Incidente mortale sulla pista da sci. La Cassazione richiama la disciplina in tema di infortuni sul lavoro

Ferdinando Brizzi
28 Febbraio 2019

La sempre maggiore frequenza di incidenti, anche mortali, connessi alla pratica degli sport invernali induce a svolgere alcune riflessioni sulla responsabilità penale del gestore degli impianti sciistici. Spesso gli eventi lesivi avvengono non tanto sulle piste ma fuori di esse. A tal riguardo si sostiene che, non avendo il gestore alcun dominio al di fuori della pista, né alcun potere di organizzazione, ne deriverebbe l'esclusione della sua responsabilità per gli incidenti occorsi a coloro che volontariamente, o per imprudenza o per eccessiva velocità vengano a trovarsi fuori dalla pista, non essendo esigibile che il gestore protegga tutta la pista con recinzioni. Occorre valutare la sostenibilità di tale assunto.
Abstract

La sempre maggiore frequenza di incidenti, anche mortali, connessi alla pratica degli sport invernali induce a svolgere alcune riflessioni sulla responsabilità penale del gestore degli impianti sciistici. Spesso gli eventi lesivi avvengono non tanto sulle piste ma fuori di esse. A tal riguardo si sostiene che, non avendo il gestore alcun dominio al di fuori della pista, né alcun potere di organizzazione, ne deriverebbe l'esclusione della sua responsabilità per gli incidenti occorsi a coloro che volontariamente, o per imprudenza o per eccessiva velocità vengano a trovarsi fuori dalla pista, non essendo esigibile che il gestore protegga tutta la pista con recinzioni. Occorre valutare la sostenibilità di tale assunto.

I doveri incombenti sul gestore degli impianti

Di contrario avviso è stata, da ultimo, Cass. pen. Sez. IV, 10 aprile 2018, n. 30927, pronunciata in un caso di sinistro mortale verificatosi su una pista da slittino.

I giudici di merito avevano ritenuto sussistente la responsabilità penale dell'amministratore delegato della società gestrice gli impianti, di un dirigente della medesima, responsabile della sicurezza della pista da slittino, di un maestro di sci.

La Cassazione ha confermato la sentenza di condanna nei confronti del dirigente e del maestro di sci.

Ha annullato la sentenza nei confronti dell'amministratore delegato per motivi attinenti alla delega alla sicurezza ex art. 16 d.lgs. 81/2008, che saranno in seguito scrutinati.

Nel confermare la condanna, i giudici di legittimità hanno ritenuto sussistenti i profili di “colpa specifica” derivanti dalla violazione dei principi “cardine” enunciati dalla l. 363/2003 definita «il primo intervento legislativo di portata nazionale in tema di sicurezza degli impianti sciistici nella pratica dello sci e degli altri sport della neve».

Secondo la sentenza in commento, l'obbligo di utilizzare protezioni sulle piste (art. 3, l. 363/2003), seppure non può significare che tutta l'estensione delle medesime vada protetta, deve rivolgersi, quantomeno, al contenimento delle insidie che siano interne o esterne alla pista, qualora per la conformazione della stessa si concretizzi una situazione di pericolo tale da rendere necessaria l'adozione di una specifica cautela.

Si tratta delle ipotesi inerenti pericoli che, pur presentandosi tipicamente nello svolgimento dell'attività degli sport invernali (quali la presenza di massi o di alberi situati al di fuori della pista, in zona boschiva) ed essendo quindi normalmente rimessi all'attenzione dell'utente, siano in concreto tali, per la loro ubicazione, per la difficoltà concreta di prevederli od evitarli, da diventare pericoli occulti (c.d. atipici) o che comunque possono essere validamente neutralizzati solo con l'adozione della tutela specifica.

Con riferimento al bordo pista l'intervento protettivo va calibrato sulle condizioni delle pista medesima, relative alla sua larghezza alla sua pendenza, alla conformazione, all'eventuale ripidezza del declivio del lato a valle.

