La cessazione dell’attività del debitore nella liquidazione giudiziale

08 Marzo 2019

La delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza contenuta nella L. 19 ottobre 2017, n. 155, non ha rivelato una particolare necessità di intervento normativo sulla disciplina della cessazione dell'attività del debitore. In tale cornice, il neo-approvato Codice riprende gli artt. 10, 11 e 12 l.fall. aggiornandoli alla luce dei contributi offerti dalla giurisprudenza.
Premessa

La delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza contenuta nella L. 19 ottobre 2017, n. 155, non ha rivelato una particolare necessità di intervento normativo sulla disciplina della cessazione dell'attività del debitore. In tale cornice, il neo-approvato Codice riprende gli artt. 10, 11 e 12 l.fall. aggiornandoli alla luce dei contributi offerti dalla giurisprudenza.

La liquidazione giudiziale del debitore cessato

Il Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza, nell'ambito del titolo III sulle “Procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza”, dedica il capo III alla “Cessazione dell'attività del debitore”. In carenza di principi e criteri direttivi sul tema nella delega di cui alla L. 19 ottobre 2017, n. 155, gli artt. 33 - 36 del predetto capo lasciano di fatto invariato il precedente quadro normativo, fatta eccezione per la codificazione di alcuni arresti giurisprudenziali.

Nel merito, il capo in questione si apre con le disposizioni inerenti alla “fine” dell'impresa - individuale o collettiva - per cessazione della relativa attività. La regola generale è quella per cui “La liquidazione giudiziale può essere aperta entro un anno dalla cessazione dell'attività del debitore, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo” (art. 33 c.c.i.). A parte l'adeguamento terminologico imposto dall'art. 349 del codice, l'art. 33 ripropone la fictio iuris della sopravvivenza dell'imprenditore cessato sino a un anno dall'estinzione dell'attività imprenditoriale ai soli fini della possibile liquidazione giudiziale. Tale previsione, già presente all'art. 10 l. fall., si accompagna - per effetto del recepimento dell'unica indicazione sul tema contenuta nella citata legge delega - all'obbligo dell'imprenditore di “mantenere attivo l'indirizzo del servizio elettronico di recapito certificato qualificato, o di posta elettronica certificata comunicato all'INI-PEC” per un anno decorrente dalla cancellazione dal registro delle imprese (art. 33 c.c.i.). Sul punto, la relazione illustrativa precisa che la finalità della norma è quella di “agevolare il processo di notificazione di eventuali iniziative adottate da terzi” (p. 50). I problemi di notifica paiono tuttavia solo in parte superati, se si considera che l'evento della cancellazione dal registro non corrisponde per tutte le imprese al dies a quo della decorrenza del termine annuale suddetto, per le ragioni di seguito esposte.

La fictio iuris assume rilevanza concreta al ricorrere di tre elementi. Anzitutto, rileva - come detto - l'evento della cessazione dell'attività di impresa. Il riferimento alla cessazione dell'attività del debitore potrebbe di primo acchito sembrare foriero di un ritorno al passato: l'art. 10 l. fall. prima della riforma del 2006 (D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5) aveva adottato proprio l'evento della cessazione dell'attività quale parametro per delimitare temporalmente la qualità di imprenditore fallibile; evento sostituito poi, a fronte della pronuncia di illegittimità costituzionale (Corte cost. 21 luglio 2000, n. 319), dalla formale cancellazione dell'impresa dal registro. Il nuovo art. 33, però, lascia inalterato il bilanciamento tra criteri formali e sostanziali attualmente vigente. Dopo l'enunciazione della regola generale, l'articolo in commento specifica che la cessazione dell'attività dell'imprenditore (sia esso individuale o collettivo) “coincide con la cancellazione dal registro delle imprese” (art. 33 c.c.i.). Vi è quindi una presunzione di cessazione dell'attività d'impresa nel momento stesso in cui l'impresa è cancellata dal registro. L'art. 33, comma 2, del codice non precisa tuttavia se tale presunzione produce effetti (i.e. fa decorrere il termine di un anno) solo dalla data di iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese o possa avere un qualche effetto retroattivo alla data di presentazione della domanda da parte dell'imprenditore. Sul punto, la giurisprudenza, che in assenza di diverse indicazioni legislative continuerà a valere, ha costantemente statuito l'irrilevanza della data della richiesta di cancellazione dal registro avanzata dall'imprenditore, a tutela dei terzi (da ultimo, Cass. 13 luglio 2018, n. 18731). Il criterio qui ricordato risulta peraltro in linea con un principio che si evince anche dalle disposizioni del nuovo codice, ossia la necessaria conoscenza o quantomeno conoscibilità della cessazione dell'attività da parte dei terzi ai fini dell'effettivo decorso del termine in questione.

