La cartella non notificata al curatore è inopponibile alla massa

Lorenzo Gambi
27 Febbraio 2019

Gli atti impositivi aventi ad oggetto obbligazioni tributarie sorte prima della sentenza dichiarativa di fallimento devono essere notificati non solo alla curatela fallimentare, ma anche al contribuente fallito.
Massima

Gli atti impositivi aventi ad oggetto obbligazioni tributarie sorte prima della sentenza dichiarativa di fallimento devono essere notificati non solo alla curatela fallimentare, ma anche al contribuente fallito. Il curatore non ha interesse ad impugnare la cartella di pagamento notificata al solo debitore fallito in relazione a crediti fiscali sorti ante fallimento, potendo farne valere l'inefficacia avanti al giudice delegato in sede di accertamento del passivo.

Il caso

La controversia trae origine da un ricorso promosso dal curatore del fallimento di una società in accomandita semplice avverso una cartella di pagamento notificata al solo contribuente fallito, recante l'iscrizione a ruolo di tributi maturati in data anteriore all'apertura della procedura (concorsualità del credito).

Al curatore non era stato notificato neanche il prodromico avviso di accertamento: l'ente titolare del diritto al tributo aveva infatti notificato l'atto impositivo al solo debitore fallito, il quale non lo aveva ritualmente impugnato avanti al giudice tributario, divenendo così, l'accertamento, definitivo.

La curatela fallimentare, anziché eccepire avanti al giudice delegato l'inopponibilità alla massa della cartella di pagamento, siccome notificata al solo contribuente fallito, impugnava l'atto esattivo avanti la competente commissione tributaria, al fine di ottenerne pronunzia di illegittimità.

La commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, attribuendo rilevanza al fatto che tanto l'avviso di accertamento, quanto la relativa cartella di pagamento erano stati notificati al solo contribuente fallito, e non anche alla curatela fallimentare, dovendosi dunque ritenere tali atti inopponibili alla procedura.

La commissione regionale confermava la decisione dei giudici di prime cure, rilevando come l'avviso d'accertamento relativo a crediti sorti ante fallimento, ma emesso dopo l'apertura del concorso (natura dichiarativa dell'obbligazione tributaria), così come la correlata cartella di pagamento, debbano essere notificati al curatore, pena la loro inefficacia verso la massa.

Ricorreva per cassazione l'Agenzia delle Entrate, assieme al Ministero dell'Economia e delle Finanze, con un unico motivo: l'amministratore della società (nel caso in esame, socio accomandatario) resta in carica in pendenza della procedura fallimentare, potendo compiere qualsiasi atto che non sia incompatibile con le finalità del concorso, “con conseguente legittimità della successiva notifica della cartella di pagamento” (ove notificata al solo contribuente fallito).

La Corte di Cassazione, rilevata, da una parte, la mancata costituzione in giudizio della curatela fallimentare, dichiarata, dall'altra, la carenza di legittimazione attiva del Ministero dell'Economia e delle Finanze, con ordinanza resa in ambito di rito camerale ex 375 c.p.c., accoglieva il gravame proposto dall'Agenzia delle Entrate, ritenendo fondato l'unico motivo del ricorso.

La lettura delle motivazioni del provvedimento in commento, per quanto invero succinte anche in ragione della natura dello stesso (ordinanza), consente di ricondurre l'accoglimento del ricorso proposto dall'Amministrazione finanziaria alla carenza d'interesse da parte della curatela fallimentare.

La quale, non essendo stata destinataria di alcun atto relativo al dedotto rapporto tributario sorto ante fallimento (né l'avviso d'accertamento, né la successiva cartella di pagamento), avrebbe dovuto limitarsi a farne rilevare l'inefficacia/inopponibilità rispetto alla massa innanzi al giudice delegato nell'ambito del procedimento di formazione del passivo.

La questione di diritto (effetti “paralleli” degli atti impositivi) e sue conseguenze (inopponibilità alla curatela degli atti non notificati)

La Corte di Cassazione, nel ritenere fondato il ricorso erariale, ha richiamato il proprio consolidato orientamento secondo il quale l'avviso di accertamento relativo a crediti i cui presupposti si siano verificati ante fallimento deve essere notificato non solo al curatore, ma anche al contribuente fallito.

Il debitore, infatti, pur subendo lo spossessamento ex art. 42, comma 1, l. fall., non viene a perdere, col fallimento, la qualità di soggetto passivo d'imposta, rimanendo esposto agli effetti – anche sanzionatori – derivanti dall'eventuale definitività dell'atto impositivo.

