L'assegno all'unito civile e il paradosso delle possibili discriminazioni in nome del principio di uguaglianza
25 Marzo 2019
Massima
Nel procedimento di scioglimento dell'unione civile non è possibile autorizzare le parti a vivere separate né è applicabile l'art. 191 c.c. L'assegno a seguito dello scioglimento dell'unione civile è retto dai principi espressi da Cass. SS.UU. sentenza n. 18287/2018 in punto assegno divorzile. All'unito civilmente, in presenza di uno squilibrio economico rilevante, spetta dunque un assegno parametrato alle perdite di chance subìte per effetto delle scelte lavorative fatte nel corso della relazione da intendersi, sotto il profilo temporale, comprensiva anche del periodo di convivenza di fatto prima della contrazione del vincolo. Il caso
Tizia, dipendente pubblico con sede lavorativa in Venezia e residenza in Mira e Caia intrecciano una relazione, che sfocia in convivenza more uxorio nell'autunno del 2013. Conseguentemente Tizia si trasferisce nell'abitazione di Caia, a Pordenone, ivi spostando anche la sede della propria attività lavorativa. Nel dicembre 2016 le due donne costituiscono un'unione civile. Nell'autunno 2018 Caia, espletati gli incombenti di legge, deposita ricorso per lo scioglimento dell'unione civile. Tizia si costituisce nel procedimento, chiedendo in via provvisoria e urgente la corresponsione di un assegno mensile, ex art. 5 l. div., come richiamato dall'art. 1 comma 25 l. n. 76/2016. A fondamento della domanda, Tizia assume di aver dovuto rinunziare a un'attività «leggermente meglio remunerata» per potersi trasferirsi nella casa della propria compagna. Caia resiste alla domanda. La questione
Il provvedimento in questione affronta interessanti problematiche, fornendo soluzioni stimolanti nel dibattito nato a seguito dell'introduzione della Legge sulle unioni civili, la cui formulazione, in alcune sue parti, specialmente quelle relative al procedimento, è stata oggetto di differenti letture. In primo luogo il Presidente del Tribunale si è interrogato sull'applicabilità, al procedimento di scioglimento delle unioni civili, dell'autorizzazione a vivere separati, prevista dall'art. 708 c.p.c. e conseguentemente sulla possibilità di considerare sciolta la comunione dei beni alla prima udienza del procedimento, come previsto dall'art. 191 c.c.; in secondo luogo la decisione in commento affronta i criteri da applicare per la decisione sull'assegno provvisorio spettante all'unito civile, alla luce dell'interpretazione dell'art. 5 l. div., dopo l'intervento di Cass. SS.UU. sentenza n. 18287/2018.
Le soluzioni giuridiche
Il Presidente del Tribunale di Pordenone ha escluso di poter autorizzare le due componenti dell'unione civile a vivere separate, ritenendo «del tutto improprio e non applicabile, neppure per analogia, un provvedimento che autorizzi le parti a vivere separate e sciolga la comunione delle unioniste (manca nella legge istitutiva delle unioni civili il richiamo all'art. 2 L. n. 55/2015)». Risolta la questione preliminare, il provvedimento ha riconosciuto alla richiedente un assegno provvisorio di 350,00 euro mensili sulla scorta del seguente ragionamento: i) all'assegno a seguito di scioglimento dell'unione civile «anche per ragioni di parità di trattamento, costituzionalmente orientato» si applicano «e medesime argomentazioni interpretative espresse» da Cass. SS.UU sent. n. 18287/2018; ii) nella decisione sulla debenza o meno del contributo occorre tenere conto anche del periodo di convivenza di fatto, giacché «detta fase pregressa, nei suoi connotati costitutivi, è assolutamente identica alle modalità di gestione dell'unione civile post celebrazione» (in realtà l'unione civile si costituisce; il matrimonio si celebra); inoltre, e qui sta il nucleo centrale del ragionamento argomentativo, occorre tener conto che, sino all'intervento della L. n. 76/2016 le parti non potevano costituire un'unione civile (né un matrimonio valido), come invece hanno fatto non appena ciò gli è stato reso possibile (dicembre 2016); iii) nel merito, sussiste un squilibrio tra le posizioni economiche delle parti che «per quanto in misura marginale, appare, allo stato riconducibile a scelte di vita assunte nel corso della relazione delle parti» comprensiva, appunto, del periodo di convivenza. Esclusa, allo stato, la possibilità di riconoscere all'assegno