La kafala di diritto islamico nella giurisprudenza italiana: evoluzione e nuove prospettive di riconoscimento

Veronica Cesari
26 Marzo 2019

A quasi quattro anni di distanza dall'entrata in vigore della legge n. 101/2015 di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell'Aja del 1996 in materia di protezione dei minori, il lungo e tormentato dibattito circa l'efficacia nell'ordinamento italiano della kafala di diritto islamico si appresta a vivere una nuova fase. Nonostante il Legislatore non abbia ancora provveduto a disciplinare con una specifica normativa il riconoscimento di tale istituto, l'evoluzione giurisprudenziale della Suprema Corte ha lentamente ricostruito le caratteristiche fondamentali della kafala, offrendole sempre maggiori autonomia e dignità.Nel ripercorrere le principali tappe evolutive della giurisprudenza di merito e di legittimità, il presente contributo si propone di offrire una visione d'insieme del dibattito, nonché dei più recenti orientamenti interpretativi in materia.
La kafala di diritto islamico

La kafala è un istituto giuridico previsto tra le forme di protezione dei minori sia dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 (ratificata in Italia con l. n. 176/1991) sia dalla Convenzione dell'Aja sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l'esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori del 19.10.1996 (ratificata in Italia con l. n. 101/2015).

Lo strumento in parola svolge funzioni analoghe all'affidamento e vige negli ordinamenti giuridici ispirati agli insegnamenti del Corano: in tali Paesi, infatti, il vinculum filiationis non può sorgere al termine di una procedura adottiva, né il diritto positivo può spingersi fino a recidere o modificare in alcun modo i legami biologici di discendenza. L'assenza di meccanismi capaci di creare una filiazione “artificiale” non comporta, peraltro, la sussistenza di un vuoto normativo nella tutela dei minori poiché l'esigenza di offrire adeguata protezione all'infanzia abbandonata viene, in ogni caso, pienamente soddisfatta.

La kafala presenta una disciplina sostanzialmente omogenea nel mondo islamico anche se, soprattutto a livello procedurale, la normativa di riferimento può variare in maniera considerevole tra Stato e Stato.

L'economia del presente contributo esclude la possibilità di un'analisi analitica delle normative in vigore, tuttavia una migliore comprensione delle problematiche inerenti i rapporti della misura in esame con il nostro ordinamento, impone una sintetica descrizione delle sue caratteristiche generali.

In linea di massima esistono due modi per pronunciare una kafala:

  • attraverso un contratto da concludersi dinanzi ad un notaio e che, in un momento successivo, viene solitamente omologato da un giudice (kafala «consensuale» o «notarile»);
  • attraverso un provvedimento dell'Autorità giudiziaria emanato al termine di una procedura volta all'accertamento dell'idoneità del kafil (persona singola o coppia di coniugi) a prendersi cura di un minore preventivamente dichiarato “abbandonato” dal competente Tribunale per i Minorenni (kafala «giudiziale» o kafala «pubblicistica»).

In entrambi i casi i kafil si impegnano ad accudire il minore (makfoul), ad offrirgli un adeguato ambiente famigliare e ad educarlo e curarlo in ogni sua esigenza fino alla maggiore età. I kafıl, pertanto, risultano personalmente obbligati nei confronti del minore e devono provvedere a lui senza, tuttavia, veder sorgere alcun vincolo di filiazione con lo stesso, restando del tutto invariati i rapporti giuridici con la famiglia di origine.

Stante il divieto di adozione, il minore affidato in kafala non viene integrato nella famiglia di accoglimento, in genere non ne assume il cognome e non partecipa ai diritti ereditari (anche se nella pratica è prevista la possibilità per il kafil di nominare il minore come suo erede e di attribuirgli altresì il proprio cognome).

Giova inoltre evidenziare come la tutela sul makfoul possa presentare margini più o meno ampi a seconda dell'ordinamento di riferimento: in alcuni Stati islamici il diritto di rappresentanza del minore spetterà ad un'Autorità pubblica, il wali (governatore della prefettura) o, nel caso di un trasferimento all'estero, all'Autorità consolare competente.

La normativa di riferimento

La kafala è riconosciuta dall'art. 20 l. n. 176/1991 (Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989) quale forma di "protezione sostitutiva" dei minori privati del loro ambiente familiare e dagli artt. 3, lett. e) e 33 l. n. 101/2015 (Convenzione dell'Aja del 19 ottobre 1996) in materia di protezione dei minori.