Il principio suddetto è espresso a chiare lettere nella disciplina - di nuova introduzione - della cessazione degli imprenditori non iscritti nel registro delle imprese. Per tali soggetti l'art. 33 del codice stabilisce che la cessazione dell'attività coincide con il “momento in cui i terzi hanno conoscenza della cessazione stessa” (art. 33, comma 2, c.c.i.). La norma accoglie (forse acriticamente) la regola giurisprudenziale formatasi per colmare il vuoto giuridico e la disparità di trattamento venutasi a creare tra imprenditori iscritti e non iscritti: la mancata regolamentazione della cessazione dell'impresa non iscritta potrebbe infatti comportare (i) che quest'ultima resti assoggettata al fallimento senza limiti temporali, con evidente svantaggio rispetto ai soggetti iscritti, o, in alternativa, (ii) che il termine annuale decorra dall'interruzione di fatto dell'attività, con ingiusto vantaggio rispetto ai soggetti iscritti. Orbene, in tale quadro la giurisprudenza ha optato per una soluzione di equilibrio tra esigenze di certezza sull'esistenza (e fallibilità) o meno di un soggetto giuridico e di tutela dei terzi che con esso operano: per le imprese non iscritte il dies a quo va individuato nel “momento in cui la cessazione dell'attività sia portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei o, comunque, sia stata dagli stessi conosciuta” (Cass. 25 luglio 2016, n. 15346). Nel far propria tale soluzione, il legislatore del nuovo codice ha motivato la scelta ritenendola conforme a “un principio omogeneo ad una regola di opponibilità già prevista nel codice civile” (p. 50 della relazione illustrativa). L'opponibilità prevista dal codice civile - almeno quella di cui all'art. 2193 c.c. - regola però l'efficacia dell'iscrizione dei fatti nel registro delle imprese nei rapporti tra l'imprenditore e il singolo creditore, senza effetti su terzi ulteriori. L'ipotesi trattata, di contro, ha ad oggetto il decorso del termine di assoggettabilità alla liquidazione giudiziale, con effetti su tutti i creditori. Pertanto, delle due l'una: o la conoscenza della cessazione dell'attività da parte di un solo terzo fa decorrere il predetto termine per tutti i creditori oppure il termine deve ritenersi “mobile” a seconda del terzo che ha acquisito la scientia, con conseguente vanificazione degli obiettivi di certezza. In entrambi i casi, mancano nell'art. 33 del codice istruzioni idonee a rendere fruibile la regola giurisprudenziale per l'individuazione del termine ultimo di apertura della liquidazione giudiziale degli imprenditori non iscritti.

I criteri formali suddetti (i.e. cancellazione dal registro per gli imprenditori iscritti e conoscenza dei terzi per i non iscritti) - come anticipato - sono controbilanciati da un criterio sostanziale. Criterio che è riportato nel terzo comma dell'art. 33 del codice negli stessi termini del vigente art. 10, comma 2, l. fall.: “In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta comunque salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività” (art. 33 c.c.i). Senza entrare nel merito della questione dell'individuazione dell'effettiva cessazione dell'attività, i cui tratti rimangono giocoforza invariati rispetto al passato, si evidenzia come anche nel nuovo codice la deroga ai criteri principali sia relativa. Tale deroga, cioè, può avvenire solo su iniziativa di creditori e pubblico ministero, con la finalità di estendere nel tempo l'assoggettabilità del debitore alla liquidazione giudiziale. Non è invece possibile - conformemente all'orientamento giurisprudenziale sul punto (da ultimo, Cass. 26 ottobre 2018, n. 27288) - per l'imprenditore dimostrare la cessazione dell'attività in un momento anteriore a quello in cui ne è stata data pubblicità a beneficio dei terzi.