una funzione compensativa, anche in ragione del fatto che la relazione è durata (solo) cinque anni, è stato, invece, riconosciuto un assegno provvisorio avente natura «perequativa per perdita di chance»; è stato infatti ritenuto «altamente verosimile» che Tizia, abbia adottato «decisioni in ordine al trasferimento della propria residenza dettate non solo» per la «maggior comodità rispetto ai luoghi di lavoro (Pordenone piuttosto che Mira) ma anche» per la «necessità di coltivare al meglio la relazione e trascorrere quanto più tempo possibile con la propria compagna, non comprimendo il tempo libero con le ore necessarie per il trasferimento da Pordenone a Venezia, per almeno due volte al giorno»; per effetto del trasferimento, poi, Tizia avrebbe rinunziato «ad un'attività lavorativa leggermente meglio remunerata, rispetto a quella attuale». La decisione infine si conclude con la precisazione che l'importo di € 350,00 è determinato «sul presupposto che» Tizia «occupi ancora l'abitazione condivisa all'epoca della relazione. Il rilascio di detta abitazione … giustificherà l'immediata rimodulazione dell'assegno». Osservazioni
La decisione in commento assume che l'autorizzazione a vivere separati, prevista nelle coppie etero, non sia applicabile, neppure in via analogica, alle coppie same sex. La soluzione adottata lascia perplessi. Infatti, l'art. 1 comma 25 della L. n. 76/2016 prevede l'applicazione immediata (senza alcuna necessità di ricorrere all'analogia, non sussistendo alcuna fattispecie non regolamentata) al procedimento di scioglimento dell'unione civile delle «disposizioni di cui al Titolo II del libro quarto del codice di procedura civile» ovverosia, codice alla mano, degli articoli da 706 a 742 bis c.p.c. Alle unioni civili si applica dunque (non analogicamente ma in via diretta) anche l'art. 708 c.p.c. Si potrebbe discutere (e in effetti in dottrina si è discusso) se le norme richiamate – e dunque l'art. 708 c.p.c. - siano «compatibili» con il procedimento di scioglimento dell'unione, dovendosi però concludere per la soluzione affermativa (come indicato dalla prevalente dottrina). Ragionando a contrario - ovverosia seguendo la linea interpretativa del giudice friulano- si dovrebbe concludere che, per gli uniti civili i doveri indicati nel comma 11 (obbligo alla coabitazione e alla reciproca assistenza morale e materiale; obbligo di contribuire ai bisogni comuni in proporzione alle proprie sostanze e capacità di lavoro) e comma 12 (indirizzo concordato della vita familiare e residenza comune) permangono sino al passaggio in giudicato della sentenza che pronunzia lo scioglimento. Il tutto con due effetti non trascurabili: i) una palese disparità di trattamento, presumibilmente non corrispondente alla lettura costituzionalmente orientata della norma pure richiamata nel provvedimento, tra coppie etero e coppie omo, rimanendo le seconde, sotto il profilo strettamente giuridico, obbligate alla coabitazione, a differenza delle prime; ii) verrebbe meno il fondamento dell'assegno provvisorio, pur riconosciuto nella fattispecie de qua; il Giudice, infatti, ai sensi dell'art. 4 l. div., deve assumere i provvedimenti provvisori e urgenti nell'interesse dei coniugi (e dunque dei componenti l'unione civile); continuando a sussistere però (ove si seguisse la linea interpretativa contestata) il dovere reciproco all'assistenza morale e materiale, nonché quello di provvedere ai bisogni comuni, verrebbe meno la ragione dell'urgenza di provvedere che è alla base della fissazione di un assegno provvisorio, il cui riconoscimento, semmai, finirebbe con l'essere demandato alla fase finale del giudizio. A ciò occorre infine aggiungere la distorsione pratica connessa al destino della casa familiare: in assenza di un provvedimento di autorizzazione a vivere separati, permanendo gli obblighi di cui al comma 11, il proprietario (nel caso di specie la proprietaria) non potrà agire per il rilascio dell'abitazione per occupazione sine titulo, giacché l'occupante potrà sempre opporre la propria legittimazione a risiedere nell'abitazione, una volta familiare, in forza di una precisa disposizione di legge. Il che potrebbe determinare un'ulteriore discriminazione rispetto ai proprietari componenti un'unione eterosessuale, liberi invece di agire per il rilascio a seguito del provvedimento ex art. 708 c.p.c.
