L'onere della prova nel licenziamento discriminatorio

Francesco Meiffret
10 Gennaio 2019

Il lavoratore che esercita la azione a tutela dalla discriminazione può limitarsi a fornire elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico (relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti) - idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori, spettando in tal caso al convenuto l'onere della prova sulla insussistenza della discriminazione.
Il caso.

Una lavoratrice si opponeva con ricorso ex art. 1, comma 52, l n. 92 del 2012, all'ordinanza del Tribunale di Milano con la quale era stata confermata la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro.

La ricorrente, nella fase di opposizione, riproponeva le censure già rassegnate durante la prima fase del c.d. rito Fornero. In particolar modo eccepiva la discriminatorietà del licenziamento poiché il datore di lavoro aveva predisposto unilateralmente nuovi turni di lavoro che non si conciliavano con le sue esigenze familiari, madre di due figli di cui uno affetto da grave disabilità.

In secondo luogo lamentava l'assenza della volontarietà nel mancato rispetto dei nuovi orari di lavoro poiché questi non erano ancora stati ufficializzati dalla società ed erano oggetto di trattative con le varie associazioni sindacali, tra le quali quella alla quale la ricorrente era iscritta e che l'aveva rassicurata sulla possibilità di proseguire a fornire la propria prestazione lavorativa in base alla precedente turnazione.

Censurava, inoltre, la possibilità di poter intimare un licenziamento disciplinare poiché in base al CCNL applicato (si precisa che la ricorrente rientra nel campo di applicazione dell'art. 18, l. n. 300 del 1970) la condotta sarebbe stata punibile con la multa, mentre, sempre secondo il contratto collettivo, il licenziamento disciplinare avrebbe richiesto come presupposto “una insubordinazione verso i superiori accompagnata da un comportamento oltraggioso”.

La società resisteva evidenziando come nessuna condotta discriminatoria fosse stata perpetrata ai danni della ricorrente la quale, nonostante le problematiche familiari esistenti e conosciute dal datore, aveva ottenuto negli anni un regolare avanzamento di carriera.

Rilevava che dalla documentazione prodotta risultava evidente che la ricorrente fosse a conoscenza della modificazione dei turni di lavoro e che, quindi, non li avesse volontariamente rispettati.

Oltre a tali deduzioni rimarcava la gravità dell'altro fatto posto alla base del licenziamento disciplinare intimato. La ricorrente aveva rivolto, nel reparto mensa, dinnanzi a tutti i dipendenti, una frase ingiuriosa (“mi avete rotto i c…”) alla propria superiore sbattendo, nel contempo, un vassoio.

Le questioni

In tema di licenziamento discriminatorio sussiste un onere probatorio o di allegazione a carico del lavoratore che impugna il licenziamento lamentandone la sua discriminatorietà?

Nel rapporto di lavoro a tempo pieno rientra nel potere organizzativo direttivo del datore di lavoro la possibilità di modificare unilateralmente i turni di lavoro?

Soluzioni giuridiche

La sentenza in esame conferma quanto deciso nella precedente ordinanza ritenendo legittimo il licenziamento intimato per giusta causa.

Innanzitutto evidenzia come nemmeno nella fase di opposizione siano stati forniti elementi dai quali sia possibile desumere che il datore di lavoro abbia posto condotte discriminatorie nei confronti della ricorrente.

Invero l'istruttoria nella c.d. fase a cognizione piena ha confermato come il datore di lavoro avesse cercato di soddisfare buona parte delle richieste della lavoratrice dettate da esigenze familiari. A ciò aggiungasi che le difficoltà familiari delle ricorrente non avevano influito sull'avanzamento di carriera all'interno dell'impresa.

Dalla lettura delle motivazioni della sentenza si evince che la ricorrente non ha fornito elementi precisi e concordanti dai quali sia possibile presupporre un comportamento discriminatorio nei suoi confronti facendo ricadere, quindi, sul datore di lavoro l'onere di dimostrare l'insussistenza della discriminatorietà (sul punto si veda Cass., sez. lav., 5 aprile 2016, n. 6575).

Per quanto riguarda la modifica dei turni di lavoro la ricorrente in sede di interrogatorio aveva confermato di essere a conoscenza della modifica dei turni di lavoro. La scelta, quindi, di non rispettare i turni stabiliti dall'azienda era stata un'insubordinazione volontaria. A ciò aggiungasi, che tutti i testi escussi durante l'istruttoria avevano confermato che la ricorrente in sala mensa dinnanzi ai colleghi si fosse rivolta in maniera irrispettosa ad un proprio superiore.

Per questi motivi le condotte della ricorrente integrano l'ipotesi di licenziamento disciplinare prevista dalla contrattazione collettiva consistente in “insubordinazione verso i superiori accompagnata da un comportamento oltraggioso”.

In relazione alla modifica dei turni di lavoro il Giudice afferma che nel caso di contratti di lavoro a tempo pieno la diversa collocazione oraria della prestazione lavorativa rientra nella manifestazione del potere organizzativo riconosciuto al datore di lavoro e garantito dall'art. 41, Cost. (Cass., sez. lav., 22 gennaio 1987, n. 587).

