Responsabilità degli enti: la legge anticorruzione innalza le sanzioni interdittive nei confronti delle società
23 Gennaio 2019
Abstract
Come è noto, il c.d. decreto anticorruzione (ovvero l. 19 gennaio 2019, n. 3) è intervenuto anche sulla disciplina in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, modificando diverse prescrizioni presenti nel d.lgs. 231/2001. Premessa
In proposito, vanno fatto preliminarmente tre osservazioni. In primo luogo, Non che il citato d.lgs. non fosse stato in precedenza oggetto di modifiche e integrazioni ma le stesse fino a ora avevano interessato solo l'elenco dei reati presupposto della responsabilità delle persone giuridiche, elenco che da un numero assai limitato di illeciti è passato, nel corso degli anni, a ricomprendere una molteplicità di delitti; con il recente intervento normativo, tuttavia, come detto il Legislatore non è intervenuto sulla parte speciale del d.lgs. 231/2001 – ovvero sulla individuazione dei c.d. illeciti presupposto – ma su alcuni profili generali della disciplina contenuta nel predetto testo normativo. Ciò posto, ed è la seconda osservazione cui si faceva cenno in precedenza, le modifiche apportate con la l. 3/2019 non sono state certo significative ma rivestono una rilevanza affatto marginale. In realtà, non mancavano e non mancano nella disciplina contenuta nel d.lgs. 231/2001 profili che necessitano di interventi di riforma o di chiarificazione: si pensi, ad esempio, al rapporto fra il criterio di imputazione all'ente dell'illecito commesso da apicali o dipendenti (i quali devono aver agito nell'interesse o vantaggio della società) e i reati colposi o alla definizione della (incerta) nozione di elusione fraudolenta richiamata dall'art. 6 d.lgs. 231/2001, o alla possibilità di applicare alle società il c.d. sequestro impeditivo puro (possibilità ammessa dalla decisione della II Sezione della Cassazione n. 34293 depositata il 20 luglio 2018). A fronte di tali esigenze di chiarificazione e precisazione che da tempo, specie la dottrina, rivolge al Legislatore, tuttavia, come detto, quest'ultimo si è sottratto ai suoi compiti limitandosi ad intervenire su alcuni profili di scarsa rilevanza della materia, per di più nel tentativo di esasperare la valenza punitiva della disciplina di cui al d.lgs. 231/2001, in particolare rendendo significativamente più incidenti e severe le sanzioni interdettive che possono essere applicate alle società. Da ultimo, riprendendo le osservazioni formulate al termine del periodo precedente, va ricordato come l'intervento di riforma in esame è contenuto in un testo normativo (non a caso denominato, non solo dai mass media, ma anche dalle forze politiche che lo hanno proposto, “decreto spazzacorrotti”) dedicato principalmente agli illeciti commessi da pubblici funzionari o da privati contro la pubblica amministrazione e che si caratterizza per il suo draconiano rigore, venendo l'efficacia di prevenzione degli illeciti rimessa essenzialmente alla comminatoria di sanzioni severissime e intese, di fatto, a precludere per il futuro ogni possibilità per il responsabile dell'illecito di partecipare nuovamente alla vita pubblica o di prendere parte ad attività commerciali. Tali caratteri, come vedremo immediatamente, sono presenti anche nell'ambito di nostro interesse, posto che da un lato la riforma interessa solo le ipotesi in cui il reato presupposto della responsabilità della società rientri in un ristretto ambito di illeciti contro la pubblica amministrazione e dall'altro l'intervento normativo in parola si caratterizza per rendere più severa l'adozione – tanto in ambito cautelare che in ipotesi di condanna della società – di misure interdettive nei confronti delle persone giuridiche nel cui interesse o vantaggio i soggetti apicali abbiano agito in maniera criminale. Le modifiche in tema di misure interdittive. Le sanzioni interdittive in sede di condanna