Posto che i diritti del soggetto minorenne vantano una posizione privilegiata rispetto a qualsiasi altro interesse coinvolto, gli Stati parte della Convenzione dell'Aja del 1996 cit. stabiliscono un vero e proprio canale di comunicazione tra le rispettive sfere di competenza giuridica, auspicando la continuità delle misure di tutela del minore ben oltre le proprie frontiere.

A tal fine l'art. 23 par. 1 l. n. 101/2015 prevede che «Le misure adottate dalle autorità di uno Stato contraente sono riconosciute di pieno diritto negli altri Stati contraenti».

Come noto l'Italia ha ratificato la Convenzione in materia di protezione dei minori solo nel 2015 con l. n. 101/2015, lasciando tuttavia insoluta la questione dell'efficacia giuridica di tale istituto nel nostro ordinamento. Il testo approvato, infatti, si limita ad autorizzare la ratifica della Convenzione dell'Aja del 1996 e a dichiararne la piena esecuzione, nulla disponendo, di fatto, circa le modalità con cui dare effettivo riconoscimento nel nostro ordinamento a tale istituto.

Nonostante il vuoto normativo in materia, non esistendo in Italia una misura di protezione analoga alla kafala, l'esigenza di dare continuità alla tutela dei minori e di fornire una risposta all'inevitabile compenetrazione tra ordinamenti giuridici diversi, ha portato, in numerose occasioni, all'intervento dei giudici di merito e di legittimità.

L'evoluzione della giurisprudenza italiana

Diversi sono stati gli orientamenti seguiti dalla giurisprudenza allorché si è trattato di attribuire effetti in Italia ai provvedimenti istitutivi della kafala: a fronte di alcune pronunce che ne hanno tout court escluso la riconoscibilità, altre ne hanno dichiarato la riconoscibilità quale forma di adozione in casi particolari ai sensi dell'art. 44 lett. d) l. n. 184/1983. Emblematica a tal proposito una pronuncia piuttosto risalente del Tribunale per i Minorenni di Trento che, ritenendo la kafala non equiparabile né all'adozione legittimante né all'affidamento a questa preordinato, prospettò agli “affidatari” la possibilità di ottenere un'adozione ex art. 44 lett. d) l. n. 184/1983 cit., considerata la soluzione più rispettosa della logica sottesa al provvedimento marocchino nonché l'intervento più idoneo a perseguire il superiore interesse del minore (cfr. Trib. Min. Trento, decr. 11 marzo 2002).

Dinanzi alle incertezze applicative riscontrate dai giudici di merito, ha lentamente iniziato a farsi strada la giurisprudenza della Corte di Cassazione che, attraverso un'intensa attività interpretativa, ha ricostruito le caratteristiche fondamentali dell'istituto in parola, offrendogli sempre maggiori autonomia e dignità.

Le tre fasi della Corte di Cassazione

I) La kafala quale valido presupposto per il ricongiungimento familiare a favore dei cittadini stranieri

In una fase che si potrebbe definire ancora “embrionale” dell'analisi dell'istituto, i giudici di legittimità si trovarono a dover considerare il vincolo di protezione materiale ed affettiva derivante dalla kafala quale idoneo presupposto ai fini dell'ingresso in Italia, ai sensi dell'art. 29 d.lgs. n. 286/1998, di minori affidati a cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia (cfr. Cass. civ. sez. I, sent. n. 7472/2008).

Invero la pronuncia in esame, pur riferendosi ai soli cittadini stranieri, nella sua sinteticità enunciava quattro principi fondamentali che avrebbero trovato fortuna anche nella successiva evoluzione giurisprudenziale:

1.nel dare applicazione alle norme sul ricongiungimento familiare l'interprete deve privilegiare il canone ermeneutico della esegesi costituzionalmente orientata: nel bilanciare gli interessi in gioco, pertanto, il best interest of the child deve prevalere rispetto alla tutela democratica dei confini dello Stato e all'esigenza di contenimento dell'immigrazione;

2. la kafala presenta molti punti in comune con l'affidamento non avendo tali istituti – a differenza dell'adozione – effetti legittimanti e non incidendo, sia l'uno che l'altro, sullo stato civile del minore;

3. una pregiudiziale esclusione del requisito per il ricongiungimento familiare per i minori affidati in kafala penalizzerebbe tutti i minori, provenienti da Paesi arabi, illegittimi, orfani o comunque in stato di abbandono, per i quali la kafala è l'unico istituto di protezione previsto;

4. l'analisi del provvedimento dell'Autorità straniera consente di avere garanzie circa l'effettività delle esigenze di affidamento del minore e circa l'idoneità del kafildi occuparsi dello stesso.

