Note processuali sul “decalogo” della Cassazione in tema di danno non patrimoniale

Antonino Barletta
08 Gennaio 2019

Il dictum di cui a Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2018, n. 7513 è preordinato a “mettere ordine” sotto il profilo lessicale e concettuale in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, ispirandosi innanzitutto ad un metodo di tipo dichiaratamente esegetico. A tali precisazioni fanno seguito talune considerazioni, per così dire, “a cascata” valevoli anche sul piano processuale, su cui intendiamo in questa sede soffermarci.
Natura di “fatto costitutivo” le circostanze che giustificano la personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale?

Il dictum di cui a Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2018, n. 7513 è preordinato a “mettere ordine” sotto il profilo lessicale e concettuale in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, ispirandosi innanzitutto ad un metodo di tipo dichiaratamente esegetico. A tali precisazioni fanno seguito talune considerazioni, per così dire, “a cascata” valevoli anche sul piano processuale, su cui intendiamo in questa sede soffermarci.

Nel citato arresto, in particolare, la Cassazione si interroga su cosa debba intendersi per “danno dinamico-relazionale” alla persona sulla base dei dati emergenti dalla disciplina positiva. Tale indagine è stata condotta alla luce dell'interpretazione dell'analoga espressione utilizzata agli artt. 13 d.lgs. n. 38 del 2000 e 5 l. n. 57 del 2001 (successivamente abrogato a fronte dell'entrata in vigore dell'art. 139 cod. ass.) e dalla relativa regolamentazione secondaria e in particolare dall'allegato 1 del d.m. 3 luglio 2003. Ad esito della suddetta ricostruzione la Cassazione ha ritenuto che la locuzione ‘danno dinamico-relazionale' costituisca normalmente una mera perifrasi della nozione di ‘danno biologico' e che ciò trovi conferma nell'orientamento prevalente tra gli studiosi di medicina legale e nella relativa letteratura.

Nell'enunciare i corollari di quanto così acquisito si è esclusa l'autonoma risarcibilità del “danno dinamico-relazionale” rispetto a quello alla salute e si è affermato che una menomazione permanente riconducibile alla nozione di “danno biologico” non possa comportare normalmente una maggiorazione della liquidazione, aumentando il risarcimento in considerazione degli aspetti dinamico relazionali, in quanto tale pregiudizio generalmente viene assorbito in quello a cui si fa riferimento con l'espressione “danno biologico”. La c.d. personalizzazione necessita, secondo la Cassazione, di un riferimento a “conseguenze straordinarie”, le quali richiedono una tempestiva allegazione da parte del danneggiato e in sede decisoria una motivazione analitica da parte del giudice.

Sul piano processuale, infine, la S.C. deduce che «le circostanze di fatto che giustificano la personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale integrano un ‘fatto costitutivo' della pretesa, e devono essere allegate in modo circostanziato e provate dall'attore (ovviamente con ogni mezzo di prova, e quindi anche attraverso l'allegazione del notorio, delle massime di comune esperienza e delle presunzioni semplici …), senza potersi, peraltro, risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche».

Per altro verso, nessuno dei “principi” di seguito esposti nel “decalogo” fa riferimento esplicitamente alla domanda di risarcimento. Invece la S.C. si è limitata a specificare (i) al numero 3 del decalogo che nella liquidazione del danno non patrimoniale il giudice deve pronunciarsi esaminando «tutte le conseguente dannose dell'illecito» ed evitando però di attribuire denominazioni diverse ai medesimi pregiudizi, nonché (ii) al numero 4 che il giudice deve procedere ad «un articolato e approfondito accertamento, in concreto e non in astratto, dell'effettiva sussistenza dei pregiudizi affermati (o negati) dalle parti», sulla base di ogni mezzo di prova, nonché dando rilievo a fatti notori, massime di esperienza e presunzioni, ma senza ricorrere ad automatismi risarcitori.

Il riferimento al carattere “costitutivo” delle circostanze necessarie per la “personalizzazione” del danno non patrimoniale è evidentemente preordinato ad una maggiore responsabilizzazione dell'attore, in vista dei rigorosi accertamenti e del consistente obbligo motivazionale ravvisato in materia dalla Cassazione, al fine di evitare “automatismi” sul piano della liquidazione del danno non patrimoniale.

