La nuova legge anticorruzione: alla ricerca dell'efficacia perduta nella lotta al malaffareFonte: L. 9 gennaio 2019 n. 3
21 Gennaio 2019
Abstract
Tra le iniziative di maggiore rilievo adottate dal Governo in carica vi è sicuramente l'approvazione, dopo un tormentato iter parlamentare, della legge 3 del 9 gennaio 2019 (pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 13 del 16 gennaio 2019), volta a rendere più incisivo il contrasto alle diverse forme di corruzione, sia in ambito pubblico che tra privati. Le linee generali della legge
Con l'enfasi che caratterizza, non da ieri, la presentazione mediatica di iniziative legislative in materia di giustizia – siano esse di matrice governativa o parlamentare – il nuovo testo di legge è stato denominato “spazzacorrotti”, a sottolineare l'intendimento di dare concretezza alle promesse di lotta al malaffare manifestate dai partiti che compongono l'attuale compagine di governo, anche durante la recente campagna elettorale. La vicenda parlamentare dell'iniziativa non è stata certo lineare: tant'è che, nel sottoporre il testo al Senato (dopo che a Montecitorio il disegno di legge, presentato nello scorso mese di settembre, era stato votato con alcune modifiche), si era deciso di proporre un maxiemendamento al testo che, in realtà, ne operava addirittura un'integrale riscrittura; dichiarata ammissibile la procedura dalla Presidenza di Palazzo Madama, il testo è stato poi approvato ed è tornato alla Camera, per la definitiva approvazione in seconda lettura. Nell'originaria stesura, la Relazione introduttiva al testo di legge, presentato dal Ministro Bonafede, precisava che lo scopo del D.D.L. era anche quello di accogliere alcune raccomandazioni del Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO) e dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), completando il percorso di adeguamento della normativa interna a quella convenzionale (sul punto v., diffusamente, UBIALI, Presentato alla Camera il nuovo disegno di legge in materia di corruzione (c.d. spazzacorrotti), in Dir. pen. cont.). Più in particolare, nella Relazione si fa riferimento al fatto che «il 18 giugno 2018 il GRECO – organismo istituito dal Consiglio d'Europa nel 1999 – ha approvato, nella sua ottantesima assemblea plenaria, l'Addendum al Secondo rapporto di conformità sull'Italia»; e che in tale occasione il predetto organismo ha constatato che «in tema di “incriminazioni”, delle nove raccomandazioni formulate» nei confronti dell'Italia nel precedente rapporto del terzo ciclo di valutazione, «otto rimangono attuate solo in parte e una non è stata attuata»: fra queste, oltre ad altre questioni in corso di esame separato nell'ambito di distinte iniziative legislative, vi sono alcune criticità alle quali il nuovo testo di legge si ripromette di porre rimedio, ossia: «1) le norme del codice penale che prevedono la necessità della richiesta del Ministro della giustizia o della denuncia della persona offesa per il perseguimento dei reati di corruzione commessi all'estero; 2) i vuoti di penalizzazione con riguardo alle condotte aventi a oggetto: la corruzione attiva e passiva dei pubblici ufficiali stranieri; la corruzione (attiva e passiva) dei funzionari delle organizzazioni internazionali; la corruzione (attiva e passiva) dei membri delle assemblee parlamentari internazionali e dei giudici e funzionari delle corti internazionali; 3) l'esclusione dall'ambito del penalmente rilevante della condotta di chi offre o promette il vantaggio al millantatore di influenza; 4) il mantenimento, anche a seguito delle modifiche all'articolo 2635 del codice civile (Corruzione tra privati) introdotte dal decreto legislativo 15 marzo 2017, n. 38, della condizione di procedibilità della querela, fatta eccezione per le ipotesi in cui dalla condotta corruttiva derivi una distorsione della concorrenza nell'acquisizione di beni o servizi». Il testo definitivo della legge, rispetto al D.D.L. originariamente presentato, presenta diverse novità. Innanzitutto esso si presenta, graficamente, come un articolo unico, costituito da 30 commi: il che ne rende meno agevole la consultazione rispetto alle prime versioni dell'articolato presentate durante i lavori parlamentari, che erano suddivise in più articoli, raggruppati in capi. Nel merito, il testo originariamente presentato è stato fra l'altro integrato con taluni importanti interventi su disposizioni processuali (riguardanti soprattutto il regime delle intercettazioni), nonché con alcune dirompenti disposizioni in materia di prescrizione dei reati, che già hanno fatto e sicuramente faranno ancora molto discutere e che, a ben vedere, pur risultando in un certo senso in linea con la logica complessivamente rigoristica che ispira l'articolato, non risultano pertinenti alla specifica tematica della lotta anticorruzione. A parte tale aspetto, sul quale si dirà infra, va subito detto che il testo normativo non manca di alcuni aspetti tutto sommato interessanti, almeno nelle premesse e negli intendimenti da cui esso muove. Questo anche se non mancano “ombre”, puntualmente segnalate in corso d'opera dalla dottrina; e del resto va ribadito che ben difficilmente la lotta alla corruzione può essere combattuta in modo davvero efficace solo attraverso riforme legislative pur caratterizzate da intenti meritori, come quella in commento, essendo a tal fine imprescindibili una presa di coscienza etica e un salto di qualità culturale negli ambienti e nei settori della società a vario titolo interessati al fenomeno. Quindi, con la consapevolezza che le aspettative e le speranze di moralizzazione della vita pubblica non possono essere affidate a una riforma, può se non altro auspicarsi che siano ben riposte le speranze in una maggiore incisività degli strumenti repressivi, preventivi e investigativi in materia di contrasto alle diverse forme di corruzione pubblica e privata. Questo anche se – come si è accennato e come si vedrà oltre – non mancano, in alcune parti dell'articolato, novità che potrebbero non corrispondere alle attese sul piano dell'efficacia e dell'utilità nella lotta alla corruzione, o che potrebbero ingenerare problemi sul piano interpretativo-applicativo. La nuova legge, a parte alcune disposizioni integrative e di raccordo, affronta in estrema sintesi i seguenti temi:
