Danni da cane randagio: è responsabile il Comune solo se ne è provata la colpa
21 Gennaio 2019
Massima
Ai fini dell'affermazione della responsabilità per i danni cagionati da un animale randagio, non basta che la normativa regionale individui nel Comune il soggetto avente il compito di controllo e di gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi, occorrendo che chi si assume danneggiato, in base alle regole generali, alleghi e dimostri il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall'ente e la riconducibilità dell'evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria, in base ai principi sulla causalità omissiva. Il caso
A seguito dell'impatto dell'auto guidata da G.T. con un cane randagio, parte di un branco, sulla strada provinciale 95, a circa 4 km dal centro abitato di M., G.T. riportava danni fisici ed all'auto, dei quali chiedeva il risarcimento alla Provincia Regionale di Siracusa, convenuta in giudizio dinanzi al Giudice di Pace di Siracusa. Avendo la Provincia eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, l'attore veniva autorizzato a chiamare in causa il Comune di M. Il Giudice di Pace rigettava la domanda attorea, ritenendo che sulla Provincia di Siracusa non gravasse l'obbligo di recintare le proprie strade e che il Comune di M., ai sensi dell'art. 2043 c.c., dovesse considerarsi esente da responsabilità, avendo provato di avere assolto l'obbligo di vigilanza sui cani randagi. L'attore proponeva appello dinanzi al Tribunale di Siracusa, il quale riteneva ricorrente la responsabilità del Comune, non avendo esso provato in maniera adeguata di avere adempiuto l'obbligo di repressione e prevenzione del randagismo, e lo condannava a risarcire i danni subiti da Giuseppe Triglia oltre alla refusione delle spese processuali. Il Comune di M. (SR) propone ricorso per cassazione. La questione
La questione della quale è investita la Suprema Corte attiene all'individuazione dell'onere della prova nell'azione di responsabilità intentata nei confronti del Comune per i danni cagionati da animali randagi. Le soluzioni giuridiche
La questione viene risolta dalla Suprema Corte attraverso il richiamo ai precedenti giurisprudenziali nei quali è stato fatto carico al danneggiato di individuare, non in astratto, bensì in concreto, il comportamento colposo ascritto all'amministrazione comunale. Non basta, infatti, che la normativa regionale individui nel Comune il soggetto (o meglio: uno dei soggetti) avente il compito di controllo e di gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi (tra le più recenti cfr. Cass. civ., 28 giugno 2018, n. 17060; Cass. civ., 14 maggio 2018, n. 11591; Cass. civ., 31 luglio 2017, n. 18954), occorrendo che chi si assume danneggiato, in base alle regole generali, alleghi e dimostri il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall'ente e la riconducibilità dell'evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria, in base ai principi sulla causalità omissiva. A tale conclusione la giurisprudenza perviene dopo avere inquadrato la fattispecie in oggetto nell'alveo dell'art. 2043 c.c. L'applicazione della lex aquilia impone, infatti, che la responsabilità dell'ente si affermi solo previa individuazione del concreto comportamento colposo ad esso ascrivibile e cioè che gli siano imputabili condotte, a seconda dei casi, genericamente o specificamente colpose che abbiano reso possibile il verificarsi dell'evento dannoso. Entro questo perimetro va verificato il tipo di comportamento esigibile volta per volta e in concreto dall'ente preposto dalla legge al controllo e alla gestione del fenomeno del randagismo, sì da dedurne la eventuale responsabilità sulla base dello scarto tra la condotta concreta e la condotta esigibile, quest'ultima individuata secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l'alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo. Ciò che deve essere allegato e provato dal danneggiante attiene a quelle circostanze dalle quali possa emergere che l'attraversamento della strada da parte di un animale randagio, pur essendo un evento puramente naturale e, dunque, astrattamente prevedibile, fosse anche evitabile in quel determinato momento ed in quella particolare situazione con uno sforzo proporzionato alle capacità dell'agente. Diversamente, se, per affermarne la responsabilità, bastasse l'individuazione dell'ente preposto alla cattura dei randagi ed alla custodia degli stessi, la fattispecie cesserebbe di essere regolata dall'art. 2043 c.c. e finirebbe per essere del tutto disancorata dalla colpa, introducendosi, così, una figura di responsabilità, non prevista dalla legge e sottoposta a principi analoghi, se non addirittura più rigorosi, di quelli previsti per le ipotesi di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2051, 2052 e 2053 c.c. La Suprema Corte, nella ordinanza in rassegna, esemplifica alcune circostanze che il danneggiato potrebbe allegare e provare in fattispecie del tipo di quella oggetto di giudizio, e cioè il fatto che era stata segnalata al comune la presenza abituale di animali randagi nel luogo dell'incidente, lontano dalle vie cittadine, ma rientrante nel territorio di competenza dell'ente preposto, ovvero che vi fossero state nella zona richieste d'intervento dei servizi di cattura e di ricovero, demandati alla ASL e al Comune, rimaste inevase. Al danneggiato che agisce in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni cagionati da animali randagi spetta, dunque, di allegare e provare tutte le circostanze di fatto che siano indicative del comportamento colposo della P.A.
Osservazioni
L'ordinanza si segnala – oltre che per le opportune precisazioni in punto di onere della prova – anche per l'inquadramento giuridico della fattispecie nell'alveo dell'art. 2043 c.c. Al riguardo, è importante evidenziare che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass. civ., 28 giugno 2018, n. 17060; Cass. civ., 31 luglio 2017, n. 18954), la responsabilità per i danni causati dagli animali randagi deve ritenersi disciplinata dalle regole generali di cui all'art. 2043 c.c. e non dalle regole di cui all'art. 2052 c.c., che non sono applicabili in considerazione della natura stessa di detti animali e dell'impossibilità di ritenere sussistente un rapporto di proprietà o di uso in relazione ad essi, da parte dei soggetti della pubblica amministrazione preposti alla gestione del fenomeno del randagismo In ordine all'individuazione del soggetto passivamente legittimato nell'azione di risarcimento dei danni cagionati da animali randagi si deve, poi, registrare un contrasto giurisprudenziale. Una prima tesi (Cass. civ., 3 aprile 2009, n. 8137) afferma la necessità di verificare caso per caso la disciplina regionale, onde desumere dagli specifici criteri di ripartizione tra Comune e ASL i rispettivi compiti di prevenzione del randagismo. La conseguenza è che soltanto l'ente gravato da determinati comportamenti preventivi andrà ritenuto responsabile per l'omissione dei medesimi. Di fatto, l'istituzione che risulta il più frequentemente titolata ai compiti di controllo e di contenimento del fenomeno (e su cui, quindi, si innestano le relative forme di responsabilità) è l'ASL locale. Un secondo, più rigido orientamento (Cass. civ., 23 agosto 2011, n. 17528; Cass. civ., 28 aprile 2010, n. 10190) – al quale sembra aderire l'ordinanza in rassegna - propende, invece, per la necessaria attribuzione della responsabilità solidale in capo al Comune. Alla base dell'assunto sta la convinzione che se l'ente sanitario è di certo il più immediatamente coinvolto nel contenimento del fenomeno, il secondo è, purtuttavia, gravato da rilevanti obblighi di controllo e di vigilanza del territorio, che non possono affatto considerarsi interrotti anche a seguito della maggiore autonomia (giuridico-processuale) guadagnata dalle ASL.
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