Tale pronuncia si raccorda con l'indirizzo più intransigente della giurisprudenza di legittimità in punto di contenuto essenziale (e di validità) della domanda risarcitoria, secondo cui l'attore deve descrivere in modo specifico i pregiudizi dei quali chiede il ristoro, senza limitarsi a formule vuote e stereotipe come la richiesta di risarcimento dei “danni subiti e subendi” o analoghe (Cass. civ., sez. III, 30 giugno 2015, n. 13328; Cass. civ., sez. III, 12 ottobre 2012,n. 17408; Cass. civ., sez. III, 18 febbraio 2012, n. 691 – su tale per nulla univoco indirizzo v. però i nostri Incertezze e contrasti sul contenuto minimo della domanda risarcitoria e sulla validità della domanda estesa a “tutti i danni”: a quando un intervento delle Sezioni Unite? e La domanda di risarcimento del danno non patrimoniale e le preclusioni processuali applicabili in tema di allegazione e prova, entrambi in Ridare.it). In ispecie, la sentenza n. 13328 del 2015 della S.C. ha esplicitato il seguente convincimento sul contenuto minimo richiesto ai fini della validità della domanda risarcitoria: «L'art. 163, comma 2, nn. 3 e 4 c.p.c. impone all'attore di esporre, nell'atto di citazione: - la determinazione della cosa oggetto della domanda; - i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda. In tema di risarcimento del danno da fatto illecito o da inadempimento contrattuale, la ‘cosa' oggetto della domanda è il pregiudizio di cui si invochi il ristoro, e gli ‘elementi di fatto' costitutivi della pretesa sono rappresentati dalla descrizione della perdita che l'attore lamenti di avere patito. L'adempimento dell'onere di allegare i fatti costitutivi della pretesa è preordinato: (a) a consentire al convenuto l'esercizio del diritto di difesa; (b) a consentire al giudice di individuare il thema decidendum. L'attore dunque non ha certamente l'onere di designare con un preciso nomen iuris il danno di cui chiede il risarcimento; né ha l'onere di quantificarlo al centesimo: tali adempimenti non sono infatti strettamente necessari né per delimitare il thema decidendum, né per mettere il convenuto in condizioni di difendersi. L'attore ha invece il dovere di indicare analiticamente e con rigore i fatti materiali che assume essere stati fonte di danno. E dunque in cosa è consistito il pregiudizio non patrimoniale; in cosa è consistito il pregiudizio patrimoniale; con quali criteri di calcolo dovrà essere computato. Questo essendo l'onere imposto dalla legge all'attore che domanda il risarcimento del danno, ne discende che una richiesta di risarcimento dei ‘danni subiti e subendi', quando non sia accompagnata dalla concreta descrizione del pregiudizio di cui si chiede il ristoro, va qualificata generica ed inutile. Generica, perché non mette né il giudice, né il convenuto, in condizione di sapere di quale concreto pregiudizio si chieda il ristoro; inutile, perché tale genericità non fa sorgere in capo al giudice il potere-dovere di provvedere».

A parere di chi scrive le ricostruzioni contenute nelle due pronunce della S.C. n. 13328/2015 e n. 7513/2018 sono strettamente collegate. La “conseguenza processuale” menzionata in quest'ultima pronuncia presuppone, infatti, l'assunto secondo cui il pregiudizio di cui si chiede il risarcimento non può essere solo allegato nella fase di trattazione (da una qualunque delle parti), essendo bensì necessario secondo la S.C. che sia l'attore – sin dalla fase introduttiva – a delineare tutti i fatti che (almeno nella prospettiva dello stesso attore) consentano la liquidazione del danno. Di qui la conseguenza secondo cui, a fronte dell'eccezionale autonomo rilievo del danno “dinamico-relazionale”, l'attore non possa limitarsi in una mera affermazione circa la sua sussistenza, dovendo appunto constare anche la deduzione, quali fatti costitutivi, delle circostanze che consentano la quantificazione del danno risarcibile, rendendo così possibile la c.d. personalizzazione.

La questione che s'intende esaminare è se tale qualificazione in chiave “costitutiva” dei fatti rilevanti ai fini della personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale sia compatibile con il ruolo che le Sezioni Unite hanno attribuito al giudice proprio in sede di liquidazione del danno, là dove – al di là della potestà di operare la corretta qualificazione giuridica del danno nell'ambito della decisione sulla sua risarcibilità alla stregua del principio iura novit curia – si osserva che «è compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative… si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione» (Cass. civ., Sez. Un. n. 26972/2008).

