Famiglie e formazioni sociali: la lesione del diritto fondamentale al rapporto di convivenza
05 Marzo 2019
Il quadro normativo
La famiglia è espressamente riconosciuta dall'art. 29 Cost. quale società naturale fondata sul matrimonio. Il riferimento alla società non è casuale perché esiste un elemento che caratterizza i due istituti che è l'affectio (familiaris o societatis), quella volontà di stare insieme che svolge la funzione di collante fra i soggetti che compongono la famiglia o la società. La Cassazione ha di recente riconosciuto il danno non patrimoniale da perdita del rapporto di convivenza, quindi anche in assenza di una famiglia fondata sul matrimonio di cui all'art. 29 Cost., purché sia individuabile la lesione di una di quelle formazioni sociali (appunto la famiglia di fatto) riconosciute e tutelate dall'art. 2 Cost.. Ha così affermato la Cassazione che integra di per sé un danno risarcibile ex art. 2059 c.c. - giacché lede un interesse della persona costituzionalmente rilevante il pregiudizio recato ad un rapporto di convivenza particolarmente qualificato perché ha dato luogo ad una formazione sociale riconosciuta dall'art. 2 Cost. e caratterizzata da uno stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione. In caso, invece, di relazione prematrimoniale o di fidanzamento che - a prescindere da un rapporto di convivenza attuale al momento dell'illecito - era destinato successivamente ad evolvere (e di fatto sia evoluto) in matrimonio, il risarcimento del danno non patrimoniale trova fondamento nell'art. 29 Cost., inteso come norma di tutela costituzionale non solo della famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio, ma anche del diritto del singolo a contrarre matrimonio e ad usufruire dei diritti-doveri reciproci inerenti le persone dei coniugi, nonché a formare una famiglia quale modalità di piena realizzazione della propria vita individuale (Cass. n. 9178/2018; Cass. n. 7128/2013). In effetti, il danno in senso giuridico consiste nella perdita derivante dalla lesione d'una situazione giuridica soggettiva (diritto od interesse che sia) presa in considerazione dall'ordinamento (Cass. n. 500/1999). Situazione giuridica "presa in considerazione" dall'ordinamento è quella alla quale una o più norme apprestino una qualsiasi forma di tutela. Se dunque una situazione o rapporto di fatto non è tutelato in alcun modo dall'ordinamento, la lesione di esso non costituisce un danno risarcibile. Questa è la ragione per la quale la Corte di Cassazione ha negato, la risarcibilità del danno da lesione della felicità o del cambio di abitudini di vita (Cass., S.U., n. 26972/2008) ossia del danno esistenziale, che non ha un riferimento in un corrispondente bene giuridico protetto dalla Costituzione. La regola appena ricordata vale per ogni tipo di danno, patrimoniale o non patrimoniale. Il danno non patrimoniale consiste nella violazione di interessi della persona non suscettibili di valutazione economica. Pertanto, in applicazione della regola ricordata in precedenza, in tanto sarà ipotizzabile un danno non patrimoniale non risarcibile, in quanto: - sia stato leso un interesse non patrimoniale della persona; - l'interesse leso sia preso in considerazione dall'ordinamento; - ricorra una delle ipotesi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.); - la lesione dell'interesse sia stata di entità tale da superare la "soglia minima" di tollerabilità (Cass., S.U., n. 3727/2016). Pertanto, secondo la giurisprudenza, sebbene possa in teoria ammettersi che tra il figlio d'una donna che abbia una relazione more uxorio e il compagno della madre possano crearsi vincoli affettivi anche profondi, nondimeno quel che rileva ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale da rottura d'un vincolo affettivo non è la mera esistenza di quest'ultimo, ma la sua rilevanza giuridica. Il rapporto affettivo tra il figlio del partner e il compagno del suo genitore può dirsi rilevante per il diritto quando si inserisca in quella rete di rapporti che sinteticamente viene qualificata come famiglia di fatto. Solo in questo caso, infatti, può dirsi costituita una "formazione sociale" ai sensi dell'art. 2 Cost., come tale meritevole di tutela anche sotto il profilo risarcitorio. Una famiglia di fatto, ovviamente, non sussiste solo perché delle persone convivano. La sussistenza di essa può desumersi solo da una serie cospicua di indici presuntivi: la risalenza della convivenza, la diuturnitas delle frequentazioni, il mutuum adiutorium, l'assunzione concreta, da parte del genitore de facto, di tutti gli oneri, i doveri e le potestà incombenti sul genitore de iure. Questi principi sono desumibili, oltre che dalla costante giurisprudenza della Cassazione, anche dalla giurisprudenza costituzionale e da quella della Corte Europea dei diritti dell'uomo. Quest'ultima infatti, chiamata a stabilire come dovesse interpretarsi la nozione di diritto alla vita familiare di cui all'art. 8 CEDU, da un lato ha chiarito che in tale nozione rientrano anche i rapporti di fatto tra un bambino e il compagno del genitore del minore (Corte EDU, 19 febbraio 2013, n.n. c. Austria, 96), ma dall'altro lato ha soggiunto che "la nozione di "vita familiare" ai sensi dell'art. 8 CEDU può comprendere relazioni familiari de facto, purchè ricorrano un certo numero di elementi, quali il tempo vissuto insieme, la qualità delle relazioni, nonchè il ruolo assunto dall'adulto nei confronti del bambino (Corte EDU 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti c. Italia, 48). I requisiti per la risarcibilità: legame affettivo stabile e duraturo e reciproco impegno di assistenza morale e materiale