La Relazione illustrativa al testo originario annunciava che il disegno di legge «propone, in ambito penale, due direttrici d'intervento, che si muovono sul piano del diritto sostanziale e su quello investigativo e processuale», nella consapevolezza che «l'effettività di un'incriminazione dipende non solo dalla formulazione delle fattispecie incriminatrici e dall'entità della pena edittale, ma anche dagli strumenti d'indagine e dai poteri di accertamento che l'ordinamento mette a disposizione degli organi inquirenti e dell'autorità giudiziaria per perseguire efficacemente i reati». Nell'attuale formulazione, come si è detto, il testo si è arricchito di contenuti e, pur mantenendo fermo l'impianto originario, ha accolto alcune novità significative. Procediamo con ordine, esaminando di seguito le disposizioni relative ai suddetti argomenti. Le modifiche al codice penale (e all'ordinamento penitenziario), relative al sistema sanzionatorio e ad alcune statuizioni accessorie
A parte quanto si dirà infra a proposito del regime della prescrizione, la parte dell'articolato dedicata alle modifiche che incidono sul diritto sostanziale, parzialmente finalizzate a corrispondere alle raccomandazioni del GRECO, interviene prevalentemente – ma non esclusivamente – su alcune disposizioni del codice penale che disciplinano in particolare i delitti contro la P.A. (non soltanto quelli dei pubblici ufficiali); non mancano però novità riguardanti le ipotesi di corruzione tra privati disciplinate dal codice civile, nonché altre disposizioni incriminatrici riguardanti altre categorie di reati. Va subito detto che, una volta tanto, l'intento dissuasivo che caratterizza la nuova legge non si risolve unicamente in un inasprimento delle pene principali, che vengono aumentate solo in un circoscritto novero di ipotesi. Il più rilevante intervento indirizzato in questo senso è costituito dall'innalzamento degli estremi edittali del delitto di corruzione per l'esercizio della funzione di cui all'art. 318 c.p.: una figura criminosa risalente alla legge Severino (l. n. 190/2012) che disciplina una pluralità di fattispecie, da quelle un tempo riconducibili alla nozione di corruzione impropria a quelle che integrano le più gravi ipotesi di asservimento o di messa a libro paga del pubblico funzionario e, più in generale, di mercimonio della pubblica funzione (cfr. ARDENGHI, Corruzione per l'esercizio della funzione, in CANESTRARI-CORNACCHIA-DE SIMONE, Manuale di Diritto Penale, parte speciale- Delitti contro la Pubblica Amministrazione, Il Mulino, 2015, 156 ss.; nel senso della problematicità di far confluire in un'unica fattispecie criminosa una pluralità di comportamenti caratterizzati da un assai differenziato disvalore sembra esprimersi TORTORELLI, Le singole fattispecie delittuose, in FIORE – AMARELLI, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, contro la Pubblica amministrazione, Padova, 2018, p. 159). Inasprendo ulteriormente il trattamento sanzionatorio (compreso ora fra tre e otto anni di reclusione, dunque sensibilmente più severo di quello introdotto con la legge 69/2015), la riforma intende all'evidenza rendere più problematico l'accesso al patteggiamento e il riconoscimento dei benefici di legge, oltre agli effetti sulla prescrizione. Ulteriori aumenti di pena previsti dalla nuova legge riguardano il delitto di appropriazione indebita di cui all'art. 646 c.p., oltreché, in misura più lieve, quello di indebita percezione delle erogazioni di cui all'art. 316-ter c.p. qualora posto in essere dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri; vi è inoltre un tendenziale inasprimento del minimo edittale in alcune particolari ipotesi di abuso d'ufficio. Può poi segnalarsi, tra le novità indotte dalle raccomandazioni del GRECO, l'estensione a nuove ipotesi delle condotte di peculato, concussione, induzione indebita, corruzione e istigazione alla corruzione di soggetti operanti in organismi sovranazionali (art. 322-bis c.p.): estensione che riguarda i delitti commessi da determinate figure di funzionari extra Ue (in specie la novella si riferisce a «persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell'ambito di organizzazioni pubbliche internazionali», nonché ai «membri delle assemblee parlamentari internazionali o di un'organizzazione internazionale o sovranazionale e dei giudici e funzionari delle corti internazionali»); nelle ipotesi di cui al secondo comma, n. 2, ossia qualora il fatto sia commesso offrendo danaro o altra utilità a persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio nell'ambito extra Ue, ai membri delle assemblee parlamentari internazionali o ai giudici e funzionari delle corti internazionali, viene invece eliminata la condizione della commissione del reato «per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali ovvero al fine di ottenere o di mantenere un'attività economica o finanziaria». In questo modo si va ad