Ne consegue che ove la curatela ometta – in modo ingiustificato – d'esercitare il diritto di difesa, impugnando ritualmente l'atto impositivo avanti al giudice tributario, il fallito deve ritenersi “eccezionalmente” abilitato ad esercitare, egli stesso, la tutela giurisdizionale (Cass., civ. sez. V, 11 maggio 2017, n. 11618; Cass., civ. sez. VI, 20 febbraio 2014, n. 4113, ord.; Cass., civ. sez. V, 6 febbraio 2009, n. 2910).

Peraltro, è onere dell'ente impositore notificare l'avviso di accertamento anche alla curatela fallimentare, pena l'inefficacia verso la procedura dell'atto impositivo (Cass., civ. sez. V, 14 settembre 2016, n. 18002; Cass., civ. sez. VI, 21 dicembre 2015, n. 25689, ord.; Cass., civ. sez. V, 26 ottobre 2011, n. 22277).

Nel caso in esame – precisa la Corte – la cartella di pagamento, così come il prodromico avviso di accertamento, era stata notificata alla sola società fallita, dovendosi dunque ritenere, l'atto esattivo, titolo tributario (per quanto privo dei propri tipici effetti esecutivi, per effetto del fallimento), inopponibile alla massa.

La curatela fallimentare, non avendo formalmente ricevuto alcun atto impositivo, né esattivo, non aveva dunque interesse ad impugnare la cartella di pagamento, ben potendo farne rilevare l'efficacia avanti al giudice delegato in sede di accertamento del passivo.

Il Collegio è così giunto a stabilire il seguente principio di diritto: “il curatore fallimentare non ha interesse ad impugnare la cartella di pagamento – [notificata solo al debitore fallito: N.d.A.] – non riguardante tributi dovuti in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento, ove detta cartella non sia stata preceduta dalla previa notificazione, anche nei suoi confronti, dell'atto impositivo che ne costituisce il necessario presupposto”.

Osservazioni

Come ricordato dalla Corte di Cassazione con l'ordinanza in oggetto, lo spossessamento non determina alcuna variazione circa il soggetto giuridico cui sia riferibile l'obbligazione tributaria – il quale è, e resta, il fallito.

Fra l'altro, il venir meno, per effetto del fallimento, della facoltà per il debitore di disporre del proprio patrimonio non impedisce che i presupposti d'imposta – anche maturati in corso di procedura, per effetto delle operazioni compiute dal curatore – si configurino in capo al medesimo soggetto (principio di soggettività tributaria).

Il contribuente, infatti, con l'apertura del concorso, viene a perdere la sola disponibilità “materiale” dei propri beni, diritti e rapporti giuridici, non già la titolarità formale degli stessi, non venendo egli privato “a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario” (Cass., civ. sez. V, 24 febbraio 2006, n. 4235).

Ciò che muta, con il fallimento, non è dunque il soggetto passivo del rapporto tributario, bensì, esclusivamente, il soggetto legittimato – ed insieme obbligato – a compiere gli adempimenti fiscali previsti dalla legge, una volta apertasi la procedura concorsuale (il curatore).

Se, sotto un profilo generale, il fallito, in relazione ai rapporti pendenti aventi natura patrimoniale, viene sostituito dal curatore fallimentare ex art. 43, comma 1, l. fall., lo stesso, con riferimento ai rapporti tributari, resta pur sempre titolare di un'autonoma legittimazione processuale.

Trattasi, peraltro, di una legittimazione “suppletiva” (eccezionale e straordinaria), da esercitarsi solo in caso d'ingiustificata (recte, non autorizzata) inerzia da parte della curatela fallimentare, al fine d'impedire che l'obbligazione tributaria si renda definitiva nei confronti del debitore, divenendo azionabile nei suoi confronti una volta che egli sia tornato in bonis.

Sul punto, la Cassazione: “nelle controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito, compresi nel fallimento, sta in giudizio il curatore, ai sensi dell'art. 43, primo comma, l. fall., spettando al fallito una legittimazione processuale di tipo suppletivo soltanto nel caso di totale disinteresse degli organi fallimentari”, ipotesi, quest'ultima, che peraltro deve escludersi qualora “il curatore sia parte, indipendentemente dalla sua concreta condotta processuale” (Cass., civ. sez. I, 14 maggio 2012, n. 7448).

La permanenza in capo al contribuente fallito di una legittimazione processuale suppletiva fa sì che gli atti impositivi relativi a crediti tributari concorsuali devono essere notificati non solo al curatore, ma anche al debitore.

Questi deve essere infatti posto in condizione d'esercitare il proprio diritto di difesa – costituzionalmente garantito – in sede tributaria, restando esposto alle conseguenze patrimoniali e sanzionatorie scaturenti dalla definitività della pretesa tributaria.

