Sospensione dell'esecuzione della pena: sollevata Q.L.C. con riferimento al furto in abitazione

01 Febbraio 2019

Il tribunale di Agrigento, quale giudice dell'esecuzione solleva la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. nella parte in cui prevede il reato di furto in abitazione, ex art. «624-bis c.p.», per contrasto con l'art. 3 Cost...
Abstract

Il tribunale di Agrigento, quale giudice dell'esecuzione, visti gli artt. 134 Cost., 1 della l. cost. 1/1948 e 23 della l. 87/1953, solleva la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all'art. 656, co. 9, lett. a), c.p.p. nella parte in cui prevede il reato di furto in abitazione, ex art. «624-bis c.p.», per contrasto con l'art. 3 Cost., con riguardo ai principi di ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalità ad esso sottesi, e con l'art. 27 Cost., per il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, ritenendo la stessa rilevante e non manifestamente infondata.

La questione di legittimità costituzionale
Il caso trae origine dalla condanna alla pena di mesi otto di reclusione ed euro 300,00 di multa in primo grado, confermata dalla Corte di Appello di Palermo, nei confronti di P.S. per il reato di cui agli artt. 110 e 624 bis c.p.

In particolare, l'imputato, in concorso con altro soggetto, al fine di trarne profitto, si introduceva nell'abitazione di M.S. e s'impossessava di un televisore di 32 pollici, sottraendolo allo stesso.

Il condannato personalmente chiedeva, attraverso la procedura dell'incidente di esecuzione (ex art. 670 c.p.p.), la sospensione dell'ordine di esecuzione per la carcerazione emesso dal P.M. presso il Tribunale di Agrigento, al fine di accedere alle misure alternative alla detenzione in carcere, previste dagli artt. 47 e ss. della legge sull'ordinamento penitenziano, n. 354 del 1975, non avendo il P.M. emesso il decreto di sospensione, ai sensi dell'art. 656, comma 5, c.p.p.

Il Tribunale di Agrigento solleva la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. nella parte in cui non consente la sospensione dell'esecuzione nei confronti delle persone condannate per il delitto di furto in abitazione (art. 624-bis c.p.) per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., ritenendo la stessa rilevante nell'ambito del procedimento sottoposto alla sua attenzione, non potendo questo essere definito indipendentemente dalla risoluzione della stessa, e ritiene, inoltre, tale questione non manifestamente infondata.

Le questioni giuridiche preliminari

In relazione alla questione di legittimità costituzionale sollevata con l'ordinanza in commento, il giudice del tribunale di Agrigento, in via preliminare, affronta il tema dell'evoluzione nel tempo della normativa di riferimento.

In particolare, secondo il giudice rimettente occorre rilevare che l'art. 656, comma 9, c.p.p. elenca tutte le fattispecie in relazione alle quali la pubblica accusa è tenuta ad emettere l'ordine di carcerazione, non potendo viceversa disporre la contestuale sospensione dell'esecuzione, ex art. 656, comma 5, c.p.p., diretta a una preventiva valutazione da parte del tribunale di sorveglianza in ordine all'accessibilità del condannato alle misure alternative alla detenzione in carcere.

Le ipotesi previste alla lettera a) del citato comma 9 trovano, peraltro, la propria giustificazione nella scelta del legislatore di presumere la maggiore pericolosità dei condannati per alcune categorie di reati (in tal senso, Cass. pen., Sez. I, 18 marzo 2008, n. 16708).

La disposizione di cui all'art. 656 c.p.p. ha subito nel tempo delle modifiche.

Nella specie, in origine l'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. prevedeva che la sospensione dell'ordine di carcerazione non potesse operare solo per quei reati che già nella normativa sull'ordinamento penitenziario sono gravati dal divieto di concessione dei benefici (cioè i delitti di cui all'art. 4-bis della l. 354/1975). Tale previsione risponde ad una scelta di razionalità, posto che sarebbe illogico sospendere l'ordine di carcerazione per coloro i quali in ogni caso non avrebbero alcuna possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione carceraria.

