L'ex coniuge resta Presidente del Cda anche se privo della maggioranza azionaria
17 Gennaio 2019
Massima
È valido il patto parasociale sottoscritto dai coniugi in sede di separazione consensuale, con cui si attribuisce la presidenza del consiglio di amministrazione della S.p.a. a uno dei due, titolare del 50% delle azioni, benché, dopo l'aumento di capitale, detto parasocio si ritrovi con il solo 2,5% delle partecipazioni e l'altro con il 97,30%, dovendosi ritenere che il patto parasociale trovi la sua causa concreta in una complessa fattispecie, più ampia rispetto all'assetto proprietario della società, costituito dall'accordo di separazione, con scioglimento della comunione legale e divisione del compendio. Il caso
In sede di separazione personale, H.S. e I.D. provvedevano alla suddivisione dei beni compresi nella comunione, attribuendo le partecipazioni azionarie nella società C.M.C. S.p.A. come segue: al primo una partecipazione pari al 50% del capitale sociale, alla seconda il 45% del capitale sociale medesimo. Inoltre, nell'ambito degli accordi in sede di separazione, veniva siglato dai coniugi un patto parasociale, avente durata quinquennale, “accessorio” al decreto di omologa della separazione personale, con il quale i coniugi regolavano la nomina dei membri del consiglio di amministrazione e dei sindaci della società, lasciando a H.S. la carica di presidente del consiglio di amministrazione. Il patto parasociale statuiva altresì che il venir meno agli accordi assunti avrebbe esposto la parte inadempiente al pagamento di una penale pari a euro 500.000, facendo salvo il risarcimento dell'eventuale maggior danno. Successivamente, I.D. adiva il Tribunale di Trieste per accertare la nullità del suddetto patto per sopravvenuta immeritevolezza ex art. 1322, comma 2, c.c. ovvero per illiceità degli interessi sottostanti ovvero per violazione dell'art. 2380-bis c.c., dal momento che un recente aumento del capitale sociale l'aveva portata a sottoscrivere anche parte delle azioni rimaste inoptate dall'ex marito in tale sede, arrivando a detenere una quota pari al 97,3% del capitale sociale di C.M.C. S.p.A. In via subordinata, l'attrice chiedeva la risoluzione del patto per eccessiva onerosità sopravvenuta, o l'eventuale diritto di recedere per giusta causa, e la conseguente modifica delle condizioni di separazione. Al contrario, H.S. chiedeva il rigetto delle domande attoree, ritenute infondate, e, in via subordinata, la condanna di I.D. al pagamento della penale di cui al patto parasociale a seguito di comportamenti tenuti da quest'ultima in violazione degli accordi intercorsi. Il Tribunale di Trieste accoglieva la domanda attorea, dichiarando la nullità del patto parasociale. H.S. impugnava la decisione del giudice di prime cure e la Corte d'appello riformava la decisione, condannando I.D. al pagamento della somma di € 1.500.000 a titolo di penale. I.D. proponeva, dunque, ricorso in Cassazione. La questione
I temi principali trattati nel provvedimento in commento vertono su: - l'esatta interpretazione del contenuto essenziale del patto parasociale; - la causa concreta del patto parasociale; - la collocazione del patto nel contesto nell'ambito della separazione personale dei coniugi; - l'eventuale violazione del principio che impedisce lo svuotamento dei poteri assembleari, di ragionevolezza e della proprietà privata. Le soluzioni giuridiche
Al fine di comprendere l'iter motivazionale della Corte di cassazione, occorre individuare i tratti essenziali dei patti parasociali e la normativa di riferimento. Il patto parasociale è disciplinato dagli artt. 2341-bis e 2341-ter c.c.. Mentre quest'ultima disposizione regola la pubblicità dei patti parasociali, l'art. 2341-bis c.c. prevede le diverse tipologie di patti:
La giurisprudenza, ormai unanime, definisce i patti parasociali quali «convenzioni atipiche che si pongono sul "piano parasociale”, in quanto riguardante i rapporti personali tra i soci e sul quale essi sono destinati ad operare, distinto dal "piano sociale", concernente invece l'organizzazione della società e non direttamente investito da quei patti» (Cass., sez. I, 7 maggio 2014, n. 9846; Cass. civ., sez. I, 22 marzo 2010, n. 6898). In dottrina, il patto parasociale è definito quale accordo tra i soci, o tra i soci e terzi, collegato funzionalmente al contratto societario, ma strutturalmente distinto, rendendosi necessario che almeno uno dei sottoscrittori del patto parasociale ricopra la carica di socio all'interno della società di riferimento (V. De Sensi, D. fall. 05, 69; G. Oppo, Riv. dir. civ., 87 I, 517; A. Picciau, Patti parasociali, 343; Rorford, I sindacati di voto, cit., 19; L. Sambucci, Patti parasociali e fatti sociali; G. Semino, Il problema della validità dei sindacati di voto, 2003; R. Torino, I contratti parasociali, cit. 387. Anche Cass., sez. I, 18 luglio 2007, n. 15963, statuisce la non necessità che «tutti i partecipanti rivestano la qualità di soci»). È bene constatare che l'operatività dei patti parasociali percorre un binario parallelo rispetto al contratto di società, dal momento che i patti si atteggiano a convenzioni tramite le quali i soci attuano un regolamento in parte difforme e per altra parte complementare a quello sancito nell'atto costitutivo o nello statuto della società, al fine di tutelare più proficuamente i propri interessi. Quanto alla durata, i patti parasociali, di cui alle lettere a), b) e c) dell'art. 2341-bis c.c. possono essere stipulati a tempo determinato (per un periodo comunque non superiore a cinque anni, con possibilità di essere rinnovati alla scadenza) ovvero a tempo indeterminato, essendo necessario in tale ipotesi che ciascun contraente abbia il diritto di recedere con preavviso di centottanta giorni (V. Rescio, I patti parasociali nel quadro dei rapporti contrattuali dei soci, in Liber amicorum, G.F. Campobasso, vol. 1, 2006, 447 e ss.). Nella sentenza in commento i giudici di legittimità sono chiamati a pronunciarsi in merito all'efficacia di un patto parasociale concluso nell'ambito dello scioglimento della comunione legale a seguito della separazione personale dei coniugi che, nel corso della separazione, avevano provveduto: (i) allo scioglimento della comunione legale e alla relativa ripartizione dei beni in essa caduti; (ii) alla stipula di un patto parasociale relativo alla C. M. C. S.p.A. A fronte dei motivi di doglianza sollevati dalla ricorrente, la Corte di Cassazione chiarisce, in primis, che il patto, pur constando di una parte relativa alla «delineazione e formazione di decisioni congiunte», regola altresì il ruolo di H.S. quale presidente del consiglio di amministrazione e di amministratore con deleghe. Rilevanti sono le considerazioni della Corte di Cassazione relativamente alla causa concreta del patto parasociale. Sul punto, i giudici di legittimità non condividono la tesi sostenuta dalla ricorrente, la quale ritiene che la causa concreta del patto de quo risieda nella previsione di un controllo congiunto della società a fronte di una posizione paritaria e di un rischio imprenditoriale dei parasoci pressoché paritario. In tal senso – a detta della ricorrente – la causa del patto parasociale in analisi verrebbe meno laddove la condivisione dell'investimento e del rischio di impresa venissero a cessare. Per meglio comprendere la decisione della Corte di Cassazione, giova richiamare il principio secondo cui «al fine di ravvisare la funzione del negozio, occorre esaminare il profilo della causa (non i motivi) del medesimo da intendere tuttavia non come astratta funzione economico-sociale, ma come causa concreta o risultato pratico dell'operazione posta in essere, individuando gli interessi, pur sempre obiettivati e tutelati dall'ordinamento, che l'intera operazione è destinata a raggiungere e per il quale le parti si son determinate a compierla» (Cass., sez. I, 7 maggio 2014, n. 9846, fa riferimento ex multis Cass., sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490; Cass., sez. III, 24 gennaio 2012, n. 925; Cass., S.U., 23 gennaio 2013, n. 1521 in tema di concordato preventivo). La presa di posizione della Corte di Cassazione muove dal contesto in cui la convenzione parasociale è stata stipulata e cioè lo scioglimento della comunione legale tra coniugi in ragione della separazione degli stessi. Alla luce di ciò, i giudici di legittimità ritengono che, nel caso di specie, il patto parasociale