incidere, comunque, sulla nozione stessa di pubblica amministrazione e di pubblico funzionario, già estesa con l'inserimento di organismi e funzionari operanti in ambito Ue (sulla problematicità di tale estensione vds. recentemente ALBERICO, Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri, in FIORE – AMARELLI, I delitti dei pubblici ufficiali cit., pp. 211 ss.) e che oggi, attraverso l'aggiunta di nuovi potenziali soggetti attivi e di nuovi possibili destinatari delle condotte sanzionate, viene ad ampliarsi ulteriormente. Infine vi è la già accennata rimodulazione del delitto di traffico d'influenze illecite, cui il Legislatore provvede rendendo punibile l'acquirente dell'influenza anche nel caso in cui la relazione tra il mediatore e il pubblico agente sia puramente vantata e non reale; rendendo penalmente rilevante anche la mediazione volta a far compiere al pubblico ufficiale un atto conforme ai doveri d'ufficio; ed infine estendendo a qualsiasi altra utilità la contropartita della mediazione illecita; contestualmente la legge dispone l'abrogazione (e l'assorbimento) del delitto di millantato credito (reato di cui già in passato si era ipotizzata la sostituzione con quello di traffico d'influenze: cfr. LOSAPPIO, Traffico di influenze illecite, in CANESTRARI-CORNACCHIA-DE SIMONE, Manuale di Diritto Penale cit., pp. 352 ss.) e con un lieve ritocco verso l'alto - anche in questo caso - della pena edittale. Tuttavia, come sottolineato dal Ministro proponente già nel testo originario della sua Relazione, «il disegno di legge muove dalla consapevolezza che il potenziamento degli strumenti di contrasto del malaffare dilagante non può esaurirsi nell'inasprimento sanzionatorio, destinato a rimanere privo di effettività se non accompagnato da efficaci strumenti di prevenzione e accertamento dei reati». Perciò, piuttosto che affidarsi a un generalizzato incremento delle pene edittali (ricetta fin troppo spesso utilizzata in passate esperienze legislative), il disegno di legge mira essenzialmente a favorire una maggiore incisività degli strumenti preventivi ed investigativi, oltreché repressivi, non senza cercare di incentivare comportamenti resipiscenti e collaborativi da parte di chi ha commesso alcuni reati (si vedrà all'atto pratico con quali risultati). L'intento che anima il Legislatore si scorge fin dall'esordio, con l'esclusione delle condizioni di procedibilità della querela o dell'istanza della persona offesa e della richiesta del Ministro, in relazione ad alcuni reati contro la P.A., qualora gli stessi siano commessi all'estero dal cittadino italiano o dallo straniero. Può apparire pleonastico il richiamo all'istanza o alla querela della persona offesa in relazione a reati in cui il soggetto giuridico offeso è la pubblica amministrazione; ma, in definitiva, l'intento programmatico resta quello di sottrarre comunque tali categorie di reati a qualsiasi condizione di procedibilità, nel rispetto delle indicazioni fornite dal GRECO. Anche in altre disposizioni – in linea, anche in questo caso, con le raccomandazioni di fonte sovranazionale – si interviene sulla procedibilità: vengono infatti abrogate le previsioni che rendevano perseguibili a querela i reati di corruzione tra privati (art. 2635 c.c.) e di istigazione alla corruzione tra privati (art. 2635-bis c.c.). Come si vedrà oltre, anche le disposizioni modificative del d.lgs. n. 36/2018 (relative ad alcuni reati contro il patrimonio) eliminano in certi casi la condizione di procedibilità costituita dalla querela. Ma è in particolare sul versante delle pene accessorie che l'intervento legislativo appare molto deciso. L'art. 1, comma 1, lettera c) della legge estende i casi di incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione ad alcuni reati di sicuro allarme sociale, come il peculato, la corruzione in atti giudiziari, il traffico d'influenze illecite (che come si è detto viene ora riformulato, assorbendo fra l'altro il delitto di millantato credito); mentre l'inserimento, nel catalogo di reati in esame, dell'art. 452-quaterdecies c.p. si spiega con il fatto che questa nuova fattispecie di reato (introdotta dall'art. 3 del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21 concernente Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell'articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103) sostituisce quella a suo tempo prevista dall'art. 260 d.lgs. 152/2006 (Testo unico sull'ambiente) che era presente nella precedente formulazione dell'art. 32-quater c.p.. Complementare alla predetta disposizione appare quella introdotta con l'art. 1, comma 1, lettera h), che contempla una possibile deroga al principio dell'estensione alle pene accessorie degli effetti della sospensione condizionale della pena, conferendo al giudice il potere discrezionale di escludere tale previsione in relazione a condanne per alcuni delitti contro la P.A. che comportino l'applicazione delle pene accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici e dell'incapacità di contrarre contro la P.A. In linea con tale approccio è poi l'esclusione degli effetti della riabilitazione sulle pene accessorie perpetue (salva la possibilità di dichiararne l'estinzione dopo sette anni qualora il condannato dia prove effettive e costanti di buona condotta: art. 1, comma 1, lettera i)); e a tal proposito va evidenziato che, tra le pene accessorie perpetue, rientrano anche quelle dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell'incapacità in perpetuo di contrattare con la P.A., estese dall'art. 1, comma 1, lettera m) a un più ampio catalogo di reati contro la pubblica