Nell'ambito della disciplina in tema di misure interdittive applicabili nei confronti della società – e che, come è noto, consistono nella a) interdizione dall'esercizio dell'attività; b) sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; c) divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; e) divieto di pubblicizzare beni o servizi – il Legislatore è intervenuto sotto un duplice profilo, a seconda che la suddetta misura sia applicata all'ente collettivo in ambito cautelare – prima cioè della definizione del procedimento nei suoi confronti – ovvero a titolo di sanzione definitiva, una volta accertata la sua responsabilità. Con riferimento a tale secondo profilo, ovvero considerando la misura interdittiva come sanzione, il Legislatore non è intervento sui presupposti per la loro applicazione, che è dunque consentita solo in presenza delle seguenti condizioni: a) si proceda per un reato, in presenza del quale, qualora la società sia stata dichiarata responsabile, è prevista l'applicazione in sede di condanna di una sanzione interdittiva
b) non ricorrano le ipotesi di cui all'art. 12, comma 1, d.lgs. 231/2001, e cioè l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo o il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità. L'innovazione apportata dalla riforma attiene tuttavia alla durata delle misure interdittive applicate in sede di condanna dell'ente. Infatti, se di regola, ai sensi dell'art. 13, comma 2, d.lgs. 231/2001 i citati provvedimenti di interdizione hanno una durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni, qualora si proceda per uno dei reati disciplinati e puniti dagli articoli 319, 319-ter, comma 1, 321, 322, commi 2 e 4, del codice penale (ovvero per i reati di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, corruzione in atti giudiziari ed istigazione alla corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio), le sanzioni interdittive non potranno avere una durata non inferiore a quattro anni e non superiore a sette anni, se il reato è stato commesso da uno dei soggetti che siedono al vertice dell'azienda e una durata non inferiore a due anni e non superiore a quattro, se il reato è stato commesso da uno dei dipendenti della società. La durata della sanzione interdittiva può essere ridotta – tornandosi ad applicare la disciplina di carattere generale (ovvero una durata non inferiore a tre mesi e non superiore a due anni) –qualora, prima della sentenza di primo grado, l'ente si adoperi efficacemente per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l'individuazione dei responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite ed elimini le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. La riforma, come è evidente, si caratterizza per il significativo innalzamento del carico sanzionatorio quando la società sia coinvolta in vicende di corruzione che coinvolgono la pubblica amministrazione. Tuttavia, questo fervore punitivo del Legislatore determina due ordini di problemi. In primo luogo, diventa difficile, quando si proceda per fatti corruttivi, individuare, in ragione delle forti differenze in tema di conseguenze sanzionatorie che ne derivano, quali soggetti rientrino tra quelli che l'art. 5, comma uno, lett. a), d.lgs. 231/2001 descrive come soggetti apicali, giacché quando sono coinvolti tali soggetti la sanzione applicabile all'ente è doppia rispetto alla pena che la persona giuridica si trova a dover sopportare se responsabile del reato presupposto che un suo semplice dipendente. Orbene, se fra gli apicali della società rientrano sicuramente i componenti del consiglio di amministrazione, i sindaci e i direttori generali, vi sono altresì soggetti la cui appartenenza tale novero è assai dubbia: si pensi, ad esempio, ai preposti con riferimento alla tematica della sicurezza sul lavoro (sul punto, si veda Cass. pen., Sez. V, 23 febbraio 2016, n. 40033) o a quanti dirigano di fatto la società (in dottrina, sulla possibile rilevanza, per l'applicazione agli enti delle sanzioni previste nel d.lgs. 231/2001, da riconoscersi alla condotta tenuta da eventuali soggetti che, nell'ambito della persona giuridica, svolgano la funzione di gestore di fatto. In secondo luogo, l'aumento di pena riservato al Legislatore alle società in caso di coinvolgimento in vicende di corruzione di pubblici ufficiali sembra essere davvero irragionevole, sia se considerato, per così dire, isolatamente (inibire ad una società di operare nel proprio settore di attività per oltre due anni significa di fatto determinarne la cessazione dell'operatività e quindi destinarla ad una chiusura), sia se rapportato alla pena che viene prevista quando la società venga coinvolta e giudicata responsabile per fatti di reato diversi ma parimenti gravi: esemplificativamente, oggi è punito più severamente un ente collettivo che venga giudicato responsabile atti di corruzione