Roberta Nardone
08 Febbraio 2019

La studio della motivazione, uno degli aspetti contenutistici formali della sentenza, è strettamente legato alla mutata visione dell'attività giurisdizionale civile, oggi più che mai improntata alle esigenze di drastica riduzione dei tempi del processo.
Inquadramento

La sentenza è l'atto giurisdizionale per eccellenza ed è considerato storicamente e concettualmente l'atto con il quale si esprime l'essenza della Iurisdictio.

La studio della motivazione, uno degli aspetti contenutistici formali della sentenza, è strettamente legato alla mutata visione dell'attività giurisdizionale civile, oggi più che mai improntata alle esigenze di drastica riduzione dei tempi del processo.

Infatti, una profonda evoluzione ha interessato, soprattutto negli ultimi decenni la sentenza e la sua motivazione, determinata dai ripetuti interventi del legislatore in materia e dalla giurisprudenza di legittimità che, prendendo atto dei molteplici cambiamenti intervenuti nella società (ad es. l'aumento vertiginoso del contenzioso, la necessità di definire la controversia in tempi ragionevoli, la disponibilità per gli operatori del diritto di ricorrere agli strumenti informatici per la scrittura e la copia degli atti) ha in modo significativo contribuito a modificare la cultura della sentenza civile.

La copertura costituzionale dell'obbligo di motivazione

L'obbligo costituzionale di motivazione è sancito nell'art.111, comma 6, Cost. ed è strettamente connesso al principio dell'indipendenza (rectius: dell'imparzialità) del giudice «in ordine alla singola controversia decisa», al principio della soggezione del giudice alla legge (o di legalità della decisione) ed alla garanzia della difesa.

Secondo la dottrina la dignità costituzionale dell'aspetto motivatorio della decisione giudiziaria, si giustifica con il fatto che il legislatore abbia inteso perseguire, infatti, quattro fondamentali finalità.

Due attengono alla funzione c.d. endoprocessuale della motivazione, consistente, in sostanza, nel consentire alle parti di individuare i vizi della sentenza in vista di una eventuale impugnazione e della formulazione dei relativi motivi e si individuano nel garantire:

1. il diritto di difesa delle parti in quanto l'esposizione dei motivi è funzionale al potere di impugnazione;

2. la verifica – ad opera dello stesso giudice – del proprio ragionamento decisorio (controllo «interno»).

Due ineriscono la funzione extraprocessuale della motivazione la quale affianca al «controllo democratico» del comune cittadino (c.d. controllo esterno) un controllo sia da parte degli altri organi dello Stato sia quello (ricognitivo, disciplinare) in seno allo stesso ordine giudiziario. La motivazione, quindi, costituisce:

3) la migliore garanzia di controllo sul rispetto di altri principi costituzionali in materia di esercizio della funzione giurisdizionale, quali l'osservanza della legge, il diritto di azione e di difesa, la terzietà ed imparzialità del giudice;

4) la garanzia per tutti i cittadini di un controllo esterno e diffuso dell'esercizio del potere giurisdizionale in un'ottica di trasparenza della funzione giurisdizionale.

Il contenuto della sentenza

L'art.132 c.p.c. prescrive, come recita la rubrica, il “Contenuto della sentenza” ovvero quello formale minimo del provvedimento decisorio (l'indicazione del giudice che l'ha pronunciata; l'indicazione delle parti e dei loro difensori; conclusioni del pubblico ministero e quelle delle parti; concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione; il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione del giudice).

Le premesse di fondo sono due:

1. la sentenza è formata essenzialmente, oltre che dalla parte espositiva, dalla parte motiva e dalla parte dispositiva, elementi tutti che, «nella loro intima compenetrazione, concorrono indissolubilmente a creare la forza imperativa della decisione del Giudice e che mancando l'una o l'altra, la sentenza stessa è inesistente e non soltanto affetta da vizio di nullità emendabile con i normali mezzi di impugnazione» (cfr. Cass. civ., n. 18948/2006);

2. si configura l'inesistenza della sentenza ogni qual volta «essa difetti di quel minimo di elementi e presupposti che sono necessari per produrre l'effetto di certezza giuridica che è lo scopo del giudicato» (cfr. Cass. civ., n. 8442/2003; Cass. civ., n. 1816/1999).

Non è necessario che i requisiti di forma-contenuto siano indicati nell'ordine esposto dalla legge o siano espressi con formule sacramentali, essendo sufficiente, in applicazione del principio della congruità della forma allo scopo, che ciascuno di essi possa essere desunto chiaramente e senza incertezze dal contesto della sentenza (Cass. civ., n. 79/4870). In Cass. civ., sez. I, 8 marzo 2007, n. 5337: «Ai fini della verifica del vizio di omessa pronuncia, la portata precettiva di un provvedimento giurisdizionale va individuata tenendo conto non solo del dispositivo, ma anche della motivazione, quando il primo contenga comunque una decisione che, pur di contenuto incompleto e indeterminato, si presti ad essere integrata dalla seconda, come nel caso in cui il dispositivo contenga la formula “ogni diversa e contraria istanza disattesa” e nella parte motiva una determinata domanda sia esaminata e rigettata. (Rigetta, App. Roma, 25 Luglio 2002)».

La decisione ex art. 281-sexies c.p.c.: motivazione breve e motivazione contestuale

La motivazione della sentenza emessa secondo la forma semplificata dell'art. 281-sexies c.p.c. non differisce dalla sentenza pronunciata nel modo ordinario all'esito della trattazione scritta o mista (art. 281-quinquies c.p.c.). Ed infatti, la formula adoperata da tale norma – «concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione» – corrisponde perfettamente a quella dell'art. 132, comma 1 n. 4, c.p.c. novellato.