La funzione della domanda risarcitoria e (i limiti del)la responsabilizzazione dell'attore ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale

La posizione rigorista in punto di validità della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, implicitamente ribadita da Cass. civ., n. 7513/2018, si espone al rischio di sovrapporre profili attinenti all'applicazione del c.d. principio dispositivo sostanziale, che si esplica principalmente nell'atto introduttivo dell'attore e attiene alla definizione dell'oggetto del giudizio e alla individuazione del thema decidendum, e aspetti concernenti all'applicazione del principio di trattazione, che si ricollega all'introduzione dei fatti su cui il giudice è chiamato soltanto a formarsi un convincimento ai fini della pronuncia sul diritto, sulla base delle prove legittimamente acquisite al processo, salva la possibilità di ricorrere ai fatti notori, alle massime di comune esperienza (sulla distinzione tra principio dispositivo c.d. sostanziale e principio di trattazione v. per tutti C. CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale, I, Torino, 2015, 17 e 133 ss.).

Tale sovrapposizione è di particolare evidenza in relazione ai rilievi contenuti in Cass. civ., n. 13328 del 2015, la quale nel tentativo di corroborare la posizione rigorista in materia di validità della domanda risarcitoria – secondo cui è nulla la domanda che non contenga la “concreta descrizione del pregiudizio” – si richiama alla simmetria tra l'onere di contestazione, posto a carico del convenuto, e quello di allegazione gravante sull'attore, osservata da Cass. civ., Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353, anche sotto il profilo della specificità dell'onere di allegazione (Cass. civ., sez. III, 12 ottobre 2012, n. 17408; Cass. civ., sez. III, 13 maggio 2011, n. 10527), giacché quest'ultimo è evidentemente speculare all'onere di specifica contestazione enunciato dall'art. 115 c.p.c. Ed analogo rilievo può essere mosso in relazione a Cass. civ., n. 7513 del 2018 alla luce di quanto si è affermato ai numeri 3 e 4 del decalogo.

Per individuare il contenuto minimo richiesto ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p.c. ai fini della validità della domanda risarcitoria occorre muovere dalla specifica funzione dell'atto introduttivo del giudizio in discorso nel quadro delle relazioni processuali che si realizzano tra l'attore e gli altri soggetti del processo. Tale funzione consiste nella richiesta di un provvedimento di condanna al pagamento di somma pecuniaria, che rappresenta l'incremento patrimoniale diretto a reintegrare una diminuzione patrimoniale (danno patrimoniale) o compensare un pregiudizio non economico (danno non patrimoniale). Ed è ben vero che la domanda risarcitoria non possa prescindere dalla descrizione del concreto pregiudizio, ossia della lesione di un diritto soggettivo, di un interesse legittimo o comunque di una situazione giuridica fondamentale occorsa nell'ambito di un dato evento storico, a fronte della condotta lesiva posta in essere dal danneggiante. L'affermazione di tale lesione, tuttavia, non costituisce affatto la “cosa” oggetto della domanda, bensì la causa petendi della richiesta del provvedimento di condanna al risarcimento (petitum), ricomponendo tutti gli elementi riferibili rispettivamente ai nn. 4 e 3 dell'art. 163, comma 3, c.p.c. e consentendo al giudice di identificare il proprio dovere decisorio ai sensi dell'art. 112 c.p.c. e al convenuto di difendersi nell'esplicazione del diritto al contraddittorio ai sensi dell'art. 101 c.p.c.

Dunque, per utilizzare le espressioni comunemente in uso alla giurisprudenza, il nucleo essenziale della domanda risarcitoria consiste essenzialmente nell'affermazione del c.d. danno-evento, ossia delle circostanze concrete in cui si è realizzata la lesione delle situazioni giuridicamente rilevanti identificate dall'attore e a cui si ricollega la richiesta risarcitoria, non nell'allegazione dei fatti rilevanti solo per determinare la specifica consistenza del danno patrimoniale o non patrimoniale (c.d. danno-conseguenza). Ed infatti secondo l'orientamento tuttora prevalente in punto di preclusioni processuali le circostanze rilevanti in relazione alla liquidazione del danno non sono riferibili alla nozione di causa petendi della domanda risarcitoria (cfr. F. PICARDI, Onere di allegazione e prova del danno patrimoniale e non patrimoniale, § Le allegazioni relative al danno, in Ridare.it).