Successivamente, l'art. 2, lett. m), del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. in l. 24 luglio 2008, n. 125 e rientrante nel c.d. «pacchetto sicurezza», diretto a «contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all'immigrazione illegale e alla criminalità organizzata», ha esteso tale elenco attraverso l'aggiunta, nel citato comma 9, lett. a), dell'art. 656 c.p.p., della previsione per cui la sospensione non trova applicazione neppure per i delitti «di cui agli artt. 423-bis, 624, quando ricorrono due o più circostanze tra quelle indicate dall'art. 625, 624-bis del c.p.».

Infine, nel 2013, alla lett. a) del comma 9 sono state apportate ulteriori modifiche, attraverso l'eliminazione del furto pluriaggravato dall'elenco dei reati che non ammettono la sospensione dell'ordine di carcerazione e l'introduzione, in luogo dello stesso, delle fattispecie previste dagli artt. 572, comma 2, e 612-bis, comma 3, c.p.

Alla luce di tali modifiche, in caso di pena detentiva, per tali reati non può essere più disposta la sospensione dell'esecuzione, ex art. 656, comma 5, c.p.p.

Tuttavia, non è stata modificata la correlativa disciplina che consente al Tribunale di sorveglianza di valutare, senza ulteriori limiti, la possibilità di concedere, a posteriori, delle misure alternative al condannato già detenuto, non essendovi stato un allineamento del disposto dell'art. 656, comma 9, c.p.p. con quello di cui all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario. Ciò anche, come nel caso di specie, in relazione al reato di furto in abitazione, ex art. 624-bis c.p.p., che l'ordinamento considera, per presunzione, espressivo di una maggiore capacità a delinquere del suo autore, e come tale non meritevole ex ante dei benefici previsti dalla normativa sull'ordinamento penitenziario.

Il contrasto con il principio di uguaglianza

Una volta chiarita l'evoluzione che nel tempo ha subito la normativa di riferimento, nell'ordinanza in esame viene affermata la competenza dello stesso Tribunale di Agrigento, quale giudice dell'esecuzione, a promuovere il giudizio di legittimità costituzionale. Ciò in quanto, sotto il profilo procedurale, competente a conoscere dell'esecuzione della sentenza interessata è il giudice dell'esecuzione del Tribunale di Agrigento che l'ha deliberata, ex art. 665, commi 1 e 2, c.p.p., essendo stato il provvedimento confermato in sede di appello e poi divenuto irrevocabile dopo la pronuncia di inammissibilità del ricorso avanzato in Cassazione.

Secondo il giudice relatore deve escludersi una competenza sul titolo esecutivo tanto del Tribunale di sorveglianza, competente, piuttosto, a valutare la concepibilità di misure alternative, che del P.M., il quale in questa fase è organo con funzioni esecutive e amministrative e i cui provvedimenti sono sottratti a qualsiasi mezzo impugnatorio.

E invero, al fine di evitare il verificarsi di situazioni pregiudizievoli per il condannato, l'ordine di esecuzione può essere sottoposto al controllo del giudice dell'esecuzione, il quale, se richiesto dalla parte interessata, dovrà pronunciarsi, osservando le garanzie giurisdizionali proprie del procedimento previsto dall'art. 666 c.p.p., rubricato Procedimento di esecuzione, con ordinanza ricorribile per Cassazione. A conferma di ciò si richiama l'orientamento consolidato della Suprema Corte, secondo cui «l'ordine di esecuzione, emesso dal P.M. senza il contestuale provvedimento di sospensione per pene detentive brevi, non può essere annullato dal giudice dell'esecuzione ma esclusivamente dichiarato temporaneamente inefficace, per consentire al condannato di presentare, nel termine di trenta giorni, la richiesta di concessione di una misura alternativa alla detenzione» (così, Cass., 13 ottobre 2009, n. 41592).

In merito al giudizio costituzionalità, di cui all'art. 1 della legge cost. n. 1 del 1948, l'art. 23 della legge 86 del 1953 prevede che la questione di legittimità costituzionale possa essere sollevata con ordinanza, anche di ufficio, dall'autorità giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio, dopo aver valutato la rilevanza della questione rispetto alla decisione della causa e la sua non manifesta infondatezza. In relazione a tale valutazione competente è l'autorità giurisdizionale chiamata a pronunciarsi sulla causa, trattandosi di una valutazione che racchiude un giudizio sui termini e limiti della controversia, nonché sulla applicazione della norma nel caso concreto.