Nel giudizio ordinario di cognizione, peraltro, lo strumento decisorio previsto dall'art. 281-sexies c.p.c. ha avuto fortuna perché rappresenta una motivazione semplificata (o breve), priva del tutto di ogni riferimento allo svolgimento del processo.

L'adozione di tale schema dipende essenzialmente dall'iniziativa del giudice – anche nel giudizio di appello, ex art. 352 ultimo comma c.p.c. come novellato dalla l. n. 183/2011 (norma applicabile anche ai giudizi precedenti l'entrata in vigore: in questo senso Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2015, n. 825) – che può, quindi, imporlo indipendentemente da una richiesta delle parti e anche contro la loro volontà (cfr. Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2015, n. 22871).

Sul punto la Suprema Corte ha statuito che «In caso di decisione della causa ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c., la facoltà della parte di richiedere un differimento dell'udienza di discussione, che trova fondamento nella tutela del diritto di difesa, è parimenti soddisfatta dalla fissazione officiosa di apposita udienza per la trattazione orale, in esito alla quale la parte non ha diritto ad un ulteriore rinvio, a nulla rilevando la mancata acquisizione, all'udienza precedente, delle conclusioni rassegnate, in quanto l'omissione di tale attività processuale (che si compendia nella mera sintesi delle domande, delle difese e delle eccezioni proposte) può dar luogo ad una nullità processuale solamente qualora la parte interessata deduca la specifica lesione di un interesse sostanziale» Cass. civ., sez. VI, ord., n. 22521/2018 e Trib. Roma, sez.VI, sent., n. 20696/2018).

Il giudice, laddove ne ravvisi i presupposti, invita le parti a precisare le conclusioni ed ordina la discussione orale nella medesima o in una successiva udienza; esaurita la discussione, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo e della concisa motivazione; la sentenza è immediatamente pubblicata.

Sulla piena libertà di scelta della motivazione semplificata da parte del decidente può segnalarsi Cass. civ., sez. II, 4 luglio 2012, n. 11199.

Il tenore letterale della norma («... In questo caso la sentenza si intende pubblicata con la sottoscrizione da parte del giudice del verbale che la contiene ed è immediatamente depositata in cancelleria») impone al giudice di redigere la sentenza (dispositivo e motivazione) nel corpo del verbale, senza soluzione di continuità rispetto alle verbalizzazioni che la precedono. Proprio per ciò, ad esempio, le conclusioni delle parti (pure precisate a verbale ex art. 62 disp. att. c.p.c.), non andranno ripetute nell'epigrafe della sentenza (mentre tale incombente è rimasto nello schema delineato dall'art. 132 c.p.c.).

Una volta che il giudice abbia redatto e firmato il provvedimento, dovrà ritenersi perfezionato il procedimento di pubblicazione senza necessità di altri adempimenti di cancelleria e con decorrenza del termine per l'impugnazione.

Le novità normative trovano applicazione anche per le sentenze redatte ai sensi dell'art. 429 c.p.c., da adottare in tutti i procedimenti disciplinati dal rito del lavoro: per il codice di rito, il riferimento ai giudizi in materia locatizia, anche quelli che seguono la cd. fase sommaria (procedimenti di sfratto e licenza, artt. 657 e ss. c.c.); per la legge speciale, oggi le varie ipotesi sono contemplate dal d.lgs. 150/2011 (art. 2 per le disposizioni comuni, gli articoli da 6 a 13 prevedono i vari casi, ivi comprese quelle opposizioni a sanzioni amministrative previste dalla l. n. 689/81 per le ipotesi di competenza del Tribunale sin dal primo grado.

La motivazione quale «concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione»

L'art. 132 n. 4 è stato riformato dall'art. 45, comma 17, della l. n. 69/09 con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009.

La disposizione transitoria di cui al successivo art. 58 prevede l'applicabilità, tra gli altri, dell'art. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. anche ai giudizi pendenti in primo grado alla data del 4.7.2009. L'intervento normativo introduce elementi di novità, sia alla struttura e al contenuto della sentenza intesa quale documento, atto processuale conclusivo del giudizio, sia alla decisione, intesa come attività cognitiva, come percorso mentale di formazione del convincimento del giudice mediante l'elaborazione delle emergenze processuali.

La modifica dell'art. 132 n. 4 c.p.c. prevede che la sentenza civile contenga non più «la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione», bensì «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione»; viene meno quindi la ricostruzione “dello svolgimento del processo”, cioè di quel la parte introduttiva e riassuntiva, nella quale venivano riepilogati, oltre al contenuto sintetico delle domande e delle eccezioni delle parti, gli eventi processuali più significativi sino alla conclusione del giudizio. L'eliminazione di tale sezione della sentenza risponde ad esigenze di speditezza nell'attività di redazione del documento contenente la decisione della lite

Ne consegue che dal 4.7.2009 tutte le decisioni dovranno essere motivate seguendo le “istruzioni” di cui al citato n. 4 («concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione») e dall'art. 118 disp. att. c.p.c..

Il predetto art.132 c.p.c. racchiude la sostanza della motivazione civile di merito, altrimenti definita dalla dottrina come la rappresentazione e documentazione dell'iter logico intellettivo seguito dal giudice per arrivare alla decisione.

Identica locuzione è adottata dall'art. 281-sexies c.p.c., rubricato “decisione a seguito di trattazione orale”, per definire il contenuto motivazionale della sentenza pronunciata in udienza: «…il Giudice fatte precisare le conclusioni, può ordinare la trattazione orale della causa nella stessa udienza o, su istanza di parte, in udienza successiva e pronuncia sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione…» ( Applicabile anche al processo innanzi al Giudice di Pace in virtù del richiamo di cui all'art. 311 c.p.c. ed in linea con la volontà del legislatore di adottare un procedimento semplificato).