Per poter rivendicare con successo il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale da lesione di un rapporto con un'altra persona è necessario e sufficiente dimostrare l'esistenza di una affectio da intendersi quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale si sia spontaneamente e volontariamente assunto il reciproco impegno di assistenza morale e materiale o quello di contrarre matrimonio e in cui il rapporto parentale e/o la convivenza possono costituire degli elementi indiziari importanti ma non decisivi, nel senso che nonostante la loro esistenza questa affectio potrebbe non sussistere e viceversa potrebbe sussistere pur in loro assenza. È in quest'ottica che può leggersi quanto sostenuto in una decisione dalla Cassazione secondo la quale il danno non patrimoniale da uccisione di un congiunto, quale tipico danno-conseguenza, non coincide con la lesione dell'interesse (ovvero non è in re ipsa) e, pertanto, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, anche se, trattandosi di un pregiudizio proiettato nel futuro, è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base di elementi obbiettivi che è onere del danneggiato fornire, mentre la sua liquidazione avviene in base a valutazione equitativa che tenga conto dell'intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza utile, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l'età della vittima e dei singoli superstiti e ogni altra circostanza allegata: nella specie la Cassazione ha cassato la sentenza impugnata la quale, dopo aver erroneamente affermato che il danno da morte di un congiunto spettava in via presuntiva ai “parenti stretti”, aveva liquidato tale danno in maniera indiscriminata in favore di ciascuno degli otto fratelli della vittima, così erroneamente ritenendo che il danno fosse in re ipsa e, conseguentemente, violando i principi in materia di presunzioni e di valutazione equitativa del danno (Cass. n. 907/2018). È sempre in questa prospettiva della ricerca di una affectio tale da realizzare una formazione sociale – rilevante ex art. 2 Cost. - la cui lesione risulti meritevole di risarcimento che può essere letta altra decisione della Cassazione (specie laddove ritiene da un lato che il danno non sia in re ipsa per la sola esistenza del rapporto di parentela ma che debba essere provata la effettività e la consistenza della relazione parentale e dall'altro che la non convivenza non esclude di per sé la risarcibilità del danno) secondo cui in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale "da uccisione", proposta iure proprio dai congiunti dell'ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l'ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l'azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno; infatti, non essendo condivisibile limitare la "società naturale", cui fa riferimento l'art. 29 Cost., all'ambito ristretto della sola cd. "famiglia nucleare", il rapporto nonni-nipoti non può essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, escludendo automaticamente, nel caso di non sussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare in concreto l'esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto (Cass. n. 21230/2016). Inoltre, nel caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale (cd. danno da rottura del rapporto parentale) non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell'attore allegare e provare; tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche. Nella specie, la Cassazione ha ritenuto inidonea a dimostrare uno sconvolgimento delle abitudini di vita degli stretti congiunti dell'ucciso la mera allegazione di circostanze, quali la convivenza con la vittima, i suoi studi universitari ed il suo subentro in attività imprenditoriali di famiglia, nonché l'assenza di incomprensioni all'interno del nucleo familiare, volte a dimostrare in via presuntiva che gli attori avevano investito molto, in termini umani e professionali, sul parente defunto, figlio primogenito, e che il dolore per la sua prematura perdita era stato particolarmente intenso (Cass. n. 21060/2016). È pertanto perfettamente coerente con questo filone giurisprudenziale la decisione con la quale la Cassazione ha affermato che la sofferenza provata dal convivente more uxorio, in conseguenza dell'uccisione del figlio unilaterale del partner, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se sia dedotto e dimostrato che tra la vittima e l'attore sussistesse un rapporto familiare di fatto, il quale non si esaurisce nella mera convivenza, ma consiste in una relazione affettiva stabile, duratura, risalente e sotto ogni aspetto coincidente con quella naturalmente scaturente dalla filiazione (Cass. n. 8037/2016). Parimenti coerente è quanto deciso con un'altra pronuncia della Cassazione, secondo la quale il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente more uxorio ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale (Cass. 8053/2018: Cass. n. 8037/2016). Rapporto parentale e rapporto di convivenza
