Tutela dei figli nati fuori dal matrimonio e art. 3 l. n. 219/2012: ordine del giudice o procedimento stragiudiziale?
17 Dicembre 2018
Massima
In materia di mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio, il versamento diretto da parte del debitore del genitore inadempiente ai sensi dell'art. 3, comma 2,l. n. 219/2012 può essere ottenuto all'esito di un procedimento stragiudiziale analogo a quello previsto dall'art. 8, comma 3, l. n. 898/1970. Il caso
La ricorrente si è rivolta al Tribunale di Genova chiedendo che venisse ordinato all'INPS ai sensi dell'art. 3, comma 2, l. n. 219/2012 di versarle direttamente l'assegno che, a seguito di un decreto emesso dal Tribunale per i minorenni, il resistente avrebbe dovuto corrisponderle quale contributo al mantenimento della bambina nata dalla loro relazione. Il Collegio ha quindi esaminato le diverse opzioni derivanti dalla formulazione (oggettivamente ambigua) della norma che, nel prevedere un ordine da parte del giudice «sembra delineare un procedimento giudiziale, analogo a quello previsto in materia di separazione dall'art. 156, comma 6, c.c.», mentre nel fare riferimento alla normativa prevista dall'art. 8 l. n. 898/1970 «sembra delineare un procedimento stragiudiziale, analogo a quello previsto in materia di divorzio». Nella prospettiva di un'interpretazione “ortopedica”, guidata dai principi di effettività della tutela e di ragionevole durata del procedimento, il Tribunale di Genova ha così evidenziato che «l'unica opzione ermeneutica possibile è quella di ritenere che l'inciso “il giudice può ordinare” sia frutto di una mera “svista” del legislatore». Tenuto conto della ratio legis, volta ad equiparare la tutela dei figli nati fuori dal matrimonio rispetto a quelli concepiti entro una relazione coniugale, il Collegio ha quindi ritenuto che il versamento diretto da parte del terzo previsto dall'art. 3, comma 2, l. n. 219/2012 possa essere ottenuto all'esito di un procedimento stragiudiziale analogo a quello previsto nell'ambito dell'art. 8, l. n. 898/1970. La questione
Ci si domanda quale sia lo strumento tramite il quale ottenere il pagamento diretto da parte del terzo di quanto dovuto dal genitore inadempiente per il mantenimento del figlio nato fuori del matrimonio. In altri termini, occorre rivolgersi preventivamente al Giudice (come nella separazione personale) oppure è possibile instaurare una procedura stragiudiziale (come per il divorzio)? Le soluzioni giuridiche
L'entrata in vigore della l. 10 dicembre 2012, n.219 «Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali» e del successivo d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 «Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione», nonostante il più che condivisibile intento del legislatore di equiparare la tutela tra i figli concepiti fuori dal matrimonio e quelli nati da una relazione coniugale, ha suscitato un amplissimo dibattito derivante dalla formulazione talora ambigua se non contraddittoria di numerose tra le disposizioni concretamente approvate. L'interpretazione di alcune norme è stata sin dall'inizio oggetto di ampie e spesso aspre discussioni tra gli operatori del diritto (basti pensare alla peculiare formulazione dell'art. 38 disp. att. c.c. ed ai conseguenti dubbi in ordine al riparto di competenze tra giudice ordinario e tribunale per i minorenni), mentre altri aspetti sono stati approfonditi soltanto all'esito di un esame più ponderato da parte della giurisprudenza e della dottrina. Per quanto riguarda in particolare la tutela dei diritti patrimoniali dei figli nati fuori dal matrimonio, sono ancora discussi i rapporti tra il procedimento disciplinato dagli artt. 337-bis ss. c.c. e il particolare rito di competenza presidenziale già regolato dall'art. 148 c.c., oggi trasfuso senza alcuna modifica nell'art. 316- bis c.c. (secondo taluni rimasto a regolare le ipotesi in cui vengano evocati in giudizio i soli ascendenti, secondo altri fruibile anche qualora s'intenda disciplinare soltanto il mantenimento dei minori da parte dei genitori e non anche il loro affidamento). Deve poi rammentarsi che la tutela azionabile a fronte dell'eventuale inadempimento dei provvedimenti già emessi dal tribunale ai sensi degli artt. 337-bis ss. c.c. non è individuabile all'interno delle indicate disposizioni, bensì risulta prevista dall'art. 3, comma 2, l. n. 219/2012, che non è stato trasfuso all'interno della normativa codicistica. La concreta formulazione di tale disposizione pone inoltre all'interprete evidenti difficoltà, in particolar modo quando sia necessario rivolgersi a soggetti terzi tenuti a corrispondere somme in favore del genitore inadempiente: la norma prevede infatti espressamente che «il giudice può ordinare» a tali soggetti il versamento diretto di somme in favore dell'altro genitore, seguendo modalità identiche a quelle previste nell'ambito della separazione tra coniugi dall'art. 156, comma 6, c.c., ma poi indica che tutto ciò deve avvenire «secondo quanto previsto dall'art. 8, comma 2 ss., legge 1 dicembre 