A tali differenti nozioni di danno fanno riferimento le due diverse tipologie di accertamento riguardanti il nesso di causalità (i.e. la causalità “materiale” e quella “giuridica”), con le quali si designa ora la relazione tra la condotta del responsabile e l'accadimento lesivo, ora l'ambito dei danni risarcibili (cfr. L. BERTI, Il nesso di causa nella responsabilità civile, in Ridare.it).

Occorre rammentare che la distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza – di cui non vi è traccia in Cass. civ., n. 7513 del 2018 – è imprescindibile tanto ai fini della riaffermata unitarietà del danno non patrimoniale (cfr. le c.d. sentenze a Sezioni Unite di San Martino nn. 26972-26975 del 2008), quanto per evitare di far scivolare la stessa funzione del risarcimento nell'applicazione di una sanzione civile per un comportamento lesivo di un interesse giuridicamente tutelato (cfr. Corte cost., 27 ottobre 1994, n. 372; nonché da ultimo Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015, n. 15350).

Per altro verso, si deve notare come la giurisprudenza conferisca un particolare rilievo alla sola vicenda storica in cui si è determinato l'illecito (e non certo a quelle rilevanti ai fini della determinazione del danno risarcibile) nell'applicazione del c.d. divieto di frazionamento della (unitaria) domanda di risarcimento. E ciò pure nell'ipotesi in cui a fronte delle medesime circostanze si verifichino una pluralità di lesioni giuridiche (Cass. civ., sez. III, 29 giugno 2018, n. 17019; Cass. civ., sez. IV, 21 ottobre 2015, n. 21318; Cass. civ., sez. III, 22 dicembre 2011, n. 28286, massimata da Cass. civ., n. 21318/2015, nella parte che più rileva in questa sede, come segue: “In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, non è consentito al danneggiato, in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito, riferito alle cose ed alla persona, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande, parcellizzando l'azione extracontrattuale”). A questo proposito sono particolarmente significative le considerazioni svolte da Cass. civ., sez. III, 29 giugno 2018, n. 17019, secondo cui la proposizione di una domanda risarcitoria avente ad oggetto i soli danni materiali patiti dal danneggiato, seguita a due anni di distanza da una domanda relativa al risarcimento dei danni alla persona cagionati in relazione al medesimo sinistro, comporti il rischio di «duplicare inutilmente ed in contrasto con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, ex art. 111 Cost. – ove si fosse ritenuta l'ammissibilità della domanda –, sia l'attività del giudice adito, sia della stessa parte convenuta».

Si badi, peraltro, che gli accertamenti compiuti dal giudice in relazione al c.d. danno-evento non sono affatto circoscritti al contenuto minimo richiesto ai fini della validità della domanda risarcitoria. Certo all'attore spetta affermare la sussistenza della causalità materiale, ma sicuramente non spetta a quest'ultimo l'individuazione di ogni circostanza rilevante in ordine al suo accertamento ai fini del giudizio di merito, sulla base delle regole concernenti gli oneri di allegazione e della prova. Difatti, se ordinariamente tali oneri sono posti a carico dell'attore (tra le più recenti cfr. Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2015, n. 10244), non mancano fattispecie in cui si assiste ad un sostanziale rovesciamento di tali oneri a carico del convenuto: come in relazione all'ipotesi della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria o da contatto sociale del medico, ove la Cassazione ha avuto modo di statuire in più occasioni che l'onere del paziente- danneggiato è limitato all'allegazione e alla prova del contratto o del contatto sociale, dell'insorgenza o dell'aggravamento della patologia in rapporto causale con l'intervento medico, nonché all'allegazione del comportamento del (presunto) responsabile, che abbia i caratteri dell'astratta idoneità a provocare il danno lamentato, rimanendo invece a carico del convenuto l'onere di dimostrare che nessun addebito possa in concreto essere mosso a quest'ultimo in termini di scarsa diligenza o imperizia (tra le ultime Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2015, n. 5590).

Per altro verso, il canone della responsabilizzazione dell'attore-danneggiato nel giudizio risarcitorio non si esaurisce affatto nella definizione del thema decidendum ai sensi dell'art. 163 c.p.c. Nell'accertamento della causalità giuridica, la stessa natura del danno-conseguenza spiega la peculiare coesistenza dell'onere posto in capo all'attore con la funzione assegnata al giudice in sede di liquidazione, specialmente in relazione all'accertamento del danno non patrimoniale (cfr. Cass. civ., Sez. Un., nn. 26972-26975/2008). È proprio in questo ambito che trova applicazione il monito delle Sezioni Unite secondo cui «è compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative… si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione» (Cass. civ., Sez. Un. n. 26972/2008).