Diversamente, l'inserimento di un minore straniero in stato d'abbandono in una famiglia italiana avrebbe dovuto seguire, secondo l'orientamento inizialmente prospettato, le procedure richiamate dagli artt. 29 e 36 l. n. 184/1983 in materia di adozione internazionale, sulla base di un'interpretazione restrittiva della nozione di “familiare” di cui all'art. 2 lett. b) d.lgs. n. 30/2007 di attuazione della direttiva 2004/38/CE, riguardante l'ingresso, la circolazione ed il soggiorno dei cittadini dell'Unione Europea e dei loro familiari (anche stranieri) nel territorio degli Stati membri (cfr. Cass. civ. sez. I, sent. n. 4868/2010 e Cass. civ. sez. I, sent. n. 19450/2011).

II) La kafala e il ricongiungimento familiare a favore dei cittadini italiani

Sulla scorta delle argomentazioni addotte a partire dal 2008, la giurisprudenza di legittimità, considerata la prevalenza del best interest del minore rispetto a qualsiasi altro interesse e ribadita nuovamente l'esigenza di un'interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in esame, mutò il proprio orientamento pervenendo ad analoghe conclusioni anche con riguardo alle istanze di ricongiungimento formulate dai cittadini italiani residenti in Italia.

In buona sostanza i giudici della Suprema Corte, pronunciandosi a Sezioni Unite con la sent. n. 21108/2013, ritennero di dover riconoscere l'idoneità della kafala ad innalzarsi quale presupposto per l'ingresso in Italia di un minore cittadino extracomunitario anche se affidato ad un cittadino italiano residente in Italia (cfr. Cass. civ. S.U., sent. n. 21108/2013).

Giova rammentare come, in tale sede, la Suprema Corte si spinse fino a pronunciarsi, seppur incidentalmente, sulla natura e sugli effetti della kafala,escludendo il rischio di una sua eventuale strumentalizzazione ovvero di una sua contrarietà all'ordine pubblico: la misura in parola non può essere aprioristicamente considerata elusiva delle procedure di adozione internazionale, essendo nei Paesi islamici l'unica misura a tutela dell'infanzia abbandonata.

Di contrasto, si dovrebbero ipotizzare contrarietà o elusione rispetto alle norme di cui alla l. n. 184/1983 solo ove si volessero far derivare da un provvedimento di kafala effetti nel nostro ordinamento identici o analoghi a quelli dell'adozione.

III) La via tracciata da Cass. civ. sez. I, sent. n. 1843/2015

Quanto statuito dalle Sezioni Unite in merito agli effetti della kafala – sebbene al solo fine di escludere l'idoneità di tale strumento a fondare una pronuncia di adozione – divenne la base argomentativa della successiva evoluzione giurisprudenziale.

Deve preliminarmente osservarsi come, fino a quel momento, la kafala di diritto islamico fosse stata analizzata dalla giurisprudenza di legittimità solo in relazione alla concessione del visto d'ingresso per un minore straniero; viceversa non vi era una chiara presa di posizione in ordine alla questione della idoneità in astratto di tale misura a produrre effetti nell'ordinamento italiano, a prescindere da istanze di ricongiungimento familiare e alla stregua delle norme di diritto internazionale privato.

Orbene, attraverso uno scrupoloso esame del lavoro interpretativo inaugurato nel 2008, la Suprema Corte (sent. n. 1843/2015), per la prima volta fornì all'interprete – ancor prima della ratifica della Convenzione Aja in materia di protezione dei minori – tutti gli elementi necessari per una corretta applicazione del principio del mutuo riconoscimento.

In particolare il provvedimento de quo, nel richiamare la normativa internazionale in materia e ribadendo l'idoneità della kafala ad innalzarsi quale misura di protezione dei minori (pur non generando un vincolo artificiale di filiazione), enuncia tre fondamentali principi:

1. deve riconoscersi una sostanziale differenza tra adozione e kafala. Di conseguenza, offrire ingresso a tale istituto mediante l'art. 41 comma 2 l. n. 218/1995 – norma, si badi bene, precipuamente ideata a salvaguardia della specialità della materia dell'adozione internazionale – vorrebbe dire operare un pregiudiziale disconoscimento del significato e dell'autonoma rilevanza attribuitegli dalla comunità internazionale;

2. in virtù di tali considerazioni, dinanzi ad una richiesta di riconoscimento del provvedimento di kafala, non può escludersi l'applicabilità dell'art. 67 l. n. 218/1995 che prevede un automatico riconoscimento dei provvedimenti stranieri nel nostro ordinamento;

3. nel contesto della cooperazione tra Stati finalizzata a realizzare la protezione internazionale dei minori, l'adozione non può essere considerata l'unico valido strumento di tutela. D'altronde negare astrattamente autonoma dignità ed efficacia alla kafala apparirebbe in contrasto con la partecipazione dell'Italia alle Convenzioni concluse su impulso degli organismi sovranazionali in materia.