L'art. 118 disp. att. c.p.c., anch'esso oggetto di riforma, definisce “in che cosa consiste” la motivazione e quindi sembra finalizzato ad esplicitare ciò che l'art.132 n.4 e l'art. 429 c.p.c esprimono in forma sintetica. Detta norma specifica gli elementi della motivazione così come descritti dall'art. 132 c.p.c. chiarendo che: «La motivazione della sentenza di cui all'art. 132, comma 2 n. 4, del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi».

Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicate le norme di legge e i principi di diritto applicati. Nel caso previsto dall'art.114 c.p.c. devono essere esposte le ragioni di equità sulle quali è fondata la decisione.

In ogni caso deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici…” (testo modificato dall'art. 52, comma 5, della l. n. 69/09 (Il testo previgente così recitava: «La motivazione della sentenza di cui all'art. 132 n. 4 c.p.c. consiste nell'esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione»).

Il legislatore in sostanza ha provveduto alla abolizione dello “svolgimento del processo”. Alla luce della riforma, infatti. il Giudice sarà legittimato ad omettere il paragrafo “SVOLGIMENTO DEL PROCESSO” con la descrizione minuziosa delle fasi processuali sempre che non costituiscano passaggi rilevanti per la decisione. La lettura combinata dell'art. 132 c.p.c. e dell'art. 118 disp.att.(succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa) avverte l'interprete che l'esposizione cronologica della vicenda processuale potrà omettersi solo ed in quanto la stessa non abbia ricadute sulle ragioni della decisione.

L'art. 118 disp. att. continua ad imporre la «succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa»il Giudice è, pertanto, ancora tenuto a menzionare tutti i fatti che influiscono sul processo decisionale.

Va precisato che già prima della riforma lo svolgimento del processo non era considerato requisito necessario della motivazione a condizione che i fatti ritenuti rilevanti per la decisione fossero adeguatamente e chiaramente evincibili nel corpo complessivo del testo (Cfr. Cass. civ., 19 marzo 2009, n. 6683).

Le c.d. ragioni di diritto

L'adozione del diverso termine “ragioni di diritto” anziché “motivi in diritto”, è stato da alcuni letto come un esplicito riferimento al procedimento logico argomentativo tipico del ragionare.

La motivazione succinta, così come delineata dal legislatore della riforma del 2009, investe anche le argomentazioni giuridiche della decisione.

In relazione ad esse, così come avviene per l'individuazione dei fatti da esplicitare in sentenza, il Giudice dovrà limitarsi ad affrontare tutte e solo le questioni di diritto funzionali alla decisione, omettendo ogni argomentazione ad essa non necessaria.

In tale prospettiva sarà consigliata l'omissione della trattazione di una questione se assorbita dalla già compiuta analisi di un'altra (così in Cass. civ., sez. I, 23 aprile 2008, n. 10545).

La motivazione in diritto impone al Giudice l'individuazione e l'interpretazione della norma di diritto da applicare al caso concreto.

L'interpretazione consiste nel fornire ragioni a sostegno del significato proposto per una disposizione e l'attività ermeneutica si svolge attraverso argomenti interpretativi: l'argomento a contrario; l'argomento a simili; l'argomento a fortiori; l'argomento della completezza della disciplina giuridica; l'argomento della coerenza della disciplina giuridica; l'argomento psicologico; l'argomento teleologico; l'argomento storico; l'argomento autoritativo o ab exemplo; l'argomento apagogico o ab absurdo; l'argomento economico; l'argomento sistematico; l'argomento equitativo; l'argomento naturalistico o della natura delle cose; l'argomento dei principi generali del diritto o analogia iuris.

Le ragioni in diritto della decisione possono ritenersi soddisfatte anche attraverso il richiamo a principi elaborati dalla Corte di cassazione purché se ne riporti la massima con l'indicazione dei precedenti conformi e si espliciti il ragionamento logico che ha indotto il giudicante a ritenere pertinenti al caso concreto i principi richiamati (Cass.civ., sez. III, 5 giugno 2007, n. 13066; Cass. civ.,sez. I, 22 dicembre 2005, n. 28480).

Va, infine, precisato che la motivazione non deve necessariamente contenere l'indicazione dell'articolo di legge applicato al caso sub iudice (Cass.civ., sez. II, 24 novembre 2008, n. 27890).

Il riferimento ai precedenti conformi

La locuzione è stata introdotta dall'art. 16 del d.lgs.n.5/2003. Il legislatore ha inciso sulla tecnica della motivazione. Il «riferimento ai precedenti conformi» richiama il cd. filtro in Cassazione, oggi disciplinato dall'art. 360-bis c.p.c. introdotto dalla l.n. 69/2009 (ma già oggetto della novella del 2006, che aveva aggiunto al codice di rito il diverso art. 366-bis c.p.c., poi abrogato nel 2009), che prevede la inammissibilità per manifesta infondatezza del ricorso per cassazione analoga a quella prevista dall'art. 606, comma 3, c.p.p.. La declaratoria di manifesta infondatezza, tale da condurre alla inammissibilità del ricorso in Cassazione, presuppone che il provvedimento impugnato sia conforme all'orientamento giurisprudenziale della Corte in relazione alle questioni di diritto decise. Sottesa alla scelta legislativa vi è l'esigenza di stabilizzazione delle decisioni del Supremo Collegio, al fine di perseguire eguaglianza di trattamento, ragionevole durata dei processi, certezza del diritto.

