesimi soggetti titolari delle posizioni debitorie e creditorie, non è apparsa normativamente disciplinata.

In tale contesto, giova, infatti, precisare che l'istituto dell'accollo del debito d'imposta è ammesso, in ambito tributario, in forza dell'art. 8, co. 2, della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Disposizioni in materia di Statuto dei diritti del Contribuente), pur senza liberazione del contribuente originario; nello specifico, con l'accollo si determina la nascita di un'obbligazione di garanza nei confronti del Fisco da parte dell'accollante, che diviene suo debitore coobbligato.

Tuttavia, il primo comma di tale articolo non preclude il ricorso alla compensazione, sebbene quest'ultima, così come attualmente disciplinata dall'art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997, non contempli il caso dell'accollo.

E tenuto conto che la compensazione in materia tributaria è ammessa, derogando le disposizioni del codice civile, soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge, tale principio non può essere in nessun modo superato e/o forzato dalla previsione contenuta nell'art. 8, co. 8, dello Statuto dei diritti del contribuenti, il quale, pur rinviando alla disciplina regolamentare l'estensione di tale istituto ai tributi per i quali non era contemplato a decorrere dall'anno di imposta 2002, conferma in via transitoria le disposizioni vigenti in materia di compensazione.

Alle medesime conclusioni è giunta la stessa Agenzia delle Entrate, la quale, con risoluzione n. 140/E del 15 novembre 2017, ha ritenuto non legittimo il pagamento dei debiti fiscali mediante compensazione con crediti d'imposta a seguito del c.d. accollo fiscale in quanto, oltre al fatto che il D.Lgs. n. 241/1997 non fa alcun accenno a quest'ultimo, la compensazione deve avvenire tra i crediti e debiti relativi al medesimo soggetto.

Tale operazione, dunque, non consentita dalla legge, è stata ritenuta dalla predetta Agenzia elusiva e, nel caso in cui si concretizzi in comportamenti fraudolenti e simulatori tali da determinare un omesso versamento di imposte superiore alle soglie di punibilità, assume una valenza penalmente rilevante.

Sulla base delle considerazioni soprammenzionate, ne deriva che l'autore del reato de quo ricopra contemporaneamente la figura di debitore coobbligato in forza di titolo negoziale (in quanto, come precedentemente accennato, l'accollo non è liberatorio per il debitore originario) e di creditore ed è chiamato a rispondere per il danno cagionato all'Erario, rappresentato dal quantum dell'indebita compensazione, a prescindere dal rapporto di debito originario tra debitore (accollato) e Fisco.

Responsabilità del consulente fiscale

Dai soggetti attivi del reato non è stato di certo escluso neppure il consulente fiscale.

Infatti, la Suprema Corte, con la pronuncia n. 1999 del 14 novembre 2017, già in precedenza citata, ha esteso la responsabilità per il reato di cui all'art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000 anche al professionista che, domiciliatario di varie società beneficiare dell'indebita compensazione, si è interposto nella condotta fraudolenta, ideando e commercializzando i c.d. “modelli di evasione fiscale”.

Nel caso di specie, la condotta delittuosa si è concretizzata con l'indebita compensazione, per milioni di euro, di debiti (derivanti da precedenti operazioni di accollo fiscale) con crediti tributari inesistenti mediante la trasmissione telematica di molteplici modelli F24.

A parere della Corte di Cassazione, infatti, il professionista risponde a titolo di concorso “ordinario”, ex art. 110 c.p., nel reato unitamente al proprio cliente, risultando l'ispiratore della frode e avendo assunto un ruolo attivo e di vero e proprio “regista”, anche nel caso in cui a trarre profitto dal reato sia stato solo il cliente. Dunque, ad essere richiesta è una condotta dolosa del consulente fiscale che si configura nell'essere cosciente del fatto di porre in essere un'operazione fraudolenta e/o comunque nell'averla suggerita o organizzata.

Tale consapevolezza è difficilmente negabile, tenuto conto che il professionista diversamente da un normale cliente che si affida alle prestazioni di terzi, è tenuto ad assolvere ai normali obblighi di controllo, anche formale, tra cui l'apposizione del visto di conformità, previsto dagli artt. 1, comma 574, della Legge n. 147/2013 e 35, co. 1, lett. a) del D.Lgs. n. 241/97. Il rilascio di tale visto, con cui il professionista attesta la corrispondenza formale dei dati confluiti nelle dichiarazioni fiscali con le risultanze delle scritture contabili, è comunque obbligatorio per certificare i crediti, inseriti nelle dichiarazioni relative all'anno, nel caso in cui quelli utilizzati in compensazioni orizzontali siano di importo superiore ai 5.000 euro.

L'apposizione del visto di conformità comporta, d'altro canto, una serie di responsabilità, con pesanti sanzioni nel caso di violazioni fino ad arrivare anche alla sospensione della facoltà di poterlo rilasciare. In tale contesto, appare impensabile che il professionista, curando la contabilità dei propri clienti, non sia a conoscenza dei crediti dal momento della loro formazione fino al loro utilizzo e /o non si accorga, in sede di compilazione “tecnica” e di trasmissione del modello F24 (suoi adempimenti), della frode fiscale.