Ebbene, in relazione al caso di specie, il giudicante ritiene che la questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. dell'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. nella parte in cui non consente la sospensione dell'esecuzione nei confronti delle persone condannate per il delitto di cui all'art. 624-bis c.p. sia rilevante nell'ambito del procedimento interessato, non potendo questo essere definito indipendentemente dalla risoluzione della stessa, e ritiene, inoltre, tale questione non manifestamente infondata.

In primo luogo, con riguardo alla rilevanza della prospettata questione di legittimità costituzionale, il tribunale rimettente osserva di essere chiamato ad esercitare capacità decisionale, effettiva e attuale, proprio in relazione alla disposizione sospettata di incostituzionalità, venendo la stessa in rilevo nell'ambito del procedimento di esecuzione instaurato dall'istante per ottenere la sospensione dell'ordine di esecuzione della carcerazione emesso nei suoi confronti al fine di accedere alla richiesta di pena alternativa.

Ove la questione non fosse prospettata, infatti, il giudice interessato non potrebbe accogliere l'istanza formulata dal condannato, posto che il testo dell'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. non si presta ad interpretazioni che possano permettere di accogliere la richiesta formulata, né appare suscettibile di disapplicazione. In particolare, in forza della elencazione tassativa contenuta nella disposizione in esame, non appare possibile giungere ad una interpretazione diversa, essendo stato inserito il reato di furto in abitazione nell'elenco di quelli ostativi alla preventiva sospensione dell'ordine di esecuzione carceraria, ex art. 656, comma 5, c.p.p.

In secondo luogo, secondo il giudice rimettente, evidente è anche la non manifesta infondatezza della questione. Infatti, il disposto dell'art. 656, comma 9, lett. a), così come formulato nella parte in cui richiama il furto in abitazione, viola l'art. 3 della Costituzione per contrasto con i principi di ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalità.

Preliminarmente va ricordato che l'art. 4-bis dell'ord. pen., rubricato Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti, elenca quei reati (c.d. ostativi) considerati dal legislatore espressione di una particolare capacità a delinquere e ritenuti di tale gravità da far presumere la pericolosità sociale di chi li ha commessi. Tra questi vi rientrano, ad esempio, il delitto di cui all'art. 416-bis c.p. o quelli aggravati dall'art. 7 legge 18 luglio 1991, n. 203.

L'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., in maniera parzialmente complementare, elenca i reati per i quali non è ammessa la sospensione dell'ordine di carcerazione, rinviando innanzitutto all'elenco di cui all'art. 4-bis citato. Del resto non avrebbe alcun senso sospendere l'esecuzione della pena detentiva per un condannato per reati che comunque non ammettono misure alternative alla detenzione carceraria.

Lo stesso art. 656 c.p.p., poi, impedisce la preventiva sospensione dell'ordine di carcerazione per ulteriori categorie di reati, i cui autori condannati possono richiedere misure alternative alla detenzione solo a valle dell'ingresso nell'istituto penitenziario. Tali reati, come esposto in precedenza, sono quelli previsti dagli artt. 423 bis, 572, comma 2, 612-bis, comma 3, e 624-bis c.p., sub specie di furto in abitazione.

Nell'ordinanza in esame si sottolinea che in nessuna delle due elencazioni compaiono i reati di rapina ed estorsione (nella loro versione non aggravata), né quello di furto pluriaggravato (dopo il 2013) e furto con strappo, ex comma 2 dell'art. 624-bis c.p. (a seguito della declaratoria di incostituzionalità avvenuta con la sentenza della Corte costituzionale n. 125 del 2016).

Ciò premesso, non può non denunciarsi, secondo il giudice di Agrigento, sotto il profilo dell'irragionevolezza della disposizione, come il furto in abitazione presenti elementi, da un lato comuni, dall'altro meno gravi, rispetto alle altre fattispecie incriminatrici che ammettono la sospensione ex art. 656 c.p.p., tali da rendere del tutto irrazionale la sua permanenza nell'elenco dei reati che ostano alla preventiva sospensione dell'ordine di carcerazione per consentire al condannato di accedere alle misure alternative alla detenzione previste dall'ordinamento penitenziario, che in ogni caso non gli sono precluse a posteriori.