amministrazione (il peculato, la concussione, le varie ipotesi di corruzione anche in atti giudiziari, l'induzione indebita a dare o promettere utilità, oltre al traffico d'influenze illecite riformulato) rispetto a quello previsto dal testo finora vigente dell'art. 317-bis, e per condanne superiori ai due anni (e non più ai tre anni) di reclusione (nel caso di condanne a pene inferiori per i suddetti reati, l'interdizione e il divieto temporanei non saranno comunque inferiori a cinque anni). Sono, questi, gli effetti di quello che è stato enfaticamente definito come il Daspo per i corrotti: una definizione che, pur non priva di efficacia mediatica, risulta del tutto impropria giacché, com'è stato opportunamente osservato (vds. CANTONE, D.D.L. Bonafede: rischi e opportunità per la lotta alla corruzione, in www.giurisprudenzapenale.com), il Daspo costituisce una misura di prevenzione, sia pure “atipica” (in proposito, volendo, vds. PAVICH-BONOMI, Daspo e problemi di costituzionalità, in Dir. pen. cont.), destinata a entrare in funzione quasi nell'immediatezza (e non al termine di un procedimento penale, come le pene accessorie in esame). Ulteriori novità di rilievo rispetto alle attuali previsioni del codice penale riguardano la possibilità, per gli organi di P.G., di ottenere in custodia giudiziale, per le proprie esigenze operative, i beni sequestrati in relazione a procedimenti per delitti contro la P.A. indicati all'art. 322-ter (art. 1, comma 1, lettera p)); e, soprattutto, la speciale causa di non punibilità di cui al novello art. 323-ter, per il soggetto che, dopo aver commesso alcuno dei reati di corruzione, turbata libertà degli incanti e induzione indebita a dare o promettere utilità indicati all'art, 1, lettera s), decida di collaborare e denuncia il reato prima di avere notizia che nei suoi confronti si stanno svolgendo indagini in relazione a tali fatti e, comunque, entro quattro mesi dalla sua commissione, fornendo altresì indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e individuarne gli altri responsabili, a condizione che il collaborante metta a disposizione le utilità e i guadagni illeciti da lui percepiti con la condotta criminosa. A tal proposito vi è chi, assai autorevolmente (T. PADOVANI, Lo spazza corrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Archivio Penale, n. 3/2018), oltre a esprimere forti perplessità sull'istituto in sé considerato (introdotto in passato nel contrasto al terrorismo e alla mafia, poi esteso ad altre tipologie di reato e già caldeggiato, nel 1994, in un'iniziativa finalizzata alla prevenzione dei fenomeni corruttivi, promossa da alcuni magistrati della Procura di Milano e da alcuni cattedratici), evidenzia che di fatto esso sembra votato alla paralisi, giacché ben difficilmente il corrotto o il corruttore potrebbero pensare di farsi avanti nello stretto – e per alcuni versi incerto – termine di decadenza previsto dalla riforma. La nuova causa di non punibilità, peraltro, si affianca alla speciale attenuante prevista dall'art. 323-bis come modificato dalla legge n. 69/2015, non soggetta a termini di decadenza ed anch'essa volta a “premiare” la resipiscenza di chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite. Gli istituti premiali appena richiamati (la nuova causa di non punibilità e l'attenuante speciale), pur andando incontro alle critiche di chi vi scorge una progressiva deriva verso una sorta di “diritto penale della delazione” (della quale si è fatto del resto già uso nella lotta ad altri fenomeni criminosi), muovono dal proposito di trovare il modo di rendere meno “impermeabili” all'attività d'indagine gli ambienti corrotti all'interno delle pubbliche amministrazioni; e in questo senso, a ben vedere, si muovono in una linea di coerenza con le recenti disposizioni in materia di whistleblowing (introdotte con la legge 30 novembre 2017, n. 179), miranti a tutelare da azioni ritorsive i pubblici ufficiali autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito del rapporto di lavoro. È stato invece eliminato il discusso emendamento Vitiello (dal nome del proponente, appartenente al Gruppo Misto), che pure era stato approvato in Assemblea con il concorso di alcuni deputati della maggioranza (si trattava della proposta emendativa n. 1.272. pubblicata nell'Allegato A del 20 novembre 2018). L'espunzione del testo proposto è stata disposta a seguito delle voci critiche levatesi contro l'intenzione di “derubricare” in un'ipotesi di abuso d'ufficio – sia pure con pena minima di due anni di reclusione - una condotta corrispondente a una fattispecie di peculato, consistente nell'appropriazione mediante distrazione, da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, di somme di denaro o di altra cosa mobile altrui delle quali costui avesse «il possesso o comunque l'autonoma disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, nell'ambito di un procedimento disciplinato da legge o regolamento che appartenga alla sua competenza». Completano il quadro altre previsioni riguardanti i reati contro il patrimonio e, in specie, l'estensione dei casi di perseguibilità d'ufficio (art. 649-bis c.p.) per i fatti, normalmente perseguibili a querela, preveduti dagli articoli 640, comma 3, 640-ter, comma 4, e per i fatti di cui all'articolo 646, comma 2, o aggravati dalle circostanze di cui all'articolo 61, primo comma, numero 11, c.p.; nonché il già accennato innalzamento della pena per il delitto di appropriazione indebita. Trattasi di disposizioni (modificative di quelle introdotte con il recente d.lgs. 36/2018) che, pur a loro volta ispirate da una logica rigorista