Osservazioni

La sentenza in commento offre lo spunto per una breve riflessione sulle due questioni affrontate, licenziamento discriminatorio e potere organizzativo, più specificamente, per quanto riguarda il secondo punto, la possibilità per il datore di lavoro di modificare unilateralmente la collocazione oraria della prestazione lavorativa nel caso di rapporto di lavoro a tempo pieno.

Senza avere alcuna pretesa di esaustività, per licenziamento discriminatorio si intende il recesso intimato dal datore di lavoro e determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza del lavoratore ad un sindacato, da ragioni attinenti al sesso, alla razza o da altro motivo illecito (art.3,l.n.108 del 1990; art.4,l.n.604 del 1966; art.15,l.n.300 del 1970). La sentenza mostra di aderire all'orientamento consolidatosi nell'ultimo decennio che distingue nettamente la fattispecie licenziamento discriminatorio da quello ritorsivo che si verifica quando la ragione alla base del licenziamento è la reazione del datore di lavoro ad un comportamento legittimo del lavoratore.

Parte della giurisprudenza (ad es. Cass., sez. lav., 18 marzo 2011, n. 6282; Cass., sez. lav., 8 agosto 2011, n. 17087) aveva sovrapposto le due fattispecie al fine di estendere le tutele previste per il licenziamento discriminatorio anche all'ipotesi di licenziamento ritorsivo.

Questa impostazione è stata abbandonata dalla giurisprudenza più recente (sul punto si veda Cass., sez. lav., 5 aprile 2016, n. 6575; nel merito Corte d'appello Roma, sez. lav., 30 gennaio 2018). Il licenziamento ritorsivo è stato ricollegato all'art. 1345, c.c., mentre quello discriminatorio trova la sua definizione nella normativa antidiscriminatoria interna ed europea.

La completa separazione delle due fattispecie ha avuto un notevole impatto pratico sulla loro applicazione come risulta anche dalla sentenza in commento.

Sulla spinta del diritto comunitario, nel licenziamento discriminatorio non deve essere presa in considerazione la volontà o meno del datore di lavoro di discriminare: è condizione necessaria e sufficiente l'effettiva esistenza di una discriminazione senza che rilevi l'elemento intenzionale.

Ciò che il lavoratore deve allegare è che, a causa delle sue scelte o della sua condizione, è stato trattato in maniera differente rispetto ad un soggetto che si sia trovato in analoga situazione.

Come rileva il Giudice della sentenza in commento, il lavoratore deve offrire in giudizio elementi precisi e concordanti dai quali si possa presupporre un comportamento discriminatorio. A quel punto l'onere probatorio ricade sul datore di lavoro che deve dimostrare l'assenza di discriminatorietà. Nel caso di specie il Giudice conferma che non è stato soddisfatto dalla lavoratrice tale onere di allegazione. I turni orari erano stati cambiati a tutti, quindi non c'era stato alcun elemento idoneo a far presupporre un comportamento diverso nei suoi confronti volta a discriminarla in quanto madre di due figli. Nemmeno lo sviluppo della carriera della ricorrente all'interno dell'azienda era stato inferiore rispetto quello degli altri dipendenti.

Nel licenziamento ritorsivo il lavoratore deve dimostrare, invece, il motivo illecito del datore che lo intende “punire” a fronte di un suo comportamento lecito. A ciò aggiungasi che il motivo ritorsivo deve essere l'unico che ha giustificato il licenziamento. L'esclusività dell'intento ritorsivo costituisce un'altra differenza rispetto al licenziamento discriminatorio nel quale la discriminazione inficia la validità del licenziamento anche nel caso in cui concorrono altri motivi o finalità lecite a giustificazione del medesimo recesso (cfr. ad es. Trib. Milano, sez. lav., 27 luglio 2018, n. 2162).

Nell'escludere comportamenti discriminatori a danno della ricorrente, il Giudice evidenzia che rientra nel potere organizzativo del datore di lavoro la scelta di modificare la collocazione oraria della prestazione lavorativa del lavoratore assunto a tempo pieno.

Su questo punto il Giudicante, al di là di un richiamo ad una massima che affronta la medesima questione, non si è dilungato nel motivare perché non sollecitato dalla difesa del ricorrente.

Se è incontestabile che la collocazione oraria della prestazione lavorativa è manifestazione del potere organizzativo, è stato rilevato dalla giurisprudenza di merito (Trib. Torino, sez. lav., 23 febbraio 2016; Trib. Milano, sez. lav., 23 settembre 2014) che la modifica unilaterale da parte del datore di lavoro deve basarsi sui criteri di correttezza e buona fede e sull'esigenza aziendale dedotta. Senza potersi sostituire nelle scelte del datore di lavoro, il Giudice avrebbe dovuto valutare se la modifica unilaterale dei turni di lavoro rispettava i criteri di correttezza e buona fede e se sussisteva un nesso causale con l'esigenza aziendale indicata di avere una continua presenza sul luogo di lavoro di almeno un coordinatore, profilo lavorativo al quale apparteneva la ricorrente.