Sicché la misura da adottare eventualmente per la protezione dell'utente va certamente definita in concreto e non deve necessariamente consistere nella completa delimitazione della pista con paratie o materassi, ma può ben trovare adempimento anche in meri accorgimenti realizzati con neve artificiale, consistenti nella predisposizione di bordi protettivi nevosi verticali, dal costo molto contenuto e che si rivelano di particolare robustezza ed efficacia.

Secondo i giudici di legittimità, la mancata adozione di cautele idonee a proteggere un tratto di pista, da ritenersi insidioso proprio per la sua particolare conformazione, costituisce violazione della regola cautelare di cui all'art. 3 l. 363/2003, , correlata alla gestione delle piste sciabili e «preordinata a rimuovere il rischio connesso all'esistenza di pericoli atipici al fine di evitare il verificarsi di eventi lesivi»: la disposizione di cui all'art. 3 in nessun modo limita l'obbligatoria predisposizione di cautele alle sole ipotesi di alta probabilità di sinistri, imponendo l'intervento del gestore ove si presentino lungo le piste pericoli che necessitino di protezione secondo gli ordinari criteri di prevedibilità ed evitabilità

Considerazioni in tema di nesso causale

La sentenza in commento svolge significative considerazioni in tema di rapporto causale tra mancata adozione di tali protezioni ed evento lesivo.

La valutazione in concreto della sussistenza del nesso causale deve essere condotta sulla base del giudizio controfattuale, cioè di quell'operazione logica che, eliminando dalla realtà (contro i fatti) la condizione costituita da una determinata condotta umana (anche omissiva), verifica se il fatto oggetto del giudizio sarebbe egualmente accaduto, con la conseguenza che nell'ipotesi di indifferenza della condotta nella produzione dell'evento, deve escludersi che essa ne costituisca una causa, mentre, al contrario, laddove senza quella condotta l'evento non si sarebbe prodotto essa è condizione causale dell'evento.

Questi principi, applicati al caso di specie, hanno consentito di affermare che l'esistenza di una rete di protezione o semplicemente di un'adeguata barriera nevosa (artificialmente prodotta) idonea a fungere da contenimento, avrebbe consentito alla vittima, anche in caso di condotta scorretta o di velocità inadeguata o di errata manovra nel governo del mezzo, di evitare l'uscita di pista.

Con la conseguenza che l'evento non si sarebbe prodotto o si sarebbe prodotto con minore lesività, perché comunque la vittima «non uscendo di pista, non sarebbe caduto nel ripido tratto di terreno boscoso, oltre il bordo pista, ove era presente l'ostacolo contro il quale si è prodotta la frattura cranica che lo ha portato al decesso».

La Corte di cassazione, nel valutare la responsabilità degli imputati, ha espressamente richiamato i principi elaborati in tema di infortuni sul lavoro: in tema di causalità, la dipendenza di un evento da una determinata condotta deve essere affermata anche quando le prove raccolte non chiariscano ogni passaggio della concatenazione causale e possano essere configurate sequenze alternative di produzione dell'evento, purché ciascuna tra esse sia riconducibile all'agente e possa essere esclusa l'incidenza di meccanismi eziologici indipendenti.

Gestore degli impianti e d.lgs. 81/2008

Non è stata questa l'unica occasione in cui i giudici di legittimità hanno evocato espressamente i principi elaborati in tema di infortuni sul lavoro, così riferendoli anche alla materia della responsabilità dei gestori degli impianti di sci.

Infatti, il caso concreto all'attenzione della Corte ha consentito di approfondire le posizioni garanzia che rivestono coloro che ricoprono delle cariche all'interno della compagine societaria che gestisce gli impianti sciistici.