Facendo un confronto fra le fattispecie interessate, innanzitutto, occorre sottolineare che il furto in abitazione, il furto con strappo e il furto pluriaggravato hanno quale comune denominatore la condotta costituita dall'impossessamento del bene mobile altrui con sottrazione a chi lo detiene, benché circostanziati da ulteriori elementi rilevanti ai fini della qualificazione giuridica e della pena da irrogare (in particolare: la commissione del furto nei luoghi destinati in tutto o in parte a privata dimora; la commissione del furto con violenza immediatamente rivolta verso la cosa e che, solo indirettamente, si riverbera sulla persona che la detiene; la commissione del furto con due o più delle aggravanti previste dall'art. 625 c.p.).

In secondo luogo, il furto in abitazione risulta sotto molti aspetti meno grave dei reati di rapina e di estorsione, anche nelle loro forme non aggravate. Il primo, infatti, tutela tanto il patrimonio quanto il privato domicilio e, pur essendo tale tipo di condotta sintomatica di una maggiore pericolosità dell'agente rispetto all'ipotesi di furto semplice, non si realizza con modalità direttamente lesive dell'incolumità della persona stessa o della sua libertà morale, essendo indifferente ai fini della consumazione la presenza o meno del soggetto passivo nell'abitazione al momento della condotta attiva.

Diversamente, la rapina, quale tipico reato plurioffensivo, ricomprende nella propria oggettività giuridica tanto l'elemento patrimoniale, quanto la tutela della libertà morale del soggetto passivo, postulando, quale modalità vincolata della propria realizzazione, la violenza o la minaccia direttamente rivolta al soggetto passivo del reato; lo stesso vale per l'estorsione, perpetrata con violenza o minaccia, e in cui risultano lesi il patrimonio e la libertà di autodeterminazione della persona.

Queste considerazioni trovano riscontro nel trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore in termini progressivamente crescenti. Esso, infatti, ha parificato la pena del furto in abitazione e del furto con strappo (reclusione da tre a sei anni), aumentato nel massimo la pena del furto pluriaggravato (reclusione da tre a dieci anni) e ulteriormente aggravato, anche nel minimo, la pena per la rapina (reclusione da quattro a dieci anni) e per l'estorsione (reclusione da cinque a dieci anni).

Posto che la ragione dell'autonoma tutela penale prevista per il reato di furto in abitazione è proprio la protezione della sicurezza fisica della vittima che possa trovarsi all'interno dell'abitazione al momento del fatto, la cui naturale progressione nell'iter criminis è rappresentata dal più grave delitto di rapina, risulta paradossale la scelta legislativa di prevedere una modalità esecutiva più gravosa per il condannato per il reato di cui all'art. 624 -bis c.p. rispetto a quella prevista per tutte le altre fattispecie incriminatrici citate.

Tale progressione criminosa era, peraltro, stata riconosciuta dalla stessa Corte Costituzionale nella pronuncia n. 125/2016, che ha statuito l'illegittimità costituzionale del divieto di sospensione dell'ordine di carcerazione in relazione al furto con strappo di cui allo stesso art. 624 bis c.p., secondo cui «non sono rari i casi in cui, nel progredire dell'azione delittuosa, il furto con strappo si trasforma in una rapina, per la necessità di vincere la resistenza della vittima, o anche in una rapina impropria, per la necessità di contrastare la reazione della vittima dopo la sottrazione della cosa»

Come nel caso del furto con strappo, anche tra il furto in abitazione e la rapina sussiste una astratta progressione nell'offesa, in quanto la lesione posta in essere dal soggetto attivo del furto è suscettibile di estendersi dal patrimonio alla persona, ove presente nell'abitazione al momento della condotta attiva, giungendo a metterne in pericolo anche l'integrità fisica.

Se è vero che l'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p., laddove pone il divieto della sospensione dell'esecuzione prevista dal comma 5 dello stesso articolo, si fonda su una presunzione di pericolosità per i condannati per i reati compresi nel catalogo indicato in tale lettera, è altrettanto vero che gli indici di pericolosità ravvisabili nel furto in abitazione si rinvengono anche nel delitto di rapina.