Mentre la risarcibilità del danno da perdita del rapporto parentale trova un appiglio costituzionale non solo nell'art. 2 Cost. ma anche nell'art. 29 Cost., quello da perdita del rapporto di convivenza si poggia solo sull'art. 2 Cost., con la conseguenza che la prova dell'esistenza e della rilevanza del danno dovrà essere più rigorosa in quanto l'essere la famiglia di fatto fondata solo sul pilastro dell'art. 2 Cost. la fa apparire agli occhi della Consulta “più debole” dal punto di vista della rilevanza costituzionale rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio – che poggia anche sul pilastro dell'art. 29 Cost. – e quindi in qualche modo diversa da essa (Corte cost. n. 140/2009). Sotto questo punto di vista dunque la famiglia di fatto, nonché le unioni civili fra persone dello stesso sesso di cui agli artt. 1 ss. legge 20 maggio 2016, n. 76, non godono della stessa protezione della famiglia consacrata nel matrimonio. In effetti, la completa parificazione della posizione del figlio nato fuori dal matrimonio rispetto a quella del figlio nato in costanza di matrimonio, che si deve alla legge 10 dicembre 2012, n. 219 e al d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, attiene al patrimonio dei diritti inerenti allo status di figlio, ma non incide sul diritto vivente in materia di danno non patrimoniale derivante dalla rottura del rapporto parentale, rispetto al quale resta, quale discrimine, il presupposto della consistenza ed effettività della relazione parentale, sulla cui valutazione incide la possibilità di poter invocare o meno l'art. 29 Cost. e dunque la sussistenza di rapporti parentali originati da un matrimonio. Connota tale relazione lo stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all'intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. È naturalmente indubbio, per la giurisprudenza, che la relazione parentale, secondo le caratteristiche appena indicate, possa caratterizzare anche la condizione dei figli nati fuori del matrimonio (secondo la dizione legislativa che ha sostituito quella di "figli naturali"). In tal caso però dovrà dimostrarsi l'esistenza di reciproci legami affettivi particolarmente forti e corroborati da vincoli di solidarietà, rispetto ai quali non è peraltro determinante l'esistenza di un rapporto di convivenza, il quale resta solo elemento probatorio utile a dimostrare l'ampiezza e la profondità di quei legami affettivi (Cass. n. 21230/2016). In conclusione
Se questa è la ricostruzione giuridica offerta dalla Cassazione e dato che le formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost. – in mancanza di un'indicazione della stessa norma o della Corte costituzionale in tal senso - non costituiscono un numero chiuso non si vede perché non sia possibile immaginare altre formazioni sociali – si vogliano chiamare o meno famiglia - all'interno delle quali sia possibile immaginare l'esistenza di un rapporto affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale, di intensità tale tra i loro membri da poter ipotizzare, in caso di illecita lesione di tale rapporto da parte di un terzo, il diritto al risarcimento del danno provocato da tale lesione in capo al soggetto o ai soggetti superstiti di tale formazione sociale. Vengono in mente non tanto e non solo le relazioni omosessuali, che pacificamente rientrano nel concetto di famiglia di fatto anche quando non abbiano formalizzato una unione civile ai sensi dell'art. 1 legge n. 76/2016, ma tutti quei rapporti di intensa e duratura amicizia che non può non sconfinare nell'affetto e che prescindono dal diverso sentimento dell'amore e/o del desiderio sessuale che lega invece le coppie eterosessuali o omosessuali. Si pensi ad esempio a due uomini celibi, entrambi eterosessuali, benestanti e privi di parenti, i quali convivano oramai da decenni in quanto legati da un forte sentimento di amicizia. Può negarsi all'uno il risarcimento del danno non patrimoniale in caso di morte provocata dalla condotta colpevole di un terzo? Riterrei di no, perché si era evidentemente costituita una formazione sociale (quand'anche formata da sole due persone) ai sensi dell'art. 2 Cost., come tale meritevole di tutela anche sotto il profilo risarcitorio, e non certo per il sol fatto che le due persone convivano, il che peraltro già costituisce un indizio significativo della reciproca esistenza di una affectio. La sussistenza della formazione sociale può però desumersi anche dalla lunga durata di tale convivenza, dalla quotidianità e assiduitàdelle frequentazioni, dalla sussistenza, effettivamente saggiata e messa alla prova, di reciproci vincoli di solidarietà e di doveri di assistenza. G. Musolino, Il contratto di convivenza. Aspetti formali e relative nullità, in Riv. notariato, 2018, 745; M. Tommasini, I rapporti familiari tra tradizione e attualità, in Dir. fam. persone, 2018, 259; G. Iorio, Il danno risarcibile derivante dal decesso del convivente di fatto, in Resp. civ. prev., 2017, 1092B; M. Rinaldo, Unioni civili e convivenze nell'era della codificazione delle “nuove” famiglie, Dir. fam. persone, 2017, 976; E. Bilotti, Convivenze, unioni civili, genitorialità, adozioni, Dir. fam. persone, 870. |