1970, n. 898», che notoriamente consente al genitore adempiente di agire direttamente nei confronti del terzo debitore attraverso le modalità specificamente indicate nella norma, prescindendo da qualsiasi ordine del giudice. Le prime pronunce adottate dalla giurisprudenza di merito hanno privilegiato un'interpretazione letterale della disposizione, con il conseguente ordine al datore di lavoro o all'istituto di previdenza di erogare l'assegno direttamente in favore del genitore ricorrente. È tuttavia emerso in seguito un diverso orientamento secondo cui, nella prospettiva di una migliore tutela dei figli nati fuori dal matrimonio (oltre che di un'auspicabile deflazione dei procedimenti giudiziali), dovrebbe essere privilegiata un'interpretazione sostanzialmente abrogativa della prima parte della disposizione, ritenuta «frutto di una mera “svista” del legislatore»: sarebbe quindi possibile agire direttamente in executivis secondo modalità analoghe a quelle previste dall'art. 8, l. n. 898/1970. Il contrasto giurisprudenziale sopra accennato costituisce classico esempio delle difficoltà che incontra l'interprete a fronte di disposizioni contraddittorie, frutto di evidenti sviste del legislatore. Qualora l'impropria formulazione di una norma determini una violazione di principi costituzionali, tra i quali deve annoverarsi anche il criterio di ragionevolezza intrinseca discendente dall'art. 3 Cost., spetta infatti al giudice sperimentare qualsiasi «soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei prospettati dubbi di legittimità costituzionale e tale da determinare il loro superamento o da renderli comunque non rilevanti nel procedimento a quo» (leggasi da ultimo Corte cost., 21 febbraio 2018, n. 91). Occorre tuttavia comprendere quali siano i limiti del potere interpretativo del giudice e se in particolare, secondo quanto prospettato nel provvedimento in commento, sia possibile pervenire ad un'interpretazione espressamente qualificata come “ortopedica”, così “rimuovendo le ambiguità letterali causate da sviste del legislatore”. I giudici genovesi fondano in particolare la propria opzione ermeneutica sull'esame dei lavori parlamentari (che si erano inizialmente ispirati alla normativa in materia di separazione per poi discostarsene attraverso l'esplicito riferimento alla legge n. 898/1970), ma anche sull'assunto secondo cui l'interruzione di un rapporto di convivenza dovrebbe assimilarsi più ad un divorzio che non ad una separazione, valorizzando da ultimo i principi di «effettività della tutela e di ragionevole durata dei procedimento», in forza dei quali «sono da preferire le soluzioni che consentano di deflazionare il numero complessivo dei procedimenti pendenti». Osservazioni
A sommesso avviso della scrivente, è dovere del giudice tentare qualsiasi possibile opzione ermeneutica al fine di ridurre a razionalità una normativa evidentemente ambigua, senza tuttavia pervenire ad una sostanziale disapplicazione di quanto espressamente previsto dal legislatore: è del resto superfluo rammentare che nel nostro ordinamento il giudice comune, ove non riesca a fare applicazione di una determinata disposizione se non violando i principi sanciti dalla nostra Carta, non potrà semplicemente disapplicare la norma, ma dovrà rimettere la questione alla Corte Costituzionale, ovvero all'unico giudice cui spetta valutare l'effettiva rispondenza della legislazione ordinaria rispetto ai principi sanciti dalla Costituzione. Nel caso di specie, risulta difficilmente superabile l'espressa e letterale previsione di un ordine del giudice, con la conseguente necessità di instaurare a tal fine il procedimento di volontaria giurisdizione presupposto dall'art. 3, comma 2, l. n. 219/2012. Anche la ratio del complessivo intervento normativo in esame, volto ad assicurare pari tutela a tutti i figli in coerenza con i principi della nostra Carta, non impone di individuare quale inderogabile parametro di riferimento la normativa sul divorzio: la stessa Corte costituzionale, in particolare, aveva già ritenuto adeguatamente tutelante lo schema procedimentale previsto dall'art. 156, comma 6, c.c. che, seppure disciplinato «nel procedimento di separazione dei coniugi in un contesto diverso dalla convivenza e dalla filiazione naturale», costituisce comunque «una forma di attuazione del principio di responsabilità genitoriale, il quale postula il tempestivo soddisfacimento delle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello status», tanto da ritenerlo applicabile nel sistema normativo previgente anche a tutela dei figli nati fuori dal matrimonio (cfr. Corte cost. 7 aprile 1997, n. 99). Ove si condividesse l'opzione dei giudici genovesi, assicurando ai figli nati da una relazione more uxorio la medesima tutela prevista nell'ambito del divorzio, si determinerebbe del resto una ulteriore disparità di trattamento, questa volta ai danni dei figli di genitori separati, la cui tutela continua ad essere garantita mediante il procedimento giudiziario previsto dall'art. 156, comma 6, c.c.. |