Ancorché le parti dell'unione in questione fossero in regime di separazione dei beni, il provvedimento in esame si preoccupa di precisare che alle coppie same sex non sarebbe applicabile l'art. 191 c.c. giacché «manca nella legge istitutiva delle unioni civili il richiamo all'art. 2 L. n. 55/2015». Conseguentemente, a differenza dei coniugi eterosessuali, per i componenti l'unione civile la comunione legale dei beni, ove sussistente, si scioglierebbe al passaggio in giudicato dello scioglimento del vincolo. Neppure questa soluzione interpretativa pare essere convincente. L'art. 2 L. n. 55/2015 non è una norma a sé, ma contiene il mero inserimento di un secondo comma all'art. 191 c.c., per effetto del quale la comunione legale dei beni si scioglie (anche) con il provvedimento presidenziale di autorizzazione a vivere separati. A sua volta l'intero art. 191 c.c. (comprensivo di tutti i suoi commi, compreso il secondo) si applica alle unioni civili in forza di quanto espressamente previsto dall'art. 1 comma 13 L. 76/2016 che estende alle unioni same sex «… le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile»; l'art. 191 c.c. è contenuto nella sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile e, dunque, si applica alle unioni civili. D'altra parte, se si volesse seguire la linea interpretativa indicata nel provvedimento in esame (inapplicabilità dell'art. 191 c.c. per mancato richiamo da parte della L. n. 76/2016 dell'art. 2 L. n. 55/2015) si dovrebbe concludere che, nelle unioni civili, la comunione dei beni non si scioglie mai, giacché lo scioglimento è previsto dalla norma (art. 191 c.c.) che, secondo il provvedimento in esame, non si applica all'istituto introdotto nel 2016.
La norma che fonda il diritto all'assegno nelle unioni civili è l'art. 5 l. n. 898/1970 che si applica alle unioni civili, giusta l'espresso richiamo contenuto nell'art. 1 comma 25 l. n. 76/2016. Correttamente il Presidente del Tribunale di Pordenone, ha ritenuto che anche per le unioni civili, la norma debba essere interpretata sulla base dei principi espressi dalla nota sentenza delle Sezioni Unite del luglio 2018. Occorre dunque premettere che, in base al nuovo orientamento (Cass. SS.UU. sent. n. 18287/2018) «il parametro sulla base del quale deve essere fondato l'accertamento del diritto ha natura composita, dovendo l'adeguatezza dei mezzi o l'incapacità di procurarli per ragioni oggettive essere desunta dalla valutazione, del tutto equiordinata, degli indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, in quanto rivelatori della declinazione del principio di solidarietà». Oggi, dunque, il Giudice deve prima accertare l'esistenza di un'eventuale disparità rilevante tra le posizioni economiche complessive di entrambi i coniugi (dovendosi così escludere che minimi scostamenti possano giustificare l'imposizione di un assegno) poi valutare, in maniera rigorosa se detto squilibrio sia causalmente ricollegato alle «scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell'assunzione di uno ruolo trainante endofamiliare». La preminenza della funzione equilibratrice e perequativa comporta l'esigenza di «accertare se la condizione di squilibrio economico patrimoniale sia da ricondurre eziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari in relazione alla durata del matrimonio» fattore di «cruciale importanza» nonché all'età del richiedente. Se, dunque, esiste uno squilibrio economico rilevante causalmente connesso alle scelte e ai sacrifici fatti in costanza di convivenza nell'interesse della famiglia (nel senso anzidetto), il Giudice dovrà poi verificare se tale divario possa essere superato dal richiedente l'assegno, mediante il recupero o il consolidamento della propria attività professionale: «il giudizio di adeguatezza ha pertanto un contenuto prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall'assunzione di un impegno diverso. Sotto questo specifico profilo, il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro» (cfr. anche, ex plurimis, Trib. Milano 12 marzo 2019). Conclusivamente, l'assegno divorzile (o l'assegno all'unito civile) è dovuto se esiste uno squilibrio economico rilevante tra le posizioni dei coniugi, causalmente connesso alle scelte e ai sacrifici fatti in costanza di convivenza e se questo divario non può essere autonomamente colmato, nel futuro, dal richiedente e infine quantificato non in base al tenore di vita né al livello di autosufficienza economica, bensì in modo «adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente».