Entro un anno dalla cessazione dell'attività del debitore la “liquidazione giudiziale può essere aperta”. Tale effetto si produce, secondo un'interpretazione letterale dell'art. 33 del codice, solo con la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale. Il riferimento è al successivo art. 49, ove è stabilito che il tribunale “su ricorso di uno dei soggetti legittimati e accertati i presupposti dell'art. 121, dichiara con sentenza l'apertura della liquidazione giudiziale”. “La sentenza produce i propri effetti dalla data della pubblicazione ai sensi dell'articolo 133, primo comma, del codice di procedura civile. Gli effetti nei riguardi dei terzi […] si producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese” (art. 49, commi 1 e 4, c.c.i.). Sembra rilevare, ai fini del rispetto del predetto termine, la data della pubblicazione della sentenza mediante deposito in cancelleria, in mancanza di un intervento di segno opposto idoneo a contrastare il consolidato orientamento giurisprudenziale sul punto. La giurisprudenza, infatti, ha costantemente statuito che il dies ad quem del termine annuale di cui all'art. 10 l. fall.“è necessariamente quello della pubblicazione della sentenza di fallimento e l'istanza di fallimento tempestivamente presentata dal creditore non può produrre effetti prenotativi” (Cass. 12 aprile 2013, n. 8932). In ipotesi di reclamo contro il provvedimento che rigetta la domanda di apertura della liquidazione giudiziale, a norma dell'art. 50 del codice “I termini di cui agli articoli 33, 34 e 35 si computano con riferimento alla sentenza della corte di appello” (art. 50, comma 6, c.c.i.). Se in un'ottica di tutela dei creditori le previsioni qui riportate appaiono quantomeno discutibili, ancor più lo è l'indirizzo giurisprudenziale - non smentito dalla nuova disciplina - per cui il termine annuale non può essere superato nemmeno “qualora il rispetto di tale termine sia impedito dalla proposizione di una domanda di concordato preventivo ed il conseguente procedimento si sia concluso dopo la scadenza del termine annuale, con la dichiarazione di inammissibilità della domanda […] o, comunque, con la dichiarazione di revoca dell'ammissione o la mancata approvazione della proposta o la reiezione all'esito del giudizio di omologa” (Corte cost. 13 gennaio 2017, n. 9). In concreto: il debitore che presenta domanda di concordato preventivo immediatamente prima della cancellazione dal registro delle imprese può sperare di sottrarsi alla liquidazione giudiziale se solo la procedura concordataria si protrae per oltre un anno, a prescindere dall'esito. Il che evidentemente spalanca le porte ad abusi, anche in ragione di quanto esposto nel prosieguo.

La liquidazione giudiziale può essere aperta - com'è ovvio - a fronte di uno stato di insolvenza del debitore. In particolare, la dichiarazione ex art. 49 del codice può intervenire a seguito della cessazione dell'attività “sel'insolvenzasièmanifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo” (art. 33, comma 1, c.c.i.). Tradotto secondo la definizione di insolvenza di cui all'art. 2 del codice: può essere assoggettato a liquidazione giudiziale il debitore che “non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”, anche successivamente alla chiusura dell'attività. Per evitare contraddizioni di sorta, pare doversi ritenere che le obbligazioni inadempiute siano sorte comunque nel corso dell'attività; ne deriva dunque una certa residualità dell'ipotesi di insolvenza “successiva”.

Taluni profili di criticità si rinvengono nel coordinamento tra la previsione di cui al primo comma dell'art. 33 del codice e il neo-introdotto quarto comma del medesimo articolo. La citata disposizione dichiara espressamente inammissibilela domanda di accesso alla procedura di concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti presentata dall'imprenditore cancellato dal registro delle imprese” (art. 33, comma 4, c.c.i.). In proposito, è vero che di fatto l'impossibilità di ricorrere a tali strumenti è frutto della “intervenuta e consapevole scelta di cessare l'attività imprenditoriale, necessario presupposto della cancellazione” (Cass. 20 ottobre 2015, n. 21286). D'altra parte, però, in ipotesi di manifestazione dell'insolvenza solo in un momento successivo alla cancellazione dal registro - e quindi in assenza di “dolo” dell'imprenditore - dovrebbe coerentemente scemare la ratio punitiva insita nella predetta inammissibilità. L'imprenditore, cioè, dovrebbe poter rimediare alla sopravvenuta condizione di default mediante una procedura di regolazione della crisi e dell'insolvenza. E ciò a fortiori ove si ricordi che è facoltà dell'imprenditore attivare tali rimedi appena prima della cessazione dell'attività e proseguirli anche in seguito alla stessa, per giunta al fine di superare una crisi (non successiva, bensì) pregressa.