Uno degli imputati, l'amministratore delegato della società gestrice gli impianti, riteneva che la responsabilità esclusiva dell'evento lesivo gravasse per l'intero sul suo coimputato, dirigente dell'impianto: a costui sarebbero state efficacemente conferite le funzioni e i poteri in materia di sicurezza, a mezzo di atto notarile, integrante i requisiti di cui al art. 16, d.lgs.81/2008 così residuando in capo al delegante solo l'obbligo di vigilanza “alta”.

La Corte di cassazione, disattendendo la valutazione dei giudici di merito, ha escluso che la delega contenesse le caratteristiche formali di cui all'art. 16 d.lgs.81/2008, con conseguente permanenza in capo all'imprenditore degli obblighi e delle responsabilità che gli sono proprie. Nondimeno, ha ritenuto che fosse doveroso approfondire il contenuto dell'atto di conferimento dell'incarico, anche avuto riguardo allo spazio di discrezionalità comunque proprio della funzione dirigenziale attribuita. Ciò al fine di verificare se, identificato il rischio concretizzatosi, in relazione all'effettivo contesto e alla sua complessità, tenendo conto delle dimensioni dell'impianto, esso fosse interamente afferente all'organizzazione concreta dell'attività ed ai compiti assegnati al dirigente.

Tale valutazione, secondo i giudici di legittimità, è mancata nella sentenza di merito: questa, dopo avere ritenuto che l'atto contenesse il formale conferimento della delega, mentre non ne possedeva i requisiti, ne ha negato il contenuto concreto, attribuendo al trasferimento dei poteri e dei relativi obblighi un'essenza cartolare, principalmente facendo riferimento al limitato potere di spesa ed all'incompetenza del dirigente. che al momento della nomina rivestiva la qualifica di operaio-capo servizio.

Di tal guisa, la decisione si è limitata a enunciare le ragioni che l'hanno indotta a negare l'effetto liberatorio, senza scendere, una volta affermata l'insussistenza sostanziale del trasferimento dei poteri, nell'esame del rapporto fra imprenditore e dirigente, con riferimento al contenuto degli obblighi di sicurezza derivanti dall'organizzazione assunta dall'impresa, la cui sussistenza non può essere negata neppure in assenza di formale delega o di insussistenza della sua effettività.

Senza cioè analizzare se le attribuzioni conferite al direttore di impianto includessero quella discrezionalità tecnica rispetto al settore affidatogli, riflesso dell'autonomia riconosciuta al ruolo apicale nell'impresa, idonea a ricondurre all'organizzazione concreta dell'attività, inerente i compiti afferenti alla sua qualifica, le scelte relative all'intervento omesso.

E senza affrontare, al di là della semplice espressione della sua insussistenza sulla base della constatazione del ruolo di operaio capo-impianto precedentemente rivestito, la preparazione del dirigente ad acquisire tale qualifica, posto che la stessa sentenza impugnata dava atto non solo dei corsi sulla sicurezza delle piste da sci dal medesimo seguiti, ma dell'introduzione da parte di costui, proprio sulla pista de qua, della segnaletica informativa alla partenza e del libro giornaliero dei controlli effettuati sulle sue condizioni e delle verifiche da effettuare, a seconda delle condizioni metereologiche.

Solo un simile approfondimento, che si risolve prima di tutto in un'indagine sul contenuto dell'atto, avrebbe consentito l'individuazione dell'unicità o pluralità dei soggetti titolari di posizioni di garanzia, proprio muovendo dall'identificazione del rischio che si è concretizzato in relazione al contesto, alla sua complessità ed alle attribuzioni di settore conferite dall'imprenditore nell'organizzazione dell'impresa, nonchè all'eventuale insufficienza di quest'ultima.

Profili di responsabilità amministrativa dell'ente

La lettura della sentenza che si commenta consente di affermare che anche i gestori degli impianti sciistici sono soggetti alla normativa di cui ald.lgs.81/2008.