Ne consegue che il curatore è tenuto – pur in mancanza di un espresso obbligo di legge – ad informare il contribuente fallito in ordine alle decisioni da parte della procedura circa l'eventuale impugnazione dell'atto.

In questo senso, la Cassazione ritiene che il curatore sia chiamato a tutelare non solo gli interessi dei creditori, ma anche l'interesse del fallito a che lo stesso non sia esposto, dopo la chiusura del fallimento, a pretese creditorie che avrebbero potuto essere contestate con una più solerte gestione da parte della curatela – e ciò con particolare riferimento ai rapporti tributari suscettibili di generare effetti penalmente rilevanti (Cass., civ. sez. I, 28 aprile 1997, n. 3667).

Per questo motivo, rileva la Corte, la “prassi – seguita dai giudici delegati più avveduti – di far notificare al fallito, unitamente alla determinazione dell'ufficio fallimentare di non proporre impugnativa, l'avviso di accertamento, con il contestuale avvertimento al fallito che a tanto potrà provvedere direttamente, è appunto intesa a garantire a quest'ultimo l'esercizio del suo diritto di difesa”(Cass., civ. sez. V, 23 giugno 2003, n. 9951).

Del resto, nella prospettiva del contribuente, l'ente è tenuto a notificargli ogni atto relativo al rapporto tributario maturato ante fallimento: “l'accertamento tributario inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d'imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, deve essere notificato non solo al curatore ma anche al contribuente, il quale non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario” (Cass., civ. sez. I, 24 febbraio 2006, n. 4235).

Allo stesso tempo, l'Amministrazione finanziaria è tenuta a notificare gli atti impositivi anche alla curatela fallimentare, pena la inopponibilità e/o inefficacia degli stessi nei confronti della procedura concorsuale.

La notifica al curatore dell'avviso di accertamento si configura dunque, per l'Amministrazione, atto necessario per poter prendere validamente parte al concorso sotto il profilo della rituale ammissione del credito erariale al passivo del fallimento.

In questo senso: “l'accertamento fiscale avente ad oggetto obbligazioni tributarie i cui presupposti siano maturati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente, ovvero nel periodo d'imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, ove sia stato notificato soltanto al fallito, e non anche al curatore del fallimento, è inefficace nell'ambito della procedura fallimentare” (Cass., civ. sez. V, 23 giugno 2003, n. 9951).

Nel caso in cui entrambi i destinatari degli atti impositivi – curatore fallimentare, da una parte, debitore fallito, dall'altra – procedano ad impugnare l'avviso d'accertamento, si pone il problema dell'ammissibilità del ricorso proposto dal debitore.

In tal caso, non essendovi alcuna condotta “inerte” da parte della curatela fallimentare, si ritiene che la capacità processuale del contribuente fallito sia “assorbita” dall'azione introdotta dal curatore, ex art. 43, comma 1, l. fall.

Annessa a tale questione è poi quella, ulteriore, se, in presenza d'un ricorso introdotto dalla curatela – ma ritenuto dal contribuente incompleto e/o inidoneo ai fini della contestazione dell'atto –, il fallito abbia la legittimazione ad introdurne altro, in via autonoma.

Sul punto, si ritiene che l'esercizio dell'azione processuale da parte del curatore precluda al fallito la possibilità di proporre un'autonoma iniziativa giudiziale (in senso conforme: Cass., sez. civ. V, 24 febbraio 2006, n. 4235; Cass., sez. civ. V, 26 settembre 2003, n. 14301).

V'è peraltro, in dottrina, chi autorevolmente ritiene che in presenza di una condotta “relativamente” inerte da parte del curatore (es., valutazione solo parziale e/o erronea dei presupposti su cui si fondi l'accertamento), il fallito sia legittimato ad impugnare l'atto impositivo, in via autonoma (G. Di Gennaro, Il ricorso tributario proposto dal fallito rispetto all'inerzia del curatore, in Il caso, 2015).

Fra l'altro, l'eccezione di inammissibilità del ricorso fiscale proposto dal contribuente non può essere sollevata né dalla competente commissione tributaria, né dallo stesso ente impositore, ma, esclusivamente, “dal curatore, nell'interesse della massa dei creditori” (Cass., civ. sez. V, 15 marzo 2006, n. 5671).

Qualora, poi, uno stesso atto venga impugnato tanto dal contribuente fallito, quanto dalla curatela fallimentare, in assenza d'una pronunzia d'inammissibilità del ricorso proposto dal primo, in caso di conflitto tra giudicati, questi operano su piani diversi – appunto “paralleli”.

Il giudicato intervenuto nei confronti del contribuente, spiegherà effetto nei confronti del medesimo, divenendo “azionabile” verso lo stesso una volta che egli sia tornato in bonis; il giudicato intervenuto nei confronti del curatore, assumerà invece rilevanza ai fini della partecipazione al concorso da parte dell'Amministrazione finanziaria.