La liquidazione giudiziale del debitore defunto

A latere della disciplina dettata in tema di cessazione dell'attività imprenditoriale strettamente intesa, il capo III in commento (ri)propone in buona sostanza le disposizioni già vigenti in merito alla morte del debitore (imprenditore individuale, s'intende) fallito o fallendo. Quanto a quest'ultima ipotesi, ossia all'apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del debitore defunto, l'art. 34 del codice opera anzitutto un pieno rinvio alle “condizioni di cui all'art. 33” (art. 34, comma 1, c.c.i.). La regola generale è pertanto, anche in tal caso, quella per cui la predetta procedura può essere aperta entro un anno dalla morte del debitore, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo.

Richiamate, per quanto compatibili, le questioni già esposte in punto di apertura della procedura e manifestazione dell'insolvenza, un aspetto rilevante è legato alla legittimazione a proporre domanda di accesso alla predetta procedura e ai correlativi effetti patrimoniali sugli eredi. Il secondo e terzo comma del citato art. 34 del codice contemplano - al pari dell'art. 11, comma 2, l. fall. - esclusivamente l'iniziativa dell'erede per la liquidazione giudiziale dell'imprenditore defunto. In particolare, l'erede ha facoltà di presentare ricorso per l'apertura della procedura se “l'eredità non sia già confusa con il suo patrimonio” (art. 34, comma 2, c.c.i.). Quest'ultimo, cioè, può attivarsi per far liquidare giudizialmente il patrimonio del de cuius a beneficio dei creditori finché non ne abbia acquisito la piena disponibilità e con essa pure la titolarità dei debiti; effetto che consegue all'accettazione dell'eredità, ad eccezione dell'accettazione con beneficio di inventario ex art. 484 c.c. Restano da chiarire le conseguenze dell'insolvenza del debitore defunto sull'erede puro e semplice, con particolare riguardo al caso in cui l'erede medesimo sia o diventi imprenditore a titolo ereditario.

La legittimazione suddetta risulta condizionata alla dimostrazione da parte dell'erede “di avervi interesse” (art. 34, comma 2, c.c.i.). Tale presupposto di nuova introduzione non risulta accompagnato da opportuni “indici di interesse” né nella norma stessa, né nella relazione illustrativa ove la modifica all'art. 11 l. fall. qui evidenziata non è nemmeno citata. Ciò premesso, posto che la limitazione della responsabilità patrimoniale dell'erede ai beni ereditati si ottiene già a fronte del beneficio di inventario, non è agevole individuare un interesse diverso e ulteriore all'apertura della liquidazione giudiziale. La differenza che si può cogliere tra le due procedure è, relativamente alla seconda, la tutela della par condicio creditorum ai fini di un ordinato smobilizzo degli asset ereditari; tant'è che l'ultimo comma dell'art. 34 del codice, come la corrispondente disposizione vigente, stabilisce che “Con l'apertura della procedura di liquidazione cessano di diritto gli effetti della separazione dei beni ottenuta dai creditori del defunto” a norma degli artt. 512 ss. c.c. Tale interesse, però, essendo proprio di tutti i creditori dell'eredità, ha il solo effetto di suggerire che l'erede ricorre alla procedura di regolazione della insolvenza del de cuius in qualità anch'esso di creditore. Se così è, non è di immediata evidenza la ragione per cui l'erede dovrebbe godere di una legittimazione ridotta rispetto ai creditori normali, che - in mancanza di una specifica disposizione - pare abbiano facoltà di presentare domanda di accesso alla procedura a norma del più generale art. 40 del codice. Inoltre, e in ogni caso, non è precisato, anche in rapporto con la successiva ipotesi della morte del debitore in liquidazione giudiziale, nei confronti di chi si svolga la procedura avviata dall'erede. E tale aspetto procedurale risulta ancor più incerto a seguito della lettura del terzo comma dell'art. 34 in commento, ove - da un lato - esso sottrae l'erede “agli obblighi di deposito della documentazione di cui all'art. 39” propri del debitore in liquidazione giudiziale e - dall'altro - impone allo stesso, nella nuova formulazione della norma, di depositare “una relazione sulla situazione economico-patrimoniale aggiornata” (art. 34, comma 3, c.c.i.). Ciò, secondo quanto esposto nella relazione illustrativa, “nel chiaro intento di accrescere il bagaglio informativo del tribunale” (p. 50 della relazione illustrativa).