Il testo novellato dell'art. 118 disp. att. c.p.c. diviene quindi complementare alla previsione dell'art. 132, nel senso che ne delinea la portata, pure con riferimento alla possibilità di citare i precedenti conformi. La disposizione mira non tanto a consentire la citazione di precedenti giurisprudenziali (facoltà già costantemente osservata), quanto a consentire un deciso snellimento delle motivazioni, evitando di dover ripetere per intero un percorso motivazionale già disponibile altrove e facilmente rintracciabile attraverso le banche dati e gli archivi specializzati del web (Trib. Mondovì, 22 marzo 2010).

Inoltre, il riferimento ai «precedenti conformi» deve intendersi in senso lato, potendosi richiamare anche precedenti di merito purché, ovviamente, conoscibili dalle parti, anche se conviene in ogni caso riprodurre il principio di diritto enunciato dal precedente richiamato.

Inoltre, non è solo la decisione passata in giudicato a costituire precedente, atteso che, ai sensi dell'art. 118 d.a. c.p.c., possono essere richiamate anche pronunce ancora non definitive.

Requisiti della motivazione (art.118 disp. att. c.p.c.): sufficienza, logicità, ordine

La motivazione deve essere presente e non apparente (art.360 n.5 c.p.c.).

L'ipotesi ricorre nel caso a) di omessa motivazione della sentenza. Si tratta del raro caso di carenza radicale di ogni argomentazione a sostegno della decisione; b) di motivazione affetta da contraddittorietà assoluta connotata da affermazioni tra loro inconciliabili e che si elidono a vicenda; c) di omessa pronuncia intesa come mancato esame di una domanda.

Si configura quando la motivazione, pur non mancando o non essendo meramente apparente, tuttavia non ha considerato un singolo aspetto del giudizio sul fatto che si dimostri determinante per la soluzione della controversia, ossia una questione o una circostanza che se valutata avrebbe portato ad una decisione diversa, o una prova che se tenuta presente avrebbe dimostrato la sussistenza di un fatto determinante per la decisone, o ancora istanze probatorie che avrebbero influito in modo determinate sulla decisone. Il vizio citato non può invocarsi al fine di ottenere una diversa valutazione del materiale probatorio.

Omessa motivazione: tale può definirsi la sentenza che appare intrinsecamente inidonea a far percepire le ragioni che stanno alla base della decisione: «La sentenza è nulla ai sensi dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., ove risulti del tutto priva dell'esposizione dei motivi sui quali la decisione si fonda ovvero la motivazione sia solo apparente, estrinsecandosi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi» (Cass. civ., sez. lav., 8 gennaio 2009, n. 161). La “succinta” esposizione dei fatti e delle ragioni di diritto deve consentire, comunque, al difensore ed alla parte di “captare” la ratio decidendi del giudice, anche al fine di poter proporre i motivi di appello. Sul punto, Cass. civ., sez. lav., 8 gennaio 2009, n. 161 ha precisato che è nulla la sentenza resa «ai sensi dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., ove risulti del tutto priva dell'esposizione dei motivi sui quali la decisione si fonda ovvero la motivazione sia solo apparente, estrinsecandosi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi»ha individuato i seguenti requisiti della motivazione: sufficienza, logicità e ordine.

Il requisito della sufficienza

Si suole ritenere sufficiente la motivazione quando il Giudice indica a sostegno del proprio convincimento ragioni che siano obiettivamente adeguate, sul piano logico e su quello delle massime di esperienza, a giustificare la decisione (Cass. civ., n. 95/6189).

La giurisprudenza precisa, infatti, che: «Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., non sussiste quando nella motivazione, sia chiaramente illustrato il percorso logico seguito per giungere alla decisione e risulti comunque desumibile la ragione per la quale ogni contraria prospettazione sia stata disattesa, senza però che il giudice abbia l'obbligo di esaminare tutti gli argomenti logici e giuridici prospettati dalle parti per sostenere le loro domande ed eccezioni»(Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2007, n. 11193).

Il requisito di sufficienza della motivazione non richiede, infatti, l'analisi di tutte le questioni prospettate dalle parti, né la precisa esposizione di tutte le singole fonti di prova e del loro specifico peso probatorio.

Di notevole rilevanza è la completezza della motivazione in relazione alla valutazione del materiale probatorio:

«Il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell'accertamento dei fatti si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti al giudizio, considerati nel loro complesso. In particolare, nel rito del lavoro, come in quello ordinario, se la contumacia del convenuto non equivale ad ammissione dell'esistenza dei fatti dedotti dall'attore a fondamento della propria domanda, e se a tal fine è ugualmente irrilevante la mancata comparizione personale della parte all'udienza fissata per l'interrogatorio libero, tuttavia tale condotta processuale costituisce elemento liberamente apprezzabile dallo stesso giudice ai fini della decisione» (Cass. civ., sez. lav., 20 febbraio 2006, n. 3601; cfr. Cass. civ., sez. III, 19 luglio 2005, n. 15213).

In merito preziose indicazioni provengono da Cass. civ., sez. V, 23 gennaio 2006, n.1236: «Ai fini della sufficienza della motivazione della sentenza, il giudice non può, quando esamina i fatti di prova, limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, perché questo è il solo contenuto "statico" della complessa dichiarazione motivazionale, ma deve impegnarsi anche nella descrizione del processo cognitivo attraverso il quale è passato dalla sua situazione di iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario contenuto "dinamico" della dichiarazione stessa. (Sulla base dell'enunciato principio, la Suprema Corte ha quindi cassato con rinvio la sentenza impugnata, la quale aveva ritenuto che gli elementi addotti dall'amministrazione finanziaria a sostegno della pretesa tributaria oggetto di giudizio, pure diligentemente elencati, fossero inidonei a provare la tesi dell'Ufficio, senza tuttavia illustrare le ragioni di tale conclusiva valutazione) (Cassa con rinvio, Comm. Trib. Reg. Venezia, 20 Settembre 1999)» .