Invero, più volte in essa vengono ripresi, e ribaditi, i principi di diritto elaborati nella nota sentenza Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343 che ha posto un legame inscindibile tra d.lgs. 81/2008 e d.lgs.231/2001.

Ciò consente di approfondire la riferibilità del d.lgs.231/2001 anche al gestore di impianti sciistici che ometta la predisposizione dei presìdi di cui alla art. 3 l. 363/ 2003, preordinati a rimuovere il rischio connesso all'esistenza di pericoli atipici al fine di evitare il verificarsi di eventi lesivi.

Anche se la Corte di cassazione ha annullato la sentenza di merito con riferimento alla posizione dell'amministratore delegato, purtuttavia è stata confermata la statuizione di condanna con riferimento al dirigente, da considerarsi quale posizione apicale in seno alla società.

Allora potrebbe affermarsi che l'ente non risponde se fornisce la prova dei “fatti” previsti dall'art. 6 del decreto.

L'elenco dei facta probanda appartiene a due piani ben distinti, forzatamente inseriti in un unico contesto: da un lato, infatti, l'ente deve dimostrare di avere adottato un modello organizzativo e gestionale idoneo a prevenire la commissione di reati della specie di quello verificatosi e di averne demandato l'efficace attuazione adun organismo autonomo dotato di poteri di iniziativa e di controllo (art. 6, comma 1, lett. a) e b) del d.lgs. 231/2001); dall'altro lato, invece, esso deve provare sia la mancanza di culpa in vigilando da parte dell'organismo di controllo, sia la condotta fraudolenta dell'autore del reato, cui è addebitabile l'elusione delle norme preventive interne (art. 6, comma 1, lett. c) e d) del d.lgs. 231/2001).

Laddove, invece, come opinato dai giudici di merito, si dovesse ritenere fittizia la nomina del dirigente, e costui dovesse essere ritenuto un dipendente, allora troverebbe applicazione l'art. 7, comma 1, del d.lgs. 231/2001, che nel disciplinare l'ipotesi in cui il reato presupposto sia commesso dal dipendente, addebita la responsabilità all'ente se la realizzazione del fatto è stata resa possibile dall'inosservanza di obblighi di direzione o di vigilanza. In tale ipotesi, a differenza di quanto avviene per i reati commessi dagli “apici”, l'onere probatorio ricade sull´accusa, secondo le coordinate tipiche del codice di rito.

In tale prospettiva, l´affermazione della colpevolezza della societas richiederà non solamente la dimostrazione dell'imputazione oggettiva (reato commesso nell'interesse o a vantaggio della persona giuridica), ma altresì quella soggettiva, cioè a dire l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.

Compatibilità del d.lgs. 231/2001 e reati colposi

Il tema senza dubbio più stimolante è quello compatibilità del sistema di responsabilità di cui al d.lgs.231/2001 rispetto alla commissione di reati colposi, quali quelli che possono verificarsi in occasione della pratica sciistica.

Il punto di partenza del ragionamento è rappresentato dal fatto che, come noto, il modello repressivo previsto dal d.lgs.231/2001 è un modello c.d. chiuso, dal momento che la commissione non di qualsiasi reato importa altresì la responsabilità dell'ente ma solamente quella dei reati tassativamente e nominativamente previsti dalla Sezione III del Capo I (artt. 24 ss. d.lgs. 231/2001) del decreto medesimo.
Originariamente, i delitti colposi di omicidio e lesioni personali sul lavoro non facevano parte dell'elenco.

Successivamente, l'art. 9, comma 1, legge 3 agosto 2007, n. 123 ha inserito al decreto l'art. 25-septiesd.lgs. 231/2001 (Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro), poi ulteriormente modificato, nell'attuale configurazione, dall'art. 300 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81. In questo modo, lo schema di responsabilità degli enti è stato esteso anche alla commissione dei delitti colposi contro la vita e l'incolumità personale.
Fin dall'introduzione dell'art. 25-septies, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla compatibilità del modello di imputazione obiettiva previsto dall'art. 5 con il paradigma dei delitti colposi.