posto in essere dagli ex coniugi-soci, in sede di separazione, non sia soltanto un accordo vertente sugli assetti societari, ma un atto che ha come perimetro tutti i beni facenti parte della comunione (tra i quali, appunto, le partecipazioni nella C. M. C. S.p.A.). Ne discende che l'efficacia del patto parasociale non cessa sulla base delle vicende che concernono la società, come ad esempio, nel caso di specie, l'aumento di capitale. Infine, i giudici di legittimità affermano che il patto sottoscritto dalle parti è efficace e non è idoneo a compromettere la dinamica societaria, alterando - come dedotto dalla ricorrente - il corretto funzionamento degli organi societari e violando i principi di svuotamento dei poteri assembleari, di ragionevolezza e di tutela della proprietà privata in quanto: - il patto ha una durata di cinque anni e, pertanto, risulta limitato nel tempo, ammettendo una possibilità di proroga solo al momento della scadenza e solo a seguito della manifestazione di volontà di entrambi i paciscenti, conformemente quanto previsto all'art. 2341-bis c.c.; - non sussiste il paventato svuotamento dei poteri assembleari né una compressione del diritto di proprietà, dal momento che l'oggetto specifico del patto, rappresentato dalla nomina delle future cariche sociali, rappresenta solo uno dei numerosi diritti del socio in forza della titolarità di una partecipazione nella società. Nello specifico, fermo restando il rispetto del patto parasociale, I.D. si trova – grazie alla sua partecipazione di assoluta maggioranza – a poter determinare in sede di assemblea aspetti decisivi della vita societaria, si pensi ad esempio all'approvazione del bilancio di esercizio e alla distribuzione dei dividendi; - il potere di controllo sull'agire dell'apparato amministrativo non è messo in discussione dal patto, poiché tale controllo è attribuito per legge ad apposito organo (il collegio sindacale), nonché all'assemblea dei soci. Da ultimo, la Corte di Cassazione non accoglie il motivo relativo al presunto diritto di recesso sorto in capo alla moglie in seguito all'aumento di capitale. La ricorrente ancora il proprio diritto di recesso al fatto che il disposto di cui all'art. 2285, comma 2, c.c. - che prevede il diritto del socio di recedere dalla società quando sussiste una giusta causa - considerato espressione di un principio generale, si applichi anche al patto parasociale. Tuttavia, la Corte di Cassazione dissente da tale asserzione poiché la C. M. S.p.A. è una società per azioni e pertanto la normativa di riferimento non può essere quella dettata nell'ambito delle società di persone, quale è quella prevista dall'art. 2285 c.c.. Ne discende che occorre fare applicazione dell'art. 2437 c.c. che tipizza le ipotesi di giusta causa di recesso con riferimento alle società per azioni e le delibere di aumento di capitale non sono riconducibili a nessuna delle ipotesi indicate. Osservazioni
La pronuncia in commento esamina le sorti di un patto parasociale che diventa parte integrante di una separazione personale dei coniugi alla stregua di qualsiasi altro accordo di natura patrimoniale. La Corte, pur precisando l'importanza di interpretare il patto de quo alla luce dello scioglimento della comunione legale tra coniugi, nella propria analisi e interpretazione della vicenda non altera la disciplina societaria propria applicabile al patto parasociale. A latere di tutto ciò risulta interessante l'obiter dicta, di rilevanza più processuale, a mezzo del quale la Corte si interroga su una possibile diversa soluzione della vicenda qualora la domanda attorea fosse stata di modifica delle condizioni di separazione. Probabilmente, una siffatta domanda non avrebbe modificato l'esito del giudizio posto che il patto in commento atteneva alla governance della società e non regolava invece aspetti patrimoniali quali per esempio la distribuzione degli utili o la circolazione/detenzione di quote; aspetti questi ultimi che, ove qualificabili come eventi sopravvenuti che vadano ad incidere sull'equilibrio negoziale raggiunto dai coniugi, avrebbero potuto essere esaminati in sede di modifica delle condizioni di separazione.
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