Completa è la motivazione che rispetta il canone della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

La motivazione, più precisamente, deve essere “Autosufficiente” nel senso che deve consentire di ripercorrere l'iter logico-giuridico seguito dal giudicante e di cogliere le ragioni della soluzione prescelta. In particolare, il requisito della sufficienza funzionalizza la motivazione all'oggetto del decisum, nel senso che sufficiente è la motivazione completa, vale a dire quella che copre non solo tutte le domande e le eccezioni, ma anche tutti i punti decisivi della controversia (Cass. civ., n. 12123/2013).

Ai fini della sufficienza della motivazione della sentenza, il giudice non può, quando esamina i fatti di prova, limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, perché questo è il solo contenuto “statico” della complessa dichiarazione motivazionale, ma deve impegnarsi anche nella descrizione del processo cognitivo attraverso il quale è passato dalla sua situazione di iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario contenuto “dinamico” della dichiarazione stessa (Cass. civ., n. 1236/2006).

É dunque sufficiente il riferimento alle ragioni in fatto e in diritto ritenute idonee a giustificare la soluzione adottata (Cass. civ., n. 8451/2012).

Non può, pertanto, imputarsi al giudice d'aver omesso l'esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacché né l'una né l'altra gli sono richieste, mentre soddisfa all'esigenza d'adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé idonee e sufficienti a giustificarlo (Cass. civ., n. 10921/2011).

Secondo al Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, 10 marzo 2016, n. 4683) la motivazione della sentenza è assente non solo quando sia stata assolutamente omessa o quando il testo di essa, scritto a mano (come nella specie), sia assolutamente indecifrabile, ma anche quando la sua scarsa leggibilità renda necessario un processo interpretativo del testo con esito incerto

CASISTICA

Sentenza stesa su modulo predisposto

La giurisprudenza ha ritenuto non viziata per omessa o insufficiente motivazione la sentenza stesa su modulo predisposto quando il modulo sia stato utilizzato o adattato in maniera tale che la motivazione risulti aderente alla concretezza del caso deciso, con gli opportuni specifici riferimenti agli elementi di fatto che lo caratterizzano (Cass. civ., sez.I, 17 novembre 2006, n. 24508).

Rigetto mezzi istruttori

Si ritiene superflua la specifica indicazione delle ragioni che sorreggono il rigetto dei mezzi istruttori richiesti dalle parti, quando l'inutilità dell'istruttoria invocata possa implicitamente dedursi dal complesso della motivazione (Cass. civ., n. 106/95).

Mero rinvio alle motivazioni addotte dalle parti

Non è sufficientemente motivata la sentenza che acriticamente ricalca le motivazioni addotte da una delle parti (Cass. civ., n. 4741/87).

Motivazioni e risultanze della CTU

Quando l'accertamento di determinati fatti per la loro tecnicità è demandato ad un Consulente tecnico d'Ufficio il Giudice se intende aderire alle risultanze della CTU può limitarsi a riprodurre i passaggi salienti della relazione senza necessità di un esame critico (Cass. civ., n. 125/2003).

Il giudice può disporre la consulenza e aderire alle conclusioni della stessa senza essere tenuto a motivare l'adesione, salvo che dette conclusioni non formino oggetto di specifiche censure (Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2006, n. 3191).

L'esame critico della relazione risulta, invece, necessario quando una parte ne contesti in modo specifico le risultanze (Cass. civ., n. 4797/2007) o quando il Giudice intende discostarsi dalle stesse (Cass. civ., n.5485/1993).

Accertamenti tecnici contrastanti

Quando, in presenza di due successive contrastanti consulenze tecniche d'ufficio il giudice aderisca al parere del consulente che abbia espletato la sua opera per ultimo, la motivazione della sentenza è sufficiente – ed è escluso quindi il vizio di motivazione, deducibile in cassazione ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. –, pur se tale adesione non sia specificamente giustificata, ove il secondo parere tecnico fornisca gli elementi che consentano, su un piano positivo, di delineare il percorso logico seguito e, sul piano negativo, di escludere la rilevanza di elementi di segno contrario, siano essi esposti nella prima relazione o aliunde deducibili. In tal caso, le doglianze di parte, che siano solo dirette al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico e non individuino gli specifici passaggi della sentenza idonei ad inficiarne, anche per derivazione dal ragionamento del consulente, la logicità, non possono configurare l'anzidetto vizio di motivazione (Cass. civ., sez. lav., 27 febbraio 2009, n. 4850).

Il «principio della ragione più liquida»

Adoperando il criterio della ragione più liquida, la pronuncia viene emessa sulla base di un'unica ragione, a carattere assorbente, che da sola è idonea a regolare la lite, ancorché l'astratto ordine logico delle questioni imporrebbe un percorso diverso e più lungo. La domanda può quindi essere respinta sulla base della soluzione di una questione assorbente già pronta, senza che sia necessario esaminare previamente tutte le altre (Cass. civ., n. 11356/2006; Cass. civ., n. 16630/2013). Trib. Monza, sez. I, 7 luglio 2016, n. 1951 segnala che «il principio della ragione più liquida risponde ad esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, anche costituzionalizzate ai sensi dell'art. 111 Cost., e che ha come sfondo una visione dell'attività giurisdizionale, intesa non più come espressione della sovranità statale, ma come un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli».

