I pubblici registri utilizzabili per la notifica telematica: la Cass. n. 3709/2019 e i profili problematici
07 Marzo 2019
Massima
"Il domicilio digitale previsto dall'art. 16-sexies del d.l. n. 179 del 2012, corrisponde all'indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell'Ordine di appartenenza e che, per il tramite di quest'ultimo, è inserito nel Registro Generale degli Indirizzi Elettronici (ReGindE) gestito dal Ministero della giustizia. Solo questo indirizzo è qualificato ai fini processuali ed idoneo a garantire l'effettiva difesa, sicché la notificazione di un atto giudiziario ad un indirizzo PEC riferibile - a seconda dei casi - alla parte personalmente o al difensore, ma diverso da quello inserito nel ReGindE, è nulla, restando del tutto irrilevante la circostanza che detto indirizzo risulti dall'Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI-PEC)" Il caso
Il caso scrutinato dalla Corte di Cassazione trae origine da un giudizio di opposizione all'esecuzione ma si segnala in particolare per il principio di diritto enunciato in massima che, come si avrà modo di esporre, presenta vari profili problematici. Il punto di contesa specifico riguardava la tempestività dell'impugnazione proposta dall'Avvocatura dello Stato, che era giunta oltre i trenta giorni dalla notifica della sentenza. In particolare, per quanto è dato comprendere dalla lettura della pronuncia in commento, la sentenza era stata pubblicata il 26 ottobre 2016 e notificata a mezzo PEC il 28 ottobre 2016, mentre il ricorso era stato consegnato all'ufficiale giudiziario per la notificazione il 26 aprile 2017, quindi nel rispetto del termine di decadenza di cui all'art. 327 c.p.c., ma oltre la scadenza del termine c.d. "breve" di cui agli artt. 325 e 326 c.p.c.. Preliminarmente occorre tentare di ricostruire l'esatto andamento dei fatti, che in realtà non traspare da quanto sinteticamente riportato in sentenza, ed esporre i motivi per i quali l'impugnazione venne notificata con così tanto ritardo rispetto alla notifica della sentenza. Dalle risultanze di giudizio, è dato invero desumere che verosimilmente il riferimento all'indice INI-PEC costituisce un fuor d'opera; molto più probabilmente la parte aveva notificato la sentenza ad un indirizzo PEC tratto dall'Indice delle Pubbliche Amministrazioni (IPA); l'illazione può essere desunta dal passaggio della sentenza in cui, esponendo le tesi della difesa erariale, si scrive “l'indirizzo elettronico in questione viene utilizzato dall'Avvocatura dello Stato per scopi amministrativi e non giudiziali”. Il riferimento all'indirizzo presente in IPA è chiaro, essendo proprio censurata la PEC utilizzata a fini di comunicazioni amministrative. Ciò precisato, la Corte di Cassazione giunge a definire nulla la notificazione effettuata presso il suddetto indice e ad affermare che invece l'indirizzo PEC avrebbe dovuto essere estratto dal REGINDE. La questione
La questione giuridica, meritevole di esame, nella fattispecie è dunque legata alla relazione intercorrente tra notifica telematica della sentenza (andata a buon fine) e indirizzo PEC presso il quale questa è effettuata. L'enorme problema che pone la sentenza, foriero di conseguenze di non poco momento, è che in realtà di tale questione nulla traspare dalla lettura dello scritto dei giudici di legittimità, che si incentra sul parallelo tra indirizzi PEC registrati presso il REGINDE e presso l'INI-PEC. Il lettore ignaro delle circostanze in cui è maturata la decisione si trova dunque spiazzato leggendo una pronuncia nella quale viene stabilito un ordine gerarchico tra i pubblici registri contemplati, in posizione assolutamente paritaria tra loro, dall'art. 16-ter d.l. 179 del 2012. Le soluzioni giuridiche
La soluzione giuridica fornita dalla Suprema Corte appare dunque errata due volte:
È dunque errato, in fatto e in diritto, affermare che sarebbe nulla la notificazione di un atto giudiziario ad un indirizzo PEC diverso da quello inserito nel ReGindE, “restando del tutto irrilevante la circostanza che detto indirizzo risulti dall'l'Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI-PEC)”. Semplicemente si afferma un principio del tutto vuoto, irrealizzabile nella pratica a meno di errori umani che peraltro sarebbero di difficile soluzione posto che, lo si ribadisce, l'art. 16-ter d.l. 179 del 2012 non pone alcun ordine gerarchico tra i pubblici registri. Osservazioni
La decisone della Suprema Corte è dunque errata e si auspica che rimanga precedente isolato, sia a livello di giurisprudenza di merito sia a livello di legittimità. In effetti gli errori da cui è affetta la pronuncia sono molteplici. Si è già ampiamente detto di come sia errato stabilire una gerarchia tra pubblici registri alimentati dalla medesima base dati e di come tale operazione non sia in alcun modo autorizzata dal disposto dell'art. 16-ter d.l. 179 del 2012. Ma si aggiunge che un ulteriore errore sta nell'affermazione secondo cui l'indirizzo di posta elettronica certificata da utilizzare per la notificazione all'Avvocatura andava reperito sul ReGindE. In tal modo la Suprema Corte ha infatti ignorato che il pubblico registro utilizzabile per le notificazioni alle Pubbliche Amministrazioni (e anche all'Avvocatura dello Stato che costituisce la difesa è di queste ultime) va reperito sul Registro PP.AA. previsto dall'art. 12 del d.l. 179 del 2012.
L'errore, peraltro, non è di poco momento, stante che le basi dati utilizzate per popolare i due registri sono in questo caso differenti e ben potrebbe darsi il caso (non verificatosi nella fattispecie) di difformità degli indirizzi di recapito elettronico. Anche sul punto, peraltro, la normativa è assai chiara e non lascia adito ad interpretazioni come quella proposta dalla Corte di Cassazione In conclusione non si può non sottolineare ancora una volta il passo falso in cui è incappato il Giudice di legittimità e l'erroneità del principio di diritto affermato. Alla luce delle argomentazioni esposte si ritiene che la pronuncia non possa assurgere al ruolo di valido precedente giudiziario in grado di orientare gli interpreti del diritto; si tratta piuttosto di un passaggio a vuoto della giurisprudenza di legittimità che, si auspica, venga superato e dimenticato quanto prima. |