Ci si è in particolare domandati come fosse possibile che potesse sussistere la responsabilità dell'ente in presenza di morte o lesioni colpose causate dalle persone fisiche previste dal decreto se il criterio oggettivo indispensabile per ritenere la sussistenza di tale responsabilità è quello della commissione del reato nell'interesse o a vantaggio dell'ente.

Per loro stessa natura, i reati colposi causalmente orientati, fondati sulla mancata volontà dell'evento lesivo, appaiono radicalmente inconciliabili con l'idea stessa di interesse o vantaggio dell'ente. È evidente, infatti, che nessun interesse o vantaggio può essere perseguito dalla persona fisica che si renda autrice di un delitto colposo, in cui l'evento non soltanto è involontario, ma è anche assolutamente in contrasto, per sua stessa natura, con qualsivoglia interesse per l'ente.

Dalla morte o dalle lesioni dei propri lavoratori, infatti, l'ente non ha assolutamente nulla da guadagnare, né sul piano economico, né su quello di immagine.

Considerazione questa che, ovviamente, può essere estesa anche al gestore di impianti sciistici non solo con riferimento ai propri lavoratori, ma anche agli sciatori.

Ritenere, tuttavia, che i delitti colposi siano radicalmente inconciliabili con l'art. 5 d.lgs. 231/2001 avrebbe significato abrogare di fatto l'art. 25-septies.

I criteri di vantaggio o interesse

Perciò, la giurisprudenza ha elaborato un criterio di compatibilità che, in mancanza di una riformulazione del tessuto normativo in senso maggiormente conferente alle “esigenze” dei delitti colposi, ha permesso di ritenere operativo il suddetto articolo.

Si fa riferimento al criterio per cui, nei delitti colposi, l'interesse o vantaggio per l'ente, di cui all'art. 5, non deve riferirsi alla commissione dell'evento del reato, ma deve riguardare unicamente la condotta (Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343).

È chiaro, infatti, che un interesse per l'ente può essere ottenuto dalla violazione delle norme antinfortunistiche solamente al momento della condotta ed al netto dell'evento, sub specie di risparmio di spesa o di accelerazione e massimizzazione della produzione.

Valutando il comportamento del soggetto agente del reato, infatti, è al momento della condotta che si realizza quell'intento finalistico di procurare un vantaggio all'ente necessario a ritenere anche quest'ultimo responsabile, essendo l'evento del reato non voluto.

Ulteriore nodo problematico del rapporto fra d.lgs.231/2001 e delitti colposi è rappresentato dal configurarsi dei criteri di interesse o vantaggio in relazione alla colpa.

Occorre al riguardo ripercorrere lo sviluppo giurisprudenziale relativo ai due parametri di imputazione obiettiva di cui all'art. 5.

Nonostante esistano teorie c.d. unitarie, per cui interesse e vantaggio incarnerebbero sostanzialmente un unico criterio, trattandosi di tautologica ripetizione del medesimo concetto tramite due termini differenti, in giurisprudenza si è affermata la più corretta teoria per cui si tratterebbe, invece, di criteri diversi e alternativi.

In particolare, si è affermato che, in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche e delle società, l'espressione normativa, con cui se ne individua il presupposto nella commissione dei reati nel suo interesse o a suo vantaggio, non contiene un'endiadi, perché i termini hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse “a monte” per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell'illecito, da un vantaggio obbiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante, sicché l'interesse ed il vantaggio sono in concorso reale (Cass. pen., Sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615.

Come si vede, i due criteri vengono tenuti nettamente distinti, vale a dire operanti su piani diversi, uno (l'interesse) su quello soggettivo e l'altro (il vantaggio) su quello oggettivo.