L'ordinanza in commento ha seguito, seppure non integralmente, l'iter sopra indicato. In primo luogo è stato accertato «lo squilibrio economico tra le condizioni economico- patrimoniali delle parti», senza alcun ricorso ai poteri ufficiosi che la sentenza delle Sezioni Unite richiama nella sentenza sopra citata, in forza del leale atteggiamento processuale delle parti. In secondo luogo è stato esclusa la sussistenza, in ragione della durata del rapporto, di «elementi da giustificare una componente compensativa dell'assegno dovuto»; v'è da ritenere che con questa affermazione, il Giudice abbia voluto intendere che non si poteva ravvisare una contributo fattivo della richiedente l'assegno alla formazione del patrimonio comune nonché alla formazione del patrimonio o della posizione professionale dell'altra parte, che si può presumere sia inalterata rispetto a quella esistente al momento dell'inizio della convivenza. L'assegno è stato invece riconosciuto sulla base di un «effetto perequativo per perdita di chance» da parte dell'avente diritto; secondo il Tribunale friuliano, infatti, la parte economicamente più debole aveva rinunziato a «un'attività leggermente meglio remunerata rispetto a quella attuale» in ragione dell'avvenuto trasferimento a Pordenone da Mira, trasferimento motivato dalla necessità «di coltivare al meglio la relazione e trascorrere quanto più tempo possibile con la compagna, non comprimendo il tempo libero con le ore necessarie per il trasferimento da Pordenone a Venezia per almeno due volte al giorno». Nel proprio complessivo giudizio, il Tribunale, ha considerato correttamente non solo la durata dell'unione ma anche quella della convivenza, giacché le parti hanno convissuto in un momento in cui era loro negato di poter accedere al matrimonio o all'unione civile. Il ragionamento del Tribunale non è del tutto convincente: 1) infatti, l'ordinanza in commento ha obliterato, almeno nella parte motivazionale, un passaggio che invece è fondamentale nel ragionamento delle Sezioni Unite, ovverosia la necessaria valutazione della possibilità «di recuperare il pregiudizio professionale ed economico»derivante dalla scelta del trasferimento da Mira a Pordenone. In altre parole, per la corretta applicazione dell'art. 5 l. n. 898/1970, il Giudice avrebbe dovuto considerare (e dunque motivare) se sussistesse la concreta possibilità per la richiedente l'assegno di recuperare la posizione professionale persa per effetto del trasferimento (la resistente ha dichiarato a verbale di essere dipendente pubblica, con tutte le conseguenze in merito ai trasferimenti di sede). Peraltro si osserva che la stessa ordinanza minimizza l'impatto del pregiudizio subito, nella misura in cui afferma che la rinunzia avrebbe avuto ad oggetto «un'attività leggermente meglio remunerata»; nell'utilizzo dell'avverbio «leggermente» risiede il rischio di una lettura rigida della norma (rectius: della norma come interpretata dalle Sezioni Unite), con il rischio di creare pericolosi automatismi in forza dei quali l'assegno divorzile sia pari sempre e comunque a quella parte di retribuzione persa per effetto delle scelte assunte in costanza di convivenza; rigidità che mal si concilia con quella richiesta di flessibilità connessa alla ricomposizione del «profilo soggettivo» dell'avente diritto, indicata dalle Sezioni Unite; 2) manca del tutto la considerazione dell'età delle parti che, invece, secondo la Suprema Corte, è un elemento essenziale sia ai fini del giudizio prognostico sul recupero del pregiudizio, sia ai fini della valutazione complessiva ed equiordinata dei criteri di cui all'art. 5 l. div. («la funzione assistenziale dell'assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l'autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente»); 3) sembra che l'ordinanza in commento consideri la durata dell'unione (giustamente ricomprendendovi anche quella della convivenza) solo nella fase della «quantificazione» dell'assegno (ancorché il giudizio bifasico an/quantum sia superato) mentre invece, in base al nuovo orientamento, essa dovrebbe permeare l'intero giudizio sulla debenza del contributo. Nel caso di specie si trattava di un rapporto di 5 anni (convivenza compresa). Una durata dunque nettamente inferiore alla durata media dei matrimoni tra persone eterosessuali, che può definirsi pacificamente breve e che, probabilmente, avrebbe dovuto essere considerata come maggiormente incidente nel giudizio complessivo sul contributo post-scioglimento sia sotto il profilo della irreversibilità del sacrificio professionale dedotto dalla richiedente, sia sotto quella della recuperabilità del pregiudizio alle aspettative di carriera e di guadagno. In altre parole, è sicuramente maggiormente probabile un recupero del pregiudizio dopo 5 anni piuttosto che dopo 10 o 15 dalla scelta che quel pregiudizio ha prodotto.