In questo senso: “in tema di contenzioso tributario, la sentenza di merito che accerta il credito erariale nei confronti del curatore del fallimento, il quale, pur avendone contezza, non sia intervenuto nell'autonomo giudizio introdotto dal fallito ed avente ad oggetto il medesimo atto impositivo, spiega i suoi effetti solo nella procedura concorsuale in quanto funzionale alla scelta dell'Amministrazione finanziaria di ottenere un titolo ai fini dell'ammissione al passivo” (Cass., civ. sez. V, 24 luglio 2014, n. 16816).

Ne consegue che “il giudicato formatosi in detto giudizio non può essere opposto dal Fisco al contribuente tornato in bonis, nei cui confronti risulti pronunciata altra sentenza del giudice tributario, anch'essa passata in giudicato, di annullamento dell'atto impositivo, poiché i due giudicati operano su piani distinti e non può essere ravvisato un contrasto tra gli stessi, visto che nei rapporti tributari la sostituzione processuale del curatore al fallito è caratterizzata da elementi di peculiarità e resta subordinata e limitata alle valutazioni di opportunità del primo” (Cass., civ. sez. V, 24 luglio 2014, n. 16816).

Conclusioni

Il principio di diritto sancito dalla Cassazione con l'ordinanza in oggetto stabilisce che “il curatore fallimentare non ha interesse ad impugnare la cartella di pagamento non riguardante tributi dovuti in epoca antecedente alla dichiarazione di fallimento, ove detta cartella non sia stata preceduta dalla previa notificazione, anche nei suoi confronti, dell'atto impositivo che ne costituisce il necessario presupposto”.

Per quanto il Supremo Collegio non lo abbia espressamente statuito, riteniamo che il ricordato principio – il curatore può (recte, deve) limitarsi ad eccepire l'inefficacia della cartella avanti al giudice delegato, non avendo interesse ad azionare il contenzioso tributario – possa operare esclusivamente qualora la cartella di pagamento sia stata notificata al solo contribuente fallito, e non anche alla curatela fallimentare (rimasta dunque fuori dal rapporto giuridico d'imposta).

Ove, diversamente, l'ente della riscossione notifichi al curatore la cartella di pagamento secondo le norme del diritto tributario (artt. 25-26, D.P.R. n. 602/1973), scatta, in capo all'organo di gestione della procedura, divenuto formalmente destinatario di un atto munito d'efficacia tributaria ex lege (principio della potestà impositiva), per quanto privo di esecutività ex art. 51 l. fall., l'onere, ove se ne voglia contestare la validità, di impugnarlo avanti alla giurisdizione tributaria, previa autorizzazione da parte del giudice delegato.

Quanto sopra al fine di impedire che l'atto tributario divenga definitivo e dunque, poi, non più contestabile in sede di verifica dei crediti, con riferimento alla domanda erariale di ammissione al passivo.

Vigono, infatti, in questa materia, due diversi principi inderogabili.

Da un lato, il principio di concorsualità in ambito fallimentare; dall'altro, il principio di specialità della giurisdizione tributaria.

E se il primo principio impone all'Amministrazione finanziaria l'onere di presentare la domanda d'ammissione al passivo del credito fiscale al fine di partecipare alle ripartizioni dell'attivo fallimentare, pena la propria estromissione dal concorso, il secondo fa sì che la pretesa erariale sfugga, sotto il profilo della cognizione piena, formale e sostanziale, circa la sussistenza dell'obbligazione tributaria, alla vis attractiva del foro fallimentare.

Da ciò deriva che ove il curatore intenda contestare la legittimità d'un qualsiasi atto amministravo dalla natura fiscale, ritualmente notificatole, ha l'onere di adire le competenti commissioni tributarie, ex art. 2, D.Lgs. n. 546/1992 (“Appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati […]”),

Del resto – ed in conclusione –, secondo la stessa Corte, l'indagine in ambito fallimentare, in assenza “di disposizioni che deroghino ai comuni criteri di riparto della giurisdizione, non può investire materie riservate ad un giudice diverso, e, dunque, ove riguardi un rapporto tributario, il quale ricada nella giurisdizione delle commissioni tributarie ai sensi dell'art. 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, deve fermarsi al riscontro dell'esistenza di un provvedimento impositivo che integri titolo per l'esercizio del credito, non potendosi estendere a quesiti sulla legittimità formale e sostanziale dell'atto, riservati al giudice tributario, nel processo che il contribuente instauri con impugnazione dell'atto stesso” (Cass., civ. sez. V, 14 giugno 2001, n. 15715).

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