Il punto di sintesi tra completezza e sufficienza (uno degli spunti di maggior interesse pratico nella redazione della sentenza) è dato dal

Il principio comporta il venir meno all'obbligo di trattare tutte le questioni del processo secondo l'ordine gradato richiamato dal codice di rito (cfr. artt. 118, comma 2 d.a. c.p.c.; 276, 279 c.p.c.): peraltro la parte non viene pregiudicata sensibilmente nel diritto di difesa in quanto la decisione avrà efficacia di giudicato solo sulle questioni decise e non su quelle assorbite, salvo l'eventuale giudicato implicito che si sia formato.

Il «principio dell'assorbimento»

Connessa al criterio della decisione secondo la ragione più liquida è la tecnica dell'assorbimento di questioni, domande ed eccezioni.

A) Domande subordinate: se il giudice accoglie la domanda principale, non deve pronunciare sulla subordinata, che rimane assorbita (se invece accogliesse la domanda subordinata, senza nulla dire sulla principale, si avrebbe il vizio di omessa pronuncia).

B) Domande alternative: il giudice può limitarsi a motivare sulla domanda che accoglie, senza nulla dire dell'altra, che si deve ritenere implicitamente rigettata.

In una pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite (9 ottobre 2008 n. 24883), ove il giudice di merito ha deciso la causa senza esame della questione di giurisdizione, dunque non affrontata: la Suprema Corte evidenzia che l'ordine delle questioni e la possibilità per il giudice di decidere solo quando ha giurisdizione, comporta che il giudice deve averla implicitamente (decisione implicita, appunto) ritenuta sussistente.

Pertanto, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implichino l'affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l'unico tema dibattuto sia stato quello relativo all'ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l'evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito “per saltum”, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito.

La motivazione per relationem

La motivazione per relationem è quella che rinvia ad altri atti (esterni o interni al processo) ai fini del reperimento delle ragioni giuridiche (in fatto e diritto). Secondo alcuni si deve distinguere:

1) Motivazione per rinvio, che non è motivazione per relationem in senso tecnico-giuridico e si ha quando il giudice, per motivare, semplicemente rinvia ad un altro atto: vizio della decisione (motivazione cd. apparente).

2) Motivazione per relationem vera e propria: richiamo ad un altro provvedimento decisorio o atto per condividerlo o farlo proprio, mediante indicazione delle ragioni che giustificano la relatio.

La motivazione della sentenza per relationem è ammissibile, dovendosi giudicare la sua completezza e logicità sulla base degli elementi contenuti nell'atto al quale si opera il rinvio e che, proprio in ragione del rinvio, diviene parte integrante dell'atto rinviante; costituisce tuttavia principio generale dell'ordinamento – desumibile dagli art. 3 l. n. 241/1990 e 7, comma 1, l. n. 212/2000 per gli atti amministrativi – quello secondo cui il rinvio va operato in modo tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione per relationem (Cass. civ., n. 3367/2011).

La sentenza può richiamare un atto esterno, che assume un valore integrativo del percorso motivazionale della stessa. Con riferimento alla motivazione per relationem, il Supremo Collegio ne ha evidenziato (cfr. Cass. civ., sez. I, 11 maggio 2016, n. 9615) l'ammissibilità precisando che una simile tecnica di motivazione deve esser coordinata con la necessità di valutare la completezza e logicità dell'argomentazione in concreto riportata nel provvedimento, in sè e sulla base degli elementi contenuti nell'atto al quale è operato il rinvio; atto che, proprio in ragione del rinvio, deve diventare parte integrante del provvedimento rinviante. Pertanto nel caso di motivazione per relationem, il rinvio va operato in modo tale da rendere sempre possibile e agevole il controllo della motivazione e purché risulti con sufficiente chiarezza e precisione il ragionamento del giudice (v. Cass. civ., sez. V, n. 20648/15).

CASISTICA

Motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame

É legittima purché il giudice, riportando il contenuto della decisione evocata, non si limiti a richiamarla genericamente ma la faccia propria con autonoma e critica valutazione, ossia occorre che il giudice d'appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze risulti appagante e corretto (Cass. civ., n. 22910/2012; Cass. civ., Sez. Un., n. 6538/2010), il che presuppone che sia comunque riportato, ancorché sommariamente, il contenuto della sentenza di primo grado in modo da rendere chiaro e trasparente il contenuto del ragionamento al quale il giudice d'appello ha inteso aderire (Cass. civ., sez. I, 19 luglio 2016, n. 14786).

L'adesione del Giudice alle conclusioni del CTU

Quando l'accertamento di determinati fatti per la loro tecnicità è demandato ad un Consulente tecnico d'Ufficio il Giudice se intende aderire alle risultanze della c.t.u. può limitarsi a riprodurre i passaggi salienti della relazione senza necessità di un esame critico (Cass. civ., n. 125/2003).

Il giudice può disporre la consulenza e aderire alle conclusioni della stessa senza essere tenuto a motivare l'adesione, salvo che dette conclusioni non formino oggetto di specifiche censure (Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2006, n. 3191).

L'esame critico della relazione risulta, invece, necessario quando una parte ne contesti in modo specifico le risultanze (Cass. civ., n. 4797/2007) o quando il Giudice intende discostarsi dalle stesse (Cass. civ., n. 5485/1993).