È, dunque, contraddittoria la disciplina in vigore la quale, pur prevedendo per la rapina una pena molto più elevata, riconosce al suo autore un trattamento di maggior favore in sede esecutiva; e tale disparità di trattamento non si giustifica nemmeno alla luce delle caratteristiche dei due reati, i quali non consentono di assegnare all'autore di un furto in abitazione una pericolosità maggiore di quella riscontrabile nell'autore di una rapina attuata attraverso violenza alla persona.

A ciò si aggiunga che l'irrazionalità della disposizione emerge non solo con riguardo al trattamento sanzionatorio, ma anche per il fatto che viene considerato pericoloso, e, come tale, meritevole di immediata carcerazione, anche chi astrattamente abbia commesso un reato di modesta gravità e riportato una condanna ad una pena detentiva breve (come nel caso di specie), a differenza del soggetto il quale si sia reso responsabile di un reato più grave, e, per tale via, sia stato condannato ad una pena detentiva elevata, tenuto conto che il limite di pena previsto dall'art. 656, comma 5, c.p.p. ai fini della sospensione dell'esecuzione trova applicazione anche con riguardo alle pene residue.

La norma censurata ha, pertanto, introdotto una presunzione di pericolosità a priori, oltrepassando il limite della non manifesta irragionevolezza delle scelte legislative; presunzione che contrasta con il principio costituzionale di ragionevolezza. La discrezionalità del legislatore nella scelta relativa alle modalità di esecuzione della pena in relazione ai diversi titoli di reato, infatti, non può giungere al totale arbitrio dello stesso, come più volte ribadito proprio dal giudice delle leggi (sul punto, sentenze n. 394 del 2006, n. 144 del 2005, n. 364 del 2004 e n. 287 del 2001).

Il contrasto con il principio di rieducazione della pena
La disposizione censurata, secondo il giudice rimettente, oltre a violare l'art. 3 Cost., per le ragioni esposte, viola anche l'art. 27, comma 3, Cost., per il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato.

Questa finalità, pur non potendo essere limitata alla sola fase esecutiva, trova in essa il suo ambito di massima realizzazione, che non può essere circoscritto al solo trattamento penitenziario (sul punto cfr. Corte costituzionale sentt. nn. 23, 102 e 169 del 1985; n. 1023 del 1988) e che, di fatto, viene frustrata da un sistema automatico di carcerazione immediata.

L'applicazione automatica della detenzione carceraria, senza la possibilità di una valutazione, anteriore all'ingresso nell'istituto di pena del condannato, da parte del tribunale di sorveglianza circa l'opportunità di eventuali misure alternative alla detenzione, risulta in contrasto con la finalità rieducativa della pena, in forza della quale è prevalente l'esigenza di garantire il recupero sociale del condannato, attraverso la valorizzazione delle sue caratteristiche individuali.

L'orientamento consolidato dalla Corte costituzionale in tale ambito esclude, nella materia dei benefici penitenziari, rigidi automatismi e postula, invece, una valutazione individualizzata del prevenuto, cosi da fondare la concessione o meno del beneficio sulla sua attitudine a porre il condannato sulla via dell'emenda e del reinserimento sociale (così Corte costituzionale sent. n. 189 del 2010, n. 255 del 2006, n. 436 del 1999).

La stessa Corte costituzionale ha poi chiarito che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerunque accidit». «L'irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia «agevole» formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (Corte costituzionale, sent. n. 139 del 2010).

Orbene, nel caso di specie, la preclusione a priori dell'accesso alle misure alternative alla detenzione per l'espiazione di una pena breve (otto mesi di reclusione nel caso di specie) conseguente alla commissione del reato di furto in abitazione non trova ragione d'essere nel sistema ordinamentale alla luce dei principi costituzionali rammentati.

Le misure alternative alla detenzione si ricollegano all'esigenza di individualizzazione della pena in fase esecutiva, in rapporto alla quale la valutazione di pericolosità sociale del condannato, da condursi caso per caso, e non sulla base di arbitrarie presunzioni assolute, viene, per converso, in primario rilievo.

Nell'ordinamento italiano, come chiarito, l'ingresso in carcere dei soggetti condannati a pene detentive brevi, potenzialmente idonei ad usufruire delle misure alternative alla detenzione, è sospeso ab origine in ragione della presunzione di una loro scarsa pericolosità sociale sulla base dell'entità della pena irrogata; specularmente i divieti alla sospensione dell'esecuzione previsti dal più volte citato art. 656, comma 9, c.p.p., sono fondati sulla presunzione di pericolosità in relazione al titolo del reato, alla gravità della sanzione edittale o al particolare allarme sociale destato da talune condotte criminose, cui si affiancano condizioni d'accertata pericolosità.