che un'impresa che si attivi per la realizzazione nel nostro paese di fatti di terrorismo! Specularmente all'aumento di durata della misura interdittiva applicata in caso di condanna della società, il Legislatore della riforma è intervenuto sui termini di durata dei medesimi provvedimenti quanto applicati in sede cautelare. In proposito, la precedente disciplina, contenuta nell'art. 51 d.lgs. 231/2001, prevedeva che la durata massima delle misure cautelari interdittiva – che va stabilità dal giudice nel relativo provvedimento – non poteva superare la metà del termine massimo indicato dall'articolo 13, comma 2, d.lgs. 231/2001 (cioè un anno) e dopo la sentenza di condanna di primo grado, la durata della misura cautelare poteva avere la stessa durata della corrispondente sanzione applicata con la medesima sentenza. In ogni caso, la durata della misura cautelare non poteva superare i due terzi del termine massimo indicato dall'articolo 13, comma 2, d.lgs. 231/2001 (ovvero 16 mesi). Come si vede, la precedente normativa parametrava il termine di durata della misura cautelare interdittiva sulla base del quantum di sanzione previsto in via generale dall'art. 13, comma 2, d.lgs. 231/2001. Tale modalità di regolamentazione, tuttavia, era applicabile in quanto il termine di durata delle sanzioni interdittive era il medesimo quale che fosse il reato presupposto in relazione al quale la società era dichiarata responsabile; dopo la riforma, come si è visto, i termini di durata delle sanzioni interdittive sono diversi in particolare gli stessi sono sensibilmente più alti reati per cui si procede sono quelli di corruzione propria, corruzione in atti giudiziari e istigazione alla corruzione, sicché il riferimento alla sanzione definitiva alle modalità per determinare la durata massima dedizione applicare in sede cautelare non era più utilizzabile. Per tale ragione, il Legislatore ha introdotto dei termini fissi e univoci per determinare la durata massima delle misure cautelari interdittive fissando gli stessi nella misura di un anno, nonché, quale termine massimo ed in alcun modo superabile, di un anno e quattro mesi. È bene precisare che tali limiti si applicano per tutti i reati presupposto elencati nel d.lgs. 231/2001 e quindi non per i soli illeciti di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, corruzione in atti giudiziari ed istigazione alla corruzione in relazione ai quali è stata introdotto il menzionato aumento dei termini della sanzione interdittiva. Da ultimo va segnalato l'introduzione, fra i reati presupposto della responsabilità della società, del delitto di traffico di influenze illecite di cui all'art. 346-bis c.p., ai sensi del quale è punito, chiunque, senza porre in essere fenomeni di corruzione o di istigazione alla corruzione, «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all'omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio». La pena per la società è la sanzione pecuniaria fino a seicento quote. CIALDELLA, Il requisito dell'interesse alla commissione del reato presupposto ai fini della responsabilità dell'ente, in Cass. Pen., 2014, 1361; BARTOLI, Le Sezioni Unite prendono coscienza del nuovo paradigma punitivo del "sistema 231", in Soc., 2015, 215, SANTORIELLO, Violazioni delle norme antinfortunistiche e reati commessi nell'interesse o a vantaggio della società, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2008, 1, 161; SANTORIELLO, I requisiti dell'interesse e del vantaggio della società nell'ambito della responsabilità da reato dell'ente collettivo, in Riv. Resp. Amm. Enti, 3, 49; FIORIO, Presunzione di non colpevolezza ed onere della prova, in ID. (a cura di), La prova nel processo agli enti, Torino 2016, 145; BERNASCONI, Modelli organizzativi, regole di giudizio e profili probatori, in ID. (a cura di), Il processo penale de societate, Milano 2006, 65 FIORIO, Presunzione di non colpevolezza ed onere della prova, in ID. (a cura di), La prova nel processo agli enti, Torino 2016, 145; BERNASCONI, Modelli organizzativi, regole di giudizio e profili probatori, in ID. (a cura di), Il processo penale de societate, Milano 2006, 65; ASSUMA, Art. 6, in AA.VV. (a cura di LEVIS – PERINI), La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2014, 165; MANNA, La responsabilità da reato degli enti, in AA.VV. (a cura di MANNA), Corso di diritto penale dell'impresa, 2^ ed., Torino 2018, 80 |