Richiamo agli atti delle parti

La giurisprudenza ha chiarito che è conforme al disposto dell'art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., con riferimento al requisito dell'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, la sentenza di merito la cui motivazione, pur riportando ampi stralci del percorso logico risultante dalla comparsa depositata nell'interesse di una delle parti, così recependo in modo prevalente l'impostazione difensiva adottata dalla parte, risulti tuttavia supportata da idonei e critici spunti di ragionamento logico-giuridico sui vari aspetti della vicenda sottoposta al vaglio del giudice (Cass. civ., n. 7477/2011). Non possono ritenersi rigettate per implicito determinate domande, eccezioni o deduzioni sulla base della semplice dichiarazione in sentenza, di “rigetto di ogni contraria istanza, eccezione e deduzioni”, trattandosi di una mera clausola di stile (Cass. civ., n. 19208/2011).

Richiamo ai precedenti giurisprudenziali

Non assolve all'obbligo di motivazione la sentenza che, senz'altro vaglio che quello di una generica assonanza, si limita alla lettura della sola massima, senza formulare alcuna specifica valutazione sui fatti rilevanti di causa e, dunque, senza ricostruire la fattispecie concreta ai fini della sussunzione in quella astratta (Cass. civ., n.11710/2011).

Soddisfa l'obbligo di motivazione la sentenza del giudice di merito – tenuto alla concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione – che, in punto di diritto e sulla questione discussa e decisa, riportati l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, dichiarando di condividerlo e di volervisi uniformare, in quanto anche in tal caso e con tali modalità risultano esposte, sia pure sinteticamente, le ragioni giuridiche della decisione (Cass. civ., n. 13066/2007).

Richiamo al precedente del medesimo ufficio

Non viola gli art. 111 Cost., 118 d.a. c.p.c. e 132 c.p.c. la motivazione della sentenza che, richiamando testualmente reso su una questione analoga, dopo aver esaminato specificamente le singole censure proposte dall'appellante, concluda nel senso che le argomentazioni della sentenza richiamata rispondono a tutti i motivi d'impugnazione dedotti (Cass. civ., n. 3367/2011).

Il requisito della logicità

La motivazione della sentenza deve avere una logicità intrinseca, ovvero consistere in una sequenza coordinata e non contraddittoria di proposizioni, correlate le une alle altre e le precedenti fondanti le successive, in modo da stabilire una catena logica ininterrotta che dalle premesse in fatto giunge alle conseguenze in diritto ed alla fissazione del precetto del caso di specie. É priva di logicità quella motivazione che presenta un insanabile contrasto tra le argomentazioni addotte, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto alla base della decisione in modo che la valutazione di prevalenza di uno dei due argomenti sull'altro sarebbe arbitrario

Il vizio di motivazione previsto dall'art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e dall'art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli un'obiettiva carenza nell'indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento come accade quando il giudice non indichi affatto le ragioni del proprio convincimento rinviando, genericamente e per relationem, al quadro probatorio acquisito, senza alcuna esplicitazione al riguardo, né disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. civ., n. 12664/2012; Cass. civ., n. 25866/2010 già citate). Invece, non è configurabile nullità della sentenza nell'ipotesi di mera difficoltà di comprensione del testo stilato dall'estensore con scrittura manuale o di difficile leggibilità, atteso che in tali casi la sentenza non può ritenersi priva di uno dei requisiti di validità per essa stabiliti; deve, invece, ritenersi nullo per carenza assoluta della motivazione il provvedimento che non si presenti soltanto di difficile lettura, ma sia addirittura incomprensibile, al punto da richiedere, per la sua decifrazione, una operazione il cui stesso esito è dubbio poiché, nonostante gli sforzi cui eventualmente si sottoponga il lettore più attento, risulti impossibile avere certezza dell'esatta comprensione del testo (Cass. civ., n. 11739/2010).

Il requisito dell'ordine

Tale requisito si evince:

1) dall'art. 276, comma 2, c.p.c.: il giudice «decide gradatamente le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili d'ufficio e quindi il merito della causa»;

2) dall'art. 118, comma 2, d.a. c.p.c.: «Debbono essere esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati».

Pertanto andranno gradatamente esaminate:

1) Prima le questioni pregiudiziali proposte dalle parti o rilevabili di ufficio.

2) Poi il merito della causa.

3) Nell'ambito di ciascuna categoria il giudice deve seguire l'ordine logico.

Precisamente, si devono esaminare, nell'ordine, le questioni pregiudiziali di rito, i presupposti processuali, le condizioni dell'azione, le questioni preliminari di merito e, infine, il merito (cfr. Cass. civ., n. 15365/2000).

È il giudice che deve individuare l'ordine graduale delle domande ein forza del precetto di cui all'art. 112 c.p.c., per cui il decidente non ha alcun potere di modificare la graduazione, neppure se gli fosse evidente che solo una subordinata è fondata; in ogni caso dovrà pronunciare sulle domande precedenti rigettandole fino a giungere, seguendo lo schema prefissato dalla parte, alla domanda fondata.

L'ordine di graduazione delle domande e delle eccezioni impresso dalle parti non può in alcun modo essere modificato dal giudice, poiché attiene al rispetto della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c..

Tuttavia il mancato rispetto dell'ordine logico delle questioni può rilevare come motivo di impugnazione della sentenza solo se abbia determinato una contraddittorietà della motivazione e non già sotto il profilo della violazione dell'art. 187 c.p.c., il quale si riferisce ai provvedimenti del giudice istruttore e non attiene alla decisione della causa (Cass. civ., n. 8720/2004).

È compito del giudice graduare le questioni non ordinate dalle parti: la inammissibilità o improcedibilità precede quella di giurisdizione; la questione di giurisdizione precede quella di competenza (Cass. civ., Sez. Un., n. 261/2003; Cass. civ., Sez. Un., n. 248/1999); il difetto di jus postulandi precede quella di giurisdizione (Cass. civ., n. 10434/2002); il giudicato preclude le questioni sia di rito che di merito che ne abbiano formato oggetto (Cass. civ., n. 3929/2001).