L'ordinanza in commento si preoccupa, giustamente, nel proprio incipit di ribadire quanto e come sia necessario evitare, nel procedimento per lo scioglimento dell'unione civile, eventuali disparità di trattamento rispetto a quanto previsto per i matrimoni eterosessuali. Non può non rilevarsi, però, che il provvedimento rischia di produrre effetti contrastanti con il principio che, in assunto, la stessa vorrebbe applicare. Da un lato, infatti, l'esclusione dell'autorizzazione a vivere separati e la disapplicazione dell'art. 191 c.c. determina una diversità di disciplina (per situazioni identiche) tra i civilmente uniti e i coniugi: ai secondi infatti, al momento dello scioglimento, viene negata la tutela del diritto di proprietà nelle forme in cui è invece riconosciuta a favore dei primi; il coniuge proprietario della casa familiare, dopo l'autorizzazione a vivere separato, può agire nei confronti del non proprietario per il rilascio dell'immobile, mentre l'unito civile (sulla base dei principi espressi dal provvedimento friuliano) no. Identica divergenza si verifica per lo scioglimento della comunione: per i coniugi si produce alla prima udienza (del giudizio di separazione) mentre gli uniti civili dovrebbero attendere il passaggio in giudicato della sentenza di scioglimento (non meno di 12/24 mesi dalla domanda) con tutte le conseguenze negative in materia di circolazione dei beni. Infine, non può non considerarsi che, in buona parte dei Tribunali italiani, l'assegno a favore di coniuge che si fosse trovato nella medesima situazione presa a fondamento nella decisione impugnata (matrimonio di 5 anni, piena occupazione da parte del richiedente, trasferimento in un luogo comunque vicino a quello di precedente residenza, assenza di figli, mancata partecipazione alla formazione del patrimonio comune o a quello dell'altro) sarebbe stato probabilmente negato. Ovviamente non si è a conoscenza delle «statistiche» o dell'orientamento del Giudice friulano sul punto; certo è che se anche il Tribunale di Pordenone fosse assestato sulla linea di cui sopra, il provvedimento in parola, sull'onda della non discriminazione degli uniti civili rispetto ai coniugi, rischierebbe di produrre un'ipotesi di reverse discrimination in danno dei coniugi eterosessuali. Cecchella C., Unioni civili e convivenze- Guida commentata alla legge 76/16, Santarcangelo di Romagna, 2016 Dosi G., La nuova disciplina delle unioni civili e delle convivenze, Giuffrè, 2016 G. Buffone, M. Gattuso, M. M. Winkler, Unione civile e convivenza, Giuffré, 2017 Simeone A., Lo scioglimento delle unioni civili: il legislatore furioso ha fatto le norme cieche, ilfamiliarista.it Simeone A., L'assegno di divorzio dopo le Sezioni Unite, ilfamiliarista.it Simeone A., L'assegno di divorzio dopo le Sezioni Unite n. 18287/2018, Giuffrè, 2018 Tommaseo F., Profili processuali della legge sulle unioni civili e le convivenze, in Famiglia e Diritto, 2016 Vecchio G., I profili processuali della Legge Cirinnà, in Divorzio breve, nuovo assegno divorzile, unioni civili e convivenze, Bologna |