In questa prospettiva, il meccanismo della sospensione dell'esecuzione delle pene detentive brevi trova giustificazione proprio nel finalismo rieducativo della pena, essendo diretto a evitare l'impatto con la struttura carceraria di chi sarebbe destinato a restarvi brevemente, ed a favorire, in tal modo, la riabilitazione del condannato che venga poi ammesso ad espiare la stessa pena in regime alternativo alla detenzione.

In conclusione, la disposizione censurata, secondo il giudice rimettente, laddove ha esteso le ipotesi in cui non è concessa la sospensione dell'ordine di carcerazione oltre quelle in cui non è ammessa alcuna misura alternativa alla detenzione, ex art. 4-bis ord. pen., ha, dunque, introdotto una aprioristica presunzione di pericolosità, insolita nel sistema dell'esecuzione delle pene detentive brevi, con conseguenze paradossali sul piano della coerenza del sistema, in contrasto con il principio di uguaglianza e con la finalità rieducativa della pena.

Il ruolo di parametro interpretativo della Cedu

L'eccezione di incostituzionalità sollevata dal Tribunale di Agrigento con l'ordinanza in commento, infine, trae forza anche nell'ordinamento convenzionale e nell'interpretazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, fornita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.

Sempre più spesso, infatti, le indicazioni fornite della Corte di Strasburgo in merito all'interpretazione della Cedu guidano il legislatore e i giudici nazionali nella risoluzione delle questioni interpretative interne.

In relazione al caso di specie, nell'ordinanza in esame si menzionano la sentenza Sulejmanovic contro Italia del 2009 e la sentenza Torreggiani contro Italia del 2013, che hanno imposto all'ordinamento interno l'obbligo del superamento del sovraffollamento degli istituti penitenziari, ma anche il dovere di rimodulare l'esecuzione della pena in carcere in termini congruenti a tutti i parametri integranti l'osservanza dell'art. 3 Cedu, anche con forme rimediali preventive.

I criteri di riforma dell'ordinamento penitenziario dettati dal comma 85 dell'art. 1 della legge 103 del 2017 (c.d. legge di riforma Orlando) costituiscono l'adempimento di tale obbligo, traducendosi in un disegno di riforma che punta ad andare al cuore della funzione della pena per valorizzarne le potenzialità di recupero sociale, anche attraverso la progressività di trattamento. La riforma è orientata all'abbandono dell'opzione «carcerocentrica» in favore della scelta di recupero del reo realizzata attraverso misure alternative sulla scorta del dettato costituzionale (art. 27, comma 3, Cost.), che allude in maniera significativa non già alla «pena», al singolare, bensì alle «pene», al plurale, la cui comune finalità è la rieducazione del condannato.

Il principio costituzionale dell'umanizzazione delle pene e del costante adattamento delle loro modalità attuative alla finalità della rieducazione del condannato, favorendo l'applicazione di misure alternative alla detenzione per i condannati a pene di breve durata trova, pertanto, un ostacolo invalicabile e, per quanto detto, del tutto irragionevole ed eccentrico rispetto al contesto ordinamentale, nel dettato dell'art. 656, comma 9, lett.a), c.p.p. che, per le ragioni esposte, appare incostituzionale nella parte in cui prevede che per il reato di cui all'art. «624 bis c.p.» non possa essere sospeso l'ordine di esecuzione della carcerazione emesso dal P.M.

In conclusione

A seguito dell'ampia ricostruzione del contesto normativo di riferimento e avuto riguardo della giurisprudenza, anche costituzionale, in materia, il Tribunale di Agrigento, quale giudice dell'esecuzione, visti gli artt. 134 Cost., 1 della legge cost. n. 1 del 1948, 23 della legge n. 87 del 1953, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. nella parte in cui prevede il reato di furto in abitazione, ex art. «624-bis c.p.», per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., sospende il giudizio interessato e, come previsto dal codice di rito, dispone l'immediata trasmissione dei relativi atti alla Corte costituzionale.

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