La decadenza precede la prescrizione.

Il giudice può anche rilevare, con la statuizione, alcune questioni d'ufficio. L'attuale testo dell'art. 101 c.p.c., che al secondo comma prevede che «se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti giorni e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione» (Cass. civ., sez. I, 4 maggio 2016, n. 8795).

Il dispositivo

Costituisce una parte ineliminabile della sentenza e la sua completa omissione determina la nullità della detta giacchè la motivazione può servire ad integrarlo o a interpretarlo, ma non a sostituirlo se del tutto mancante (Cass. civ., n. 643/2003).

In caso di incompletezza del dispositivo, invece, la portata precettiva della sentenza può essere ricavata anche dalla parte motiva (Cass. civ., n. 10409/2002).

Ove non vi sia corrispondenza tra motivazione e dispositivo, il contrasto insanabile tra motivazione e dispositivo non riconducibile a mero errore materiale, incidente sulla idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, e quindi sulla possibilità di rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale, rende la sentenza nulla (Cass. civ., n. 10747/2012). Nelle cause soggette al rito del lavoro (o in quelle di cui all'art. 447-bis c.p.c. e in un procedimento di opposizione a sanzioni amministrative ex artt. 6 e 7 d.lgs. n. 150/2011). Il tema delle sentenze redatte ai sensi dell'art. 429 c.p.c. evoca pure quello del rapporto tra dispositivo e motivazione, che qui può essere caratterizzato, laddove non venga in rilievo motivazione contestuale, da uno ‘scarto' temporale tra la lettura del dispositivo, in udienza, e la successiva stesura e pubblicazione delle motivazioni:

In Cass. civ., sez. VI, 17 febbraio 2016, n. 3024 e Cass. civ., sez. lav., 17 novembre 2015 n. 23463 si ribadisce che il dispositivo letto in udienza e depositato in cancelleria acquisisce rilevanza autonoma poiché racchiude gli elementi del comando giudiziale, che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione, e non è suscettibile di interpretazione a mezzo della motivazione stessa, sicché le proposizioni in essa contenute e contrastanti con il dispositivo devono considerarsi non apposte e non sono idonee a passare in giudicato o ad arrecare un pregiudizio giuridicamente apprezzabile. Dunque, nel contrasto tra dispositivo e (successiva) motivazione, deve essere il primo a prevalere.

Deve trattarsi di un contrasto effettivo e insanabile, cioè che non può essere risolto neppure da una complessiva lettura dell'uno insieme all'altro.

Tale contrasto costituisce motivo di nullità della sentenza, che deve essere fatta valere con l'impugnazione poiché, diversamente, la decisione si cristallizza (e dunque passa in giudicato) nel dispositivo, che acquista pubblicità mediante la lettura in udienza, mentre quanto contenuto nella motivazione non forma la cosa giudicata (Cass. civ., n. 7698/2008). Infatti, nel processo del lavoro, il dispositivo letto in udienza e depositato in cancelleria ha una rilevanza autonoma poiché racchiude gli elementi del comando giudiziale che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione e non è suscettibile di interpretazione per mezzo della motivazione medesima, sicché le proposizioni contenute in quest'ultima e contrastanti col dispositivo devono considerarsi come non apposte e non sono suscettibili di passare in giudicato od arrecare un pregiudizio giuridicamente apprezzabile (Cass. civ., n. 21885/2010).

Il principio secondo il quale la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata tenendo conto non soltanto del dispositivo, ma anche della motivazione, trova applicazione soltanto quando il dispositivo contenga comunque una pronuncia di accertamento o di condanna e, in quanto di contenuto precettivo indeterminato o incompleto, si presti a integrazione, ma non quando il dispositivo manchi del tutto, giacché in tal caso ricorre un irrimediabile vizio di omessa pronuncia su una domanda o un capo di domanda denunciabile ai sensi dell'art.112 c.p.c., non potendo la relativa decisione, con il conseguente giudicato, desumersi da affermazioni contenute nella sola parte motiva (Cass. civ., n. 22282/2012; Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2014, n. 1959).

Invece, il contrasto tra motivazione e dispositivo per manifesto errore materiale trova rimedio nel procedimento di correzione al di fuori del sistema delle impugnazioni ed è quello che si risolve in una fortuita divergenza tra il giudizio e la sua espressione letterale, cagionata da mera svista o disattenzione nella redazione della sentenza, percepibile e rilevabile ictu oculi, senza bisogno di alcuna indagine ricostruttiva del pensiero del giudice, il cui contenuto resta individuabile senza incertezza (Cass. civ., n. 17392/2004).

Riferimenti
  • Calamandrei, La Cassazione civile,Torino, 1920;
  • G. Calogero, La logica del Giudice ed il suo controllo in Cassazione, II ed., Padova, 1964;
  • B. Capponi, L'omesso esame del n. 5 dell'art. 360 c.p.c. secondo la Corte di cassazione, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., fasc. 3, 2016;
  • G. Di Benedetto, La motivazione della sentenza civile: dalla tradizione ai modelli innovativi, in Dir. E Giust., 2004, n. 34;
  • C. Di Iasi, Interpretazione della legge civile e motivazione della sentenza, Roma, 22.1.2009;
  • S. Evangelista, v. Motivazione della sentenza, Enc. Dir., Milano, 1977;
  • F. Santangeli, L'interpretazione della sentenza civile, Milano, 1996;
  • M. Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975;
  • M. Taruffo, v. Motivazione della sentenza, Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990.
Sommario