La responsabilizzazione dell'attore opera solo nel caso in cui al processo non risultino acquisiti gli elementi di fatto che consentano al giudice di procedere alla liquidazione, indipendentemente dall'eventuale inerzia dell'attore. Il riferimento al “pregiudizio allegato” deve essere colto cioè alla luce del principio di acquisizione, quale naturale limite all'esercizio dei poteri ufficiosi del giudice – riferibili in primis alla regola di cui all'art. 1226 c.c.entro ciò che risulta dalle allegazioni e delle prove versate nel processo da tutte le parti (e non dal solo attore).

Il ruolo del giudice in punto di liquidazione del danno e la potestà “dispositiva”, relativa alla definizione dell'oggetto del giudizio risarcitorio

La peculiarità della domanda risarcitoria si ricollega essenzialmente al fatto che la causa petendi corrisponde a una situazione lesiva, in relazione al cui accertamento sono normalmente più ampie le prerogative ufficiose riconosciute al giudice; a ciò è correlata la possibilità che il petitum consista anche solo in una generica richiesta di tutti i danni riferibili a tale lesione (cfr., amplius il nostro Extra e ultra petizione. Studio sui limiti del dovere decisorio del giudice civile, Milano, 2012, 226 ss. e passim). Il che trova uno specifico riscontro normativo, riguardo alla fase di quantificazione del danno, nella previsione di cui all'art. 1226 c.c.

Di qui la validità della domanda di risarcimento estesa a “tutti i danni”, la quale è correlata al principio dell'unitarietà del diritto al risarcimento e al suo riflesso processuale, rappresentato dall'ordinaria non frazionabilità del giudizio risarcitorio (cfr. Cass. civ., sez. III, 29 giugno 2018, n. 17019; Cass. civ., sez. IV, 21 ottobre 2015, n. 21318; Cass. civ., sez. III, 22 dicembre 2011, n. 28286; Cass. civ., sez. III, 22 agosto 2007, n. 17873; Cass. civ., sez. III, 26 febbraio 2003, n. 2869; Cass. civ., sez. III, 27 ottobre 1998, n. 10702). È infatti proprio da quest'ultima prospettiva che emerge chiaramente come la domanda risarcitoria, relativa ad un certo evento lesivo, non possa che riferirsi a tutti i danni risarcibili cagionati al danneggiato (che il giudice può in concreto e obiettivamente accertare) e non solo a quelli analiticamente descritti nell'atto introduttivo, salvo il limite di quanto allegato e provato dalle parti (e non solo dall'attore): «quando un soggetto agisce in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni da lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta» (così Cass. civ., sez. III, n. 17873/2007, cit.; su tale orientamento cfr., inoltre, il nostro Frazionamento della domanda di adempimento o di risarcimento e abuso del processo, in Ridare.it). In altre parole, nel richiedere il risarcimento di “tutti i danni” l'attore non fa altro che esplicitare in sede processuale ciò che è connaturato nella conformazione sostanziale del diritto fatto valere, potendo invece riferirsi al principio dispositivo la limitazione del giudizio ad alcune voci soltanto di danno, a cui consegue normalmente la rinuncia a far valere le voci di danno non richieste: “il principio dell'unitarietà del diritto al risarcimento del danno, comportando l'infrazionabilità del giudizio di liquidazione, da una parte esige che la liquidazione abbia luogo in un unico processo, e dall'altra preclude, di regola, una successiva domanda di liquidazione delle voci di danno non comprese nell'originaria domanda. Mentre si può ammettere una diversa definizione dell'oggetto del giudizio (e del successivo giudicato) solo quando sia esclusa la potenzialità della domanda a coprire tutte le possibili voci di danno, allorché ciò si riferisca ad una volontà inequivoca, idoneamente manifestata sin dall'instaurazione o nel corso del processo (Cass. civ., sez. III, n. 17873/2007 cit., Cass. civ., 2869/2003, cit.), purché la domanda “limitata” sia supportata da un interesse oggettivamente apprezzabile (Cass. civ., sez. III, 29 giugno 2018, n. 17019, cit.; nello stesso senso cfr. già il nostro Incertezze e contrasti sul contenuto minimo della domanda risarcitoria e sulla validità della domanda estesa a “tutti i danni”: a quando un intervento delle Sezioni Unite?, cit.).

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