Inoltre, la giurisprudenza di legittimità non esclude che a carico del professionista si possa configurare un'ipotesi di “concorso qualificato” e che lo stesso possa essere chiamato a rispondere anche dell'aggravante di cui all'art. 13-bis del D.Lgs. n. 74/2000, ovvero del fatto che il reato sia stato commesso nell'esercizio dell'attività di consulenza fiscale attraverso l'elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale.

In tale circostanza, sono richiesti duepresupposti, uno di carattere soggettivo e l'altro oggettivo.

Con riguardo al requisito soggettivo, sebbene l'aggravante di specie faccia riferimento all'incarico svolto da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario, la nozione di “professionista” non è stata limitata esclusivamente ai soggetti di cui all'art. 7 del D.Lgs. n. 241/1997, ovvero quelli abilitati dall'Agenzia delle Entrate alla presentazione delle dichiarazioni, ma è stata intesa, nella Relazione n. 111/5/2015 sulla revisione del sistema sanzionatorio, elaborata dall'Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione, “in senso sostanziale”, e, dunque, comprensiva di chiunque, nell'esercizio della propria professione, svolga attività di consulenza fiscale (commercialisti, consulenti, avvocati).

Dal punto di vista oggettivo, invece, è richiesta, seppure non disciplinata normativamente in maniera espressa, una certa “serialità” della condotta incriminata, intesa come sua abitualità e ripetitività, nonché riproducibilità in futuro; tale circostanza appare desumibile anche dalla locuzione “elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione”, ove per modelli di evasione, di fronte al silenzio normativo, si intendono quegli schemi di evasione articolati e complessi, potenzialmente replicabili e applicabili ad una molteplicità di casi analoghi.

Appare sicuramente evidente la forte esposizione all'azione penale del professionista, che potrebbe anche essere destinatario di una misura cautelare reale. Infatti, come ha avuto modo di osservare la Suprema Corte nella sentenza di gennaio, nel caso di concorso di persone nel reato l'imputazione dell'intera azione delittuosa e dell'effetto conseguente è posta in capo a ciascun concorrente e il sequestro non è collegato “all'arricchimento personale di ciascuno dei correi, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell'illecito”.

Ne deriva che, una volta venuta meno la possibilità di sequestrare l'originario profitto del reato, il sequestro preventivo per equivalente finalizzato alla confisca ex art. 12-bis del D.Lgs. n. 74/2000, può essere disposto, entro i limiti quantitativi del suddetto profitto, anche nei confronti del predetto professionista, ispiratore della frode fiscale.

In conclusione

Dal quadro sopra delineato, si assiste ad una ferma e convinta risposta sanzionatoria da parte del Legislatore che tenta di contrastare, nella maniera più efficace possibile, un reato, quale quello di indebita compensazione, che, a differenza delle altre fattispecie delittuose, ricomprese all'interno del D.Lgs. n. 74/2000 e poste a contrasto della c.d. evasione da riscossione, risulta molto più insidioso in quanto difficilmente individuabile dall'Amministrazione finanziaria.

Infatti, tale condotta non appare immediatamente percepibile (diversamente dagli omessi pagamenti delle ritenute e dell'IVA) se non al termine di complesse attività di selezione e controllo, nonché di indagini di polizia giudiziaria. L'interesse dello Stato ad una pronta riscossione delle imposte, compromesso dal predetto reato, verrebbe vanificato nel caso in cui soggetto attivo del delitto in esame venisse considerato, in maniera riduttiva, il solo contribuente. Includere tra i soggetti agenti anche la figura del debitore accollante e soprattutto, a titolo di concorso ordinario e qualificato, quella del professionista, significa, ad avviso di chi scrive, estendere il raggio d'azione del contrasto all'uso fraudolento ed elusivo di istituti giuridici, quali la compensazione, che risultano consentiti e legittimi purché non utilizzati in frode alla legge.

D'altro canto, è innegabile come l'attenzione sul tema, oggetto del presente approfondimento, sia veramente molto alta.

In tal senso, con la Legge di Bilancio 2018, ovvero con la Legge 27 dicembre 2017, n. 205, è stato previsto l'inserimento del comma 49-ter all'art. 37 del D.L. n. 223/2006, attribuendo all'Agenzia delle Entrate, a decorrere dal 1º gennaio 2018, la possibilità di sospendere, fino a trenta giorni, l'esecuzione delle deleghe di pagamento, di cui agli artt. 17 e ss. del D.Lgs. n. 241/1997, contenenti compensazioni che presentano profili di rischio.

Con il Provvedimento n. 195385/2018 del 28 agosto 2018 del Direttore dell'Agenzia delle Entrate, sono stati specificati i criteri e le modalità di attuazione di tale procedura di sospensione del modello F24, che è stata avviata a partire dallo scorso 29 ottobre.

Come si comprende, si tratta di una manovra finalizzata a contrastare ab origine il fenomeno delle indebite compensazioni di crediti d'imposta, la quale si colloca in piena sintonia con le intenzioni del Legislatore, espressamente manifestate in ambito penale.

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