coerente con l'intelaiatura della riforma, appaiono alquanto eccentriche rispetto al tema di fondo della nuova legge, costituito dalla lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione; ma di ciò, almeno per quanto riguarda gli interventi sul delitto di appropriazione indebita, la Relazione originaria fornisce una chiave di lettura, riferita al fatto che il reato p. e p. dall'art. 646 c.p. è strumento che consente comunemente «di formare provviste illecite utilizzabili per il pagamento del prezzo della corruzione», sì che la procedibilità d'ufficio delle ipotesi di maggiore gravità sarebbe coerente con la «prospettiva di un contrasto efficace non solo dei fenomeni corruttivi, ma anche delle attività prodromiche alla corruzione». Va infine dato conto di alcune modifiche apportate dalla nuova legge anche all'ordinamento penitenziario (l. 354/1975), sempre all'insegna dell'accentuato rigore sanzionatorio che ispira l'intera riforma. In primo luogo, ad integrazione di quanto disposto dall'art. 4-bis, la limitazione dei benefici carcerari dell'assegnazione al lavoro esterno, dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione si estende ai soggetti detenuti per i delitti di cui agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322 e 322-bis c.p.; correlativamente i suddetti benefici penitenziari possono essere invece concessi ai detenuti che collaborino con la giustizia nei casi di cui al secondo comma dell'art. 323-bis c.p. (che disciplina la speciale attenuante già menzionata supra). In secondo luogo, vengono escluse dagli effetti estintivi dell'esito positivo dell'affidamento in prova le pene accessorie perpetue (il riferimento è chiaramente anche a quelle di cui all'art. 317-bis c.p.). Gli interventi su alcuni istituti processuali
Alcune disposizioni della nuova legge introducono significative novità sul versante processuale, nel chiaro intento di rendere maggiormente efficace il contrasto al fenomeno della corruzione e nella consapevolezza della difficoltà di perseguire il disvelamento delle condotte in cui esso consiste. Viene in primo luogo abolito il secondo comma dell'art. 6 del d.lgs. 216/2017, attuativo della legge 103/2017 (c.d. riforma Orlando). In base a tale disposizione, riferita ai procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, era vietata l'intercettazione di comunicazioni tra presenti nei luoghi di privata dimora indicati dall'articolo 614 del codice penale mediante l'inserimento di un captatore informatico (c.d. trojan) su dispositivo elettronico portatile, qualora non vi fosse motivo di ritenere che ivi si stesse svolgendo l'attività criminosa. L'abrogazione della disposizione in esame fa quindi cadere un limite significativo all'utilizzo del captatore informatico, con riguardo a una categoria di reati per i quali era ben difficile che si presentassero situazioni tali da consentire l'impiego del controllo da remoto mediante trojan alla stregua della disposizione abrogata. È peraltro agevole prevedere che l'intervento abrogativo, consentendo l'espansione dell'impiego di un dispositivo assai criticato e invasivo (che non solo viene azionato “da remoto” ma viene anche installato a distanza), sarà assoggettato a pesanti censure (sulla questione, anche con riferimenti tecnici, vds. DI STEFANO – FIAMMELLA, Intercettazioni: remotizzazione e diritto di difesa nell'attività investigativa, Milano, 2018). Coerentemente con la citata disposizione, sono stati integrati il comma 2-bis dell'art. 266 c.p.p. (estensione dell'uso del captatore informatico ai delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. puniti con pena non inferiore nel massimo a cinque anni) e il primo comma dell'art. 267 c.p.p. (che prevede che, con riguardo alla medesima categoria di reati, il decreto autorizzativo indichi i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l'attivazione del microfono). Viene poi introdotta una nuova misura cautelare di tipo interdittivo (art. 289-bis), costituita dal divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione, che nel caso in cui si proceda per un delitto contro la P.A. può essere disposto anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall'art. 287, comma 1, c.p.p. Un altro settore d'intervento della nuova legge riguarda i rapporti fra il patteggiamento e le pene accessorie previste dall'art. 317-bis c.p., con specifico riferimento ai delitti di cui agli artt. 314 comma 1, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis c.p.. In primo luogo viene conferita all'imputato che chieda l'applicazione della pena per detti reati la facoltà di subordinare la richiesta all'esenzione dalle pene accessorie suddette (o all'estensione della sospensione condizionale anche a tali pene); al giudice che non intenda accogliere tale istanza viene attribuito il potere di rigettare la richiesta di patteggiamento. In secondo luogo, viene introdotta una deroga al principio enunciato dall'art. 445, comma 1, c.p.p. in base al quale, con il patteggiamento, non si fa luogo all'applicazione delle pene accessorie: il comma 1-ter dello stesso articolo, inserito con la novella in commento, prevede che il giudice (sempre con riferimento ai delitti di cui agli artt. 314 comma 1, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater comma 1, 320, 321, 322, 322-bis e 346-bis c.p.) possa applicare le pene accessorie previste dall'art. 317-bis c.p. (ossia l'interdizione dai pubblici uffici e l'incapacità di contrattare con la P.A.). È agevole prevedere che tale disposizione costituirà un incentivo a subordinare la richiesta di patteggiamento all'esenzione o alla sospensione delle