La morte del debitore in liquidazione giudiziale

L'ipotesi speculare a quella sopra trattata, ossia la morte del debitore dopo l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale, è disciplinata nel nuovo codice dagli artt. 35 e 36, risultato della mera separazione dei due commi del vecchio art. 12 l. fall. Nessuna modifica, se non terminologica, è stata apportata a tali disposizioni in sede di stesura del codice, cosicché rimangono invariate anche le questioni a ciò connesse. In sintesi: la morte del debitore non interrompe la procedura, che “prosegue nei confronti degli eredi, anche se hanno accettato con beneficio d'inventario” e, nel caso di pluralità di questi, nei confronti dell'erede designato come rappresentante. In ipotesi di eredità giacente di cui all'art. 528 c.c. e di istituzione condizionata dell'erede di cui all'art. 641 c.c., è assoggettato a procedura di liquidazione rispettivamente il curatore dell'eredità giacente e l'amministratore nominato ex art. 642 c.c. Tale previsione in punto di legittimazione passiva non ha di certo il pregio di chiarire la posizione dell'erede in funzione e nell'ambito della procedura di liquidazione giudiziale del de cuius e, più in generale, a fronte dell'insolvenza di quest'ultimo.

In conclusione

Lo scenario che si prospetta col nuovo Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza - almeno in tema di cessazione dell'attività del debitore di cui al capo III del titolo III - non modifica significativamente il quadro attuale. Il merito di aver dato veste normativa a rilevanti interventi della giurisprudenza sfuma laddove i principi di natura giurisprudenziale non siano stati opportunamente tradotti in norme di dettaglio.

Riferimenti

Riferimenti normativi – Art. 2, comma 1, lett. i), L. 19 ottobre 2017, n. 155; artt. 33, 34, 35 e 36 c.c.i. e artt. 10, 11 e 12 l. fall.

Riferimenti giurisprudenziali – In aggiunta alle pronunce giurisprudenziali citate, tra le più recenti, sulla decorrenza del termine di cui all'art. 10 l. fall., Cass. 21 febbraio 2018, n. 4182 e Cass. 7 marzo 2016, n. 4409. Sul termine per gli imprenditori non iscritti, Cass. 6 marzo 2017, n. 5520; App. Venezia 16 febbraio 2017, in Dir. fall., 2017, 5, 1254, e Cass. 12 dicembre 2014, n. 26209. Sulla dimostrazione del momento dell'effettiva cessazione dell'attività, Cass. 21 febbraio 2018, cit., Cass. 1 dicembre 2016, n. 24549; Cass. 26 agosto 2016, n. 17360 e Cass. 21 aprile 2016, n. 8092. Sulla morte dell'imprenditore, Cass. 21 marzo 2013, n. 7181, e Cass. 22 luglio 2011, n. 16115.

Riferimenti dottrinali – Sugli artt. 10, 11 e 12 l. fall., anche per ulteriori riferimenti, Ciervo, La cessazione dell'impresa. Obblighi, in Fallimento e concordato fallimentare, a cura di Jorio, Milano, 2016, I, 316 ss.; Mozzarelli, Il presupposto soggettivo, in Crisi d'impresa e procedure concorsuali, diretto da Cagnasso-Panzani, Torino, 2016, 352 ss., nonché Il piccolo imprenditore cancellato dal registro delle imprese sfugge al fallimento?, portale Il fallimentarista, 2016.