In buona sostanza, laddove si verifichi in concreto la compatibilità dell'istituto di diritto islamico con il superiore interesse dei minori ad una adeguata assistenza e cura, questo non potrà essere disconosciuto.

Una nuova stagione per la giurisprudenza di merito

A questo punto della trattazione giova evidenziare come, nonostante il percorso della giurisprudenza di legittimità appaia univocamente diretto all'adesione ai principi sovranazionali, l'assenza di disposizioni ad hoc abbia generato non poche perplessità applicative.

In passato diversi giudici del merito si sono orientati facendo riferimento a quello che potremmo definire il leading case in materia, il già citato decreto del Tribunale per i Minorenni di Trento che pronunciò un'adozione in casi particolari ex art. 44 lett d) l. n. 184/1983: tale orientamento, aspramente criticato in dottrina, è stato abbandonato dalla giurisprudenza più recente.

In verità negli ultimi tempi la giurisprudenza si è espressa sancendo l'automatico riconoscimento della kafalasia ai fini del ricongiungimento familiare (cfr. Cass. civ. sez. I, sent. n. 28154/2017), sia come valido strumento di rappresentanza legale che esime dalla nomina di un tutore. A tal proposito, con provvedimento del 10 maggio 2018, il Giudice tutelare presso il Tribunale di Mantova ha ritenuto di non poter procedere alla nomina di un tutore ex artt. 343 e ss. c.c. in favore di una minore affidata in kafala da un provvedimento del giudice algerino. L'art. 121 del Codice di famiglia dell'Algeria, infatti, prevede che: «l'affidamento legale conferisce al beneficiario la tutela legale e gli dà diritto alle medesime prestazioni famigliari e scolastiche di un bambino legittimo».

Sulla base di tali osservazioni, pertanto, il giudice tutelare ha riconosciuto al provvedimento straniero sottoposto alla sua attenzione efficacia diretta nel nostro ordinamento, ai sensi degli artt. 65 e 66 l. n. 218/1995.

Il nuovo trend interpretativo, retaggio di una lenta apertura alle istanze del multiculturalismo e della cooperazione tra gli Stati nella tutela dell'infanzia abbandonata (dinanzi alla quale, peraltro, ogni altro valore è destinato a ricoprire una posizione subordinata), è stato positivamente accolto anche da una recente sentenza del Tribunale per i Minorenni di Bologna (Cfr. Trib. Min. Bologna, sent. 15 gennaio 2019 n. 6).

Il caso esaminato dal giudice bolognese, pur non analizzando una richiesta di riconoscimento diretto di un provvedimento di kafala, coinvolge le medesime problematiche e aderisce pienamente al nuovo orientamento in materia.

Più nel dettaglio, sulla scorta di quanto affermato nella già citata sent. n. 1843/2015, il Giudice minorile ha preliminarmente sostenuto che, dovendosi riconoscere alla kafala la medesima autonomia e dignità degli altri strumenti posti a tutela dei minori, questa non può essere indebitamente convertita in un'adozione, onde evitare un disconoscimento pregiudiziale del suo significato e della sua rilevanza negli ordinamenti giuridici che la prevedono; i provvedimenti di kafala, pertanto, andrebbero automaticamente riconosciuti ex artt. 66 e ss. l. n. 218/1995, se viene in concreto verificata la loro compatibilità con il superiore interesse dei minori ad una adeguata assistenza e cura.

Ciò posto, ritenuto che non può essere considerata corretta un'automatica traduzione della kafala in un'adozione in casi particolari, il Tribunale per i Minorenni di Bologna ha accolto la richiesta di adozione ex art. 44 lett. d) l. n. 184/1983 formulata dagli istanti esclusivamente in virtù delle peculiari caratteristiche del caso concreto. In mancanza di una specifica normativa e a seguito degli elementi raccolti in un precedente procedimento, il minore affidato in kafala, infatti, era