pene accessorie, soprattutto considerando la gravosità di queste ultime nella disciplina del novellato art. 317-bis, onde evitare che il giudice, pur accogliendo la richiesta, ne faccia ugualmente applicazione. Con la modifica dell'art. 578-bis c.p.p. (introdotto dal recente d.lgs. 21/2018), si estende alla confisca di cui al novellato art. 322-ter c.p. la previsione, già valevole per le altre confische in casi particolari, in base alla quale il giudice d'appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell'imputato. L'art. 683 c.p.p., in tema di riabilitazione, viene poi modificato per raccordarne le previsioni con il novellato art. 179, comma 7, c.p. (come modificato dall'art. 1, comma 1, lettera i) della legge: v. supra). Di notevole rilievo, infine, è l'art. 1, comma 8, della nuova legge, in base al quale, ottemperando a quanto previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall'Assemblea generale dell'Onu il 31 ottobre 2003 (convenzione di Mérida), viene estesa la causa di non punibilità di cui all'art. 9, comma 1, lettera a), della l. 146/2006 agli agenti sotto copertura impegnati nell'acquisizione di elementi di prova in ordine ai delitti previsti dagli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353, 353-bis c.p., oltrechè ai delitti previsti dagli artt. 452-quaterdecies, 453, 454, 455, 460, 461, 473, 474, 629, 630, 644 c.p.; nell'operazione di raccordo, sono state anche estese le operazioni sotto copertura non punibili, ovviamente con esclusione di quelle costituenti provocazione. Ma a tal proposito, sull'estensione della non punibilità agli agenti sotto copertura con riguardo al suddetto catalogo di reati, si sono levate voci critiche (in particolare PADOVANI, Lo spazza corrotti cit.): in specie si sono espresse perplessità circa la giustificazione dell'agente sotto copertura qualora egli corrisponda danaro o altra utilità in esecuzione di un accordo già concluso da altri, ovvero dia il danaro o l'utilità richiesti dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio (ossia agisca “come” un corruttore), ma al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti (che quindi, si suppone, sarebbero stati già commessi). Ne deriva, secondo tale assunto, la prevedibile inutilità della figura dell'agente sotto copertura nei casi in cui il fenomeno corruttivo si manifesti in un circuito “chiuso”, in cui gli agenti finiscano col conoscersi tutti (gare d'appalto, forniture pubbliche e simili); o il forte rischio, nelle altre procedure amministrative (es. richieste di concessioni, pratiche edilizie ecc.) che l'agente sotto copertura venga a trovarsi in una situazione “di confine” con l'agente provocatore. Può soggiungersi che la stessa tecnica legislativa appare discutibile, accomunando in un unico, farraginoso elenco casistico – assai più esteso di quello precedente – le diverse tipologie di condotte in cui dovrebbe consistere l'attività “giustificata” degli agenti sotto copertura, a fronte di un catalogo di reati – quelli oggetto dell'attività investigativa cui si applica la causa di non punibilità – che, oggi molto più di ieri, comprende numerose e variegate fattispecie criminose, ma che proprio per questo avrebbe richiesto una più meditata ed esatta classificazione delle condotte non punibili in rapporto a ciascun reato oggetto d'indagini. Le modifiche al d.lgs. 231/2001 in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche
Sia pure in termini meno rigorosi rispetto al testo originario, il testo definitivo della legge, in linea con quanto stabilito nei confronti delle persone fisiche, interviene anche sul quadro sanzionatorio relativo ai casi di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica (di cui al d.lgs. 231/2001). In pratica, vengono innalzati i limiti minimo e massimo delle sanzioni interdittive previste per i reati di concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità e corruzione, di cui all'art. 25, comma 5, del decreto: sanzioni che vanno ora da un minimo di quattro a un massimo di sette anni nel caso in cui il reato sia stato commesso da soggetto apicale (di cui all'art. 5, comma 1, lettera A del d.lgs.), e da un minimo di due a un massimo di quattro anni se il reato è stato commesso da uno dei soggetti sottoposti di cui all'art. 5, comma 1, lettera b). Anche in questo caso però (in base a una modifica intervenuta nel corso dei lavori parlamentari, con l'aggiunta del comma 5-bis all'art. 25), vi è, come per le persone fisiche, una previsione premiale nel caso di comportamenti collaborativi dell'ente, nel senso che la misura delle sanzioni interdittive è ridotta (e ha la durata stabilita in via generale dall'art. 13, comma 2, del decreto) qualora l'ente si sia efficacemente adoperato perché l'attività delittuosa non sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione dei responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, eliminando altresì le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Resta da vedere se e in che modo potrà configurarsi, nella realtà concreta, l'adozione di tali modelli e l'eliminazione di carenze organizzative in rapporto a reati come quelli contro la pubblica amministrazione. Le nuove disposizioni in tema di trasparenza e controllo dei partiti e dei movimenti politici