Così, l'interesse è il criterio soggettivo (indagabile ex ante) consistente nella prospettazione finalistica, da parte del reo-persona fisica, di arrecare un interesse all'ente mediante il compimento del reato, a nulla valendo che poi tale interesse sia stato concretamente raggiunto o meno.

Il vantaggio, al contrario, è il criterio oggettivo (da valutare ex post), consistente nell'effettivo godimento, da parte dell'ente, di un vantaggio concreto dovuto alla commissione del reato.

In altri termini, il richiamo all'interesse dell'ente valorizza una prospettiva soggettiva della condotta delittuosa posta in essere dalla persona fisica da apprezzare ex ante, mentre il riferimento al vantaggio evidenzia un dato oggettivo che richiede sempre una verifica ex post (Cass. pen., Sez. V, 28 novembre 2013, n. 10265).

Le Sezioni unite, a loro volta, hanno abbracciato tale impostazione, statuendo che, in tema di responsabilità da reato degli enti, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell'art. 5 del d.lgs.231/2001 all'
interesse o al vantaggio, sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il criterio dell'interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito (Cass. pen., Sez. unite, 24 aprile 2014, n. 38343).

La riferibilità di tali nozioni ai delitti colposi

Ultimo tassello del ragionamento è dato dall'applicazione di tali criteri ai reati colposi.

Sulla scorta dell'impostazione tracciata dalle Sezioni unite sul caso ThyssenKrupp, e dunque sulla base della distinzione dei due criteri che si è sopra riportata, la giurisprudenza ha stabilito come debbano essere intesi l'interesse ed il vantaggio in riferimento ai delitti colposi di cui all'art. 25-septies, d.lgs.231/2001.

Si è chiarito che, in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante da reati colposi di evento, i criteri di imputazione oggettiva, rappresentati dal riferimento contenuto nell'art. 5 del d.lgs. 231/2001 all'interesse o al vantaggio, sono alternativi e concorrenti tra di loro e devono essere riferiti alla condotta anziché all'evento, pertanto, ricorre il requisito dell'interesse qualora l'autore del reato ha consapevolmente violato la normativa cautelare allo scopo di conseguire un'utilità per l'ente, mentre sussiste il requisito del vantaggio qualora la persona fisica ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto (Cass. pen., Sez. IV, 17 dicembre 2015, n. 2544; Cass. pen., Sez. IV,20 aprile 2016,n. 24697).

Occorre partire da un dato assodato, vale a dire dalla diversità e alternatività dei criteri dell'interesse e del vantaggio.

Come visto, essi rappresentano due diversi criteri di imputazione obiettiva del reato all'ente e non è dunque possibile parlare genericamente di interesse per l'ente onde farvi rientrare ogni tipo di profitto patrimoniale ottenuto dall'ente medesimo a seguito della commissione del reato.

L'interesse è un criterio soggettivo, il quale rappresenta l'intento del reo di arrecare un beneficio all'ente mediante la commissione del reato. Per questo, l'interesse è indagabile solamente ex ante ed è del tutto irrilevante che si sia o meno realizzato il profitto sperato.

Ebbene, è evidente che, nei reati colposi d'evento, affinché l'interesse per l'ente sussista, sarà certamente necessaria la consapevolezza della violazione delle norme antinfortunistiche, in quanto è proprio da tale violazione che la persona fisica ritiene di poter trarre un beneficio economico per l'ente (vale a dire un risparmio di spesa).

Evidentemente, la sussistenza di tale consapevole violazione potrà apparire più evidente nei casi di colpa c.d. cosciente, o con previsione dell'evento, nei quali la volontà dell'agente non è diretta verso l'evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento illecito, si astiene dall'agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo (Cass. pen., Sez. unite, n. 38343/2014). Egli, infatti, ripone la propria fiducia nella non verificazione dell'evento, ma, d'altra parte, è pienamente consapevole della violazione delle regole cautelari, e potrebbe porre in essere tale violazione proprio allo scopo, come spesso accade, di ottenere un risparmio di spesa.

La volontà di risparmiare è dunque indispensabile affinché sussista l'interesse dell'ente.. Diversamente deve ragionarsi con riferimento al vantaggio. Esso è criterio oggettivo, legato all'effettiva realizzazione di un profitto in capo all'ente quale conseguenza della commissione del reato. Per questo deve essere analizzato, a differenza dell'interesse, ex post.

Chiaramente, come si è detto, nei reati colposi si dovrà guardare solamente al vantaggio ottenuto tramite la condotta.

La condotta, nei reati colposi d'evento contro la vita e l'incolumità personale commessi sul lavoro, è rappresentata dalla violazione delle regole cautelari antinfortunistiche, ed è dunque in riferimento ad essa che bisognerà indagare se, ex post, l'ente abbia ottenuto un vantaggio di carattere economico.

Qualora la persona fisica abbia violato sistematicamente le norme prevenzionistiche, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto, allora potrà ravvisarsi il vantaggio per l'ente.

In tale schema, marcatamente obiettivo, non è necessario che il reo abbia volontariamente violato le regole cautelari al fine di risparmiare, in quanto la mancanza di tale volontà rappresenta la sostanziale differenza rispetto all'interesse, ma solamente che risulti integrata la violazione delle regole cautelari contestate. In questo modo, il vantaggio viene rapportato alle specifiche contestazioni mosse alla persona fisica, salvaguardandosi il principio di colpevolezza, ma allo stesso tempo permettendo che venga attinto da sanzione penale anche il soggetto che, in concreto ed obiettivamente, si è giovato della violazione cautelare, vale a dire l'ente.

Quanto, poi, alla consistenza del vantaggio, deve certamente trattarsi di importo non irrisorio, il cui concreto apprezzamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, che resta insindacabile ove congruamente ed adeguatamente motivata.

È stato ritenuto significativo e non irrisorio un risparmio di spesa pari a 20.000 euro da Cass. Pen., Sez. IV, 9 agosto 2018, n. 38363 che ha escluso che il solo risparmio di spesa sicuro ricavato dall'ente possa essere costituito dalla mancata elaborazione del DUVRI: sui garanti della sicurezza dei lavoratori non grava solamente l'obbligo di valutare i rischi, ma anche quello, di sicuro non arginabile semplicemente omettendo di redigere un documento, di fronteggiare detti rischi, adottando le misure più idonee. Secondo i giudici«non è infatti seriamente sostenibile che basti non redigere il documento di valutazione del rischio (interferenziale o meno) per evitare che la società risponda a norma del d.lgs. 231/2001 adducendo che non vi sarebbe alcun concreto vantaggio economico per l'ente solamente perché manca la base di valutazione dei costi da sostenere per la sicurezza sul lavoro».

L'autonomia della responsabilità dell'ente

La sentenza da ultimo citata ha ricordato che la responsabilità penale-amministrativa dell'ente ai sensi del d.lgs.231/2001 deve essere considerata, per esplicita disposizione normativa (art. 8), autonoma rispetto a quella penale degli autori del reato.

Essa sussiste anche nel caso in cui non vengano accertati gli autori del reato, oltre che in alcune altre ipotesi.

Né tale autonomia può venire meno per effetto della semplice separazione processuale delle posizioni degli imputati: nel caso di specie, i coimputati persone fisiche avevano prescelto il rito dibattimentale, mentre l'ente aveva richiesto quello abbreviato.

È stato infatti affermato che, in tema di responsabilità da reato degli enti, la separazione delle posizioni processuali di alcuni degli imputati del reato presupposto per effetto della scelta di riti alternativi non incide sulla contestazione formulata nei confronti dell'ente né riduce l'ambito della cognizione giudiziale, conseguendone che nemmeno dall'assoluzione di uno degli imputati del reato presupposto, non per insussistenza del fatto, discenda automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente, dovendo il giudice procedere ad una verifica del reato presupposto alla stregua dell'integrale contestazione dell'illecito formulata nei confronti dell'ente, accertando la sussistenza o meno delle altre condotte poste in essere dai coimputati nell'interesse o a vantaggio.

Così è stato affermato il principio di diritto per cui, in tema di responsabilità da reato degli enti, l'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto, di cui all'art. 8 d.lgs.231/2001, deve essere intesa nel senso che, per affermare la responsabilità dell'ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del medesimo d.lgs. 231/2001.

Conseguentemente, la posizione processuale dell'ente imputato deve intendersi a sua volta come autonoma rispetto a quella dei coimputati persone fisiche, non gravando sul giudice alcun obbligo di valutare, a favore dell'ente, atti difensivi prodotti in favore di altri soggetti processuali o dell'ente (Cass. pen., Sez. VI, 25 luglio 2017, n. 49056).

In conclusione

Una valutazione congiunta della giurisprudenza passata in rassegna in questo contributo consente dunque di estendere la valutazione della responsabilità che incombe sul gestore di impianti sciistici.

Non solo potrebbe configurarsi la responsabilità personale della persona fisica che rappresenta l'ente, o agisce alle dipendenze di esso ma anche dell'ente stesso.

Da un lato, sussiste la violazione della regola cautelare di cui all'art. 3 l. 363/2003 correlata alla gestione delle piste sciabili non solo in caso di alta probabilità di sinistri, ma anche laddove lungo le piste si presentino pericoli che necessitino di protezione secondo gli ordinari criteri di prevedibilità ed evitabilità.

Dall'altro, può configurarsi l'interesse dell'ente gestore degli impianti laddove la persona fisica penalmente responsabile abbia violato la regola cautelare con il consapevole intento di ottenere un risparmio di spesa per l'ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento.

Ovvero può configurarsi il vantaggio per l'ente in ogni caso in cui la persona fisica abbia sistematicamente violato la normativa cautelare, ricavandone, oggettivamente, un qualche vantaggio per l'ente, sotto forma di risparmio di spesa, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio (pare da escludersi che possa parlarsi con riferimento alla gestione degli impianti sciistici di massimizzazione della produzione).

Per quanto sopra detto anche un risparmio di spesa pari a 20.000 euro può essere ritenuto rilevante a tal fine.

Somma che può tranquillamente riguardare le spese necessarie per la predisposizione di quei bordi protettivi nevosi verticali, dal costo molto contenuto e che si rivelano di particolare robustezza ed efficacia indicati da Cass. pen. Sez. IV, 10 aprile 2018, n. 30927.

Per altro, per affermare la responsabilità dell'ente che gestisce gli impianti sciistici, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale.

Diventa dunque di fondamentale importanza che ogni stazione sciistica, per scongiurare la contestazione della responsabilità dell'ente, predisponga un DUVRI adeguato a quella che è l'elaborazione giurisprudenziale sopra rappresentata. La mera individuazione dei rischi non sarebbe tuttavia sufficiente se non accompagnata dall'adozione di quei presidi minimi che possano scongiurare il verificarsi di eventi lesivi.

Guida all'approfondimento

L. MUSUMARRA, La gestione del rischio nelle aree sciabili attrezzate: l'efficacia scriminante della delega di funzioni, VIII Forum giuridico europeo della neve, Bormio, 3 dicembre 2016

S. ROSSI, Le posizioni di garanzia nell'esercizio degli sport di montagna. Alla ricerca di nuovi equilibri in tema di obblighi precauzionali e gestione del rischio, in Diritto Penale Contemporaneo, 2012

S. ROSSI, Responsabilità penale nello sci e nell'escursionismo: equilibri in tema di obblighi precauzionali e gestione del rischio, in Riv. Dir. Sportivo, Coni, 2015

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