Un breve cenno va dedicato alle norme in materia di trasparenza e di controllo dei partiti e dei movimenti politici, materia alla quale l'articolo unico della legge riserva i commi da 11 a 28. L'intento di rendere non solo la pubblica amministrazione,ma anche la politica una “casa di vetro” per i cittadini è perseguito innanzitutto con la previsione dell'obbligo di pubblicità dei dati dei soggetti erogatori di contributi, prestazioni o altre forme di sostegno alle formazioni politiche, nonché del divieto di ricevere tali aiuti da soggetti (persone fisiche o enti) che si dichiarino contrari alla pubblicità dei relativi dati, nonché da governi o enti pubblici di Stati esteri da o persone giuridiche aventi sede all'estero che non siano assoggettate a obblighi fiscali in Italia (commi 11 – 12). Le finalità di trasparenza riguardano anche l'obbligo di pubblicizzare il curriculum vitae e anche il certificato del casellario giudiziale (impropriamente denominato “certificato penale”) dei candidati alle competizioni elettorali, anche contro la volontà di costoro (comma 14). Di particolare rilievo poi (comma 17) risulta l'ampliamento della tracciabilità dei contributi ai partiti politici, ricevuti direttamente o a mezzo di comitati costituiti a loro sostegno, che ora riguarda il versamento di ogni importo superiore alla somma di 500 (e non più di 5.000) euro l'anno. Ed ancora, è da segnalare (comma 20) l'estensione di tali doveri di trasparenza anche alle fondazioni politiche, equiparate ai partiti in funzione della diffusa tendenza a raccogliere finanziamenti privati destinati comunque alle formazioni politiche di riferimento. Il sistema sanzionatorio, che sulla carta si presenta particolarmente incisivo, comporta di regola, in base ai commi 21 e ss. della legge, l'applicazione a carico dei partiti e dei movimenti politici di sanzioni amministrative pecuniarie comprese fra il triplo e il quintuplo dei contributi, delle prestazioni e delle altre forme di sostegno patrimoniale, nel caso di violazione delle regole di trasparenza stabilite riguardo a tali erogazioni; o di una sanzione compresa tra 12 e 120 mila euro in caso di trasgressione delle regole di trasparenza riguardanti i candidati o la presentazione dei rendiconti annuali di cui all'art. 8, legge 2/1997. Competente all'applicazione delle suddette sanzioni è la Commissione per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici, di cui all'art. 9, comma 3, legge 96/2012. Al riguardo, però, sono stati manifestati timori (in specie da CANTONE, op.cit.) circa l'affidamento delle funzioni sanzionatorie al predetto organismo, sulla base del precedente storico delle dimissioni in massa dei componenti della Commissione per protesta contro la mancanza di risorse strumentali e di personale che di fatto ne impediva il funzionamento. Nel corso dell'iter parlamentare di approvazione della legge, l'articolato è stato arricchito dall'inserimento di alcune disposizioni che di fatto stravolgono la disciplina della prescrizione dei reati finora vigente: non solo, come pure ci si poteva attendere, con riguardo ai delitti contro la P.A. ma con riferimento alla generalità dei reati. In primo luogo, si ritorna all'antico (ossia a quanto previsto prima della legge ex Cirielli del 2005) per quanto concerne le ipotesi di reato continuato ex art. 81 comma 2 c.p.: viene infatti ripristinata la previsione (di cui all'art. 158, comma 1, c.p.) in base alla quale, in tali ipotesi, il termine di prescrizione inizia a decorrere non più dalla consumazione di ogni singolo reato ma dalla cessazione del vincolo della continuazione. La scelta politica è chiaramente decifrabile, anche se essa contraddice lo spirito e le finalità dell'istituto della continuazione, il cui scopo è puramente e semplicemente quello di determinare un trattamento sanzionatorio di maggior favore per chi agisca in attuazione di un'unica deliberazione criminosa, ferma restando tuttavia l'individualità di ciascun reato (la quale trovava, appunto, riscontro nella decorrenza della prescrizione dalla consumazione di ognuno dei reati in continuazione). Di ben maggiore impatto è però il nuovo testo dell'art. 159, comma 2, c.p.: attraverso la modifica della disciplina della sospensione della prescrizione - che resta sospesa dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto penale di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell'irrevocabilità del decreto di condanna -, si vuole in realtà eliminare radicalmente il decorso della prescrizione dal momento della pronunzia della sentenza di primo grado (o addirittura del decreto penale di condanna). La formulazione, non priva di ambiguità, suscita più di un dubbio. Non è chiaro, innanzitutto, perché la sospensione operi indistintamente nel caso di sentenza (di primo grado) di condanna o assolutoria (sarebbe stato assai più sensato – e avrebbe assicurato una maggiore tenuta costituzionale della disposizione - distinguere fra le due ipotesi, come del resto è stato fatto con la riforma Orlando, in cui la sospensione opera dal termine previsto per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo, oppure di secondo grado, per il periodo e alle condizioni di cui all'art. 159, comma 3-ter, numeri 1 e 2, c.p.). Non è poi chiaro quale sia la disciplina nel caso in cui il giudizio (nelle forme del rito immediato o abbreviato) consegua ad opposizione a decreto penale di condanna: la prescrizione resta comunque sospesa? Se sì, sembra profilarsi una irragionevole disparità di trattamento (di possibile rilevanza ai fini di uno scrutinio di legittimità costituzionale) tra il giudizio instauratosi con rito ordinario, o anche con rito immediato o abbreviato (non preceduti da decreto penale) e i casi in cui si proceda a seguito di opposizione a decreto. Del tutto conseguenti rispetto a tale impostazione risultano poi le modifiche riguardanti l'interruzione della prescrizione, di cui all'art. 160, nuovo testo, c.p.. A conti fatti, l'inserimento di siffatta previsione – estranea alla materia specifica della lotta alla corruzione –, per di più con una scelta testuale così ambigua, sembrerebbe tradire un rudimentale intento di far passare inosservata (agli occhi di chi?) una così dirompente novità: non è dato comprendere, d'altronde, quale altra possa essere la finalità di una simile soluzione legislativa, atteso che ben più ovvio sarebbe stato scrivere, apertis verbis, che la prescrizione cessa di decorrere dalla data della decisione di primo grado (anche se conseguente a decreto penale opposto), anziché ricorrere al meccanismo della sospensione della prescrizione fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell'irrevocabilità del decreto di condanna (come se, dopo tale data, il termine sospeso di prescrizione del reato potesse riprendere il suo decorso…). È, del resto, evidente che ci si muove in un ambito tematico delicatissimo e cruciale dell'intera materia penale. Una così radicale riforma della prescrizione, introdotta quasi con nonchalance usando come veicolo una legge avente ben altre finalità, vuole certamente rappresentare una risposta drastica al rischio – oggettivamente elevato nel nostro farraginoso e “affollato” sistema penale – che i processi finiscano con un nulla di fatto, con ciò che ne consegue in termini di denegata giustizia e di sfiducia del cittadino nelle istituzioni (una voce che si è espressa in senso complessivamente favorevole alla riforma è quella di GATTA, Riforme della corruzione e della prescrizione del reato: il punto sulla situazione, in attesa dell'imminente approvazione definitiva, in Dir. pen. cont., 17 dicembre 2018). Ma sul fronte opposto non si può dimenticare che, oltre ad eludere il problema di fondo (ossia quello di eliminare le ragioni che hanno, appunto, reso il nostro sistema penale così farraginoso ed “affollato”), lo “stop” alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado o il decreto penale viene avvertito come un possibile rischio di un indeterminato protrarsi, nel tempo, della sottoposizione del cittadino al giudizio penale, in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost. (di tale rischio sembra farsi carico DELLA RAGIONE, La riforma della prescrizione nella L. 3/2019, in questa Rivista, 18 gennaio 2019). La materia, in base a quanto è dato comprendere dai lavori parlamentari, è probabilmente dibattuta anche all'interno della stessa maggioranza di governo (si è accennato al fatto, del resto, che altre parti della legge – si ricorda la vicenda dell'emendamento Vitiello – hanno provocato frizioni fra le due formazioni politiche che compongono la compagine governativa). Si ha la sensazione che le novità introdotte al sistema della prescrizione dei reati possano essere il frutto di un compromesso politico: sensazione rafforzata dalla moratoria delle nuove previsioni in materia, la cui entrata in vigore è rinviata al 1 gennaio 2020 (previsione che appare poco coerente con la repentina decisione di inserire dette previsioni nel D.D.L. anticorruzione nel corso del relativo iter parlamentare): tanto più che il differimento del novellato regime della prescrizione, a ben vedere, potrebbe favorire, da parte di qualcuna fra le forze politiche che hanno stipulato il “contratto di governo”, eventuali ripensamenti sulle nuove regole, che potrebbero di fatto essere modificate o eliminate prima ancora di operare. Ripensamenti che – vista anche la più che discutibile qualità della tecnica legislativa impiegata – ci si deve a questo punto augurare. Ciò posto, la scelta di sospendere, di fatto definitivamente, il decorso della prescrizione al termine del giudizio di primo grado è stata criticata da più parti, in specie dagli organismi professionali dell'Avvocatura, oltrechè da una parte del mondo politico. Più articolato il parere espresso dalla magistratura: accanto a chi ha salutato con un certo favore la riforma, osservando anzi che la cessazione della prescrizione dovrebbe essere semmai anticipata al momento dell'esercizio dell'azione penale (come avviene ad esempio in alcuni ordinamenti anglosassoni, con rilevanti effetti sulle percentuali di definizione dei processi con riti alternativi), vi è chi – come i vertici dell'A.N.M. - ha osservato che occorrerebbe affiancare alla riforma della prescrizione interventi di maggiore respiro sistematico sul processo. Più critico appare invece il “parere del CSM sul disegno di legge AC 1189 Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici, pubblicato il 19 dicembre 2018. Il rischio della scelta riformatrice, che prevedibilmente riguarderà soprattutto i procedimenti per reati che richiedono indagini complesse e un'istruttoria piuttosto articolata (e fra questi indubbiamente vi sono anche i delitti contro la P.A.), è riferito alla possibilità che le spinte di parte per allungare i tempi del giudizio, anziché esaurirsi, si concentrino nella fase del procedimento di primo grado, con effetti potenzialmente negativi sui tempi di tale fase. Ciò che appare certo è che l'inserimento “in corso d'opera” delle suddette norme in tema di prescrizione, comunque lo si valuti, risulta eccentrico rispetto ai temi di fondo oggetto della nuova legge; può al riguardo osservarsi che un'alternativa appropriata, e più coerente con tali aree tematiche, sarebbe stata quella di porre in essere un intervento più mirato, ad esempio con l'estensione dei casi di raddoppio dei termini di prescrizione (di cui all'art. 157, comma 6, c.p.) ai delitti contro la pubblica amministrazione o, comunque, a un catalogo di reati corrispondenti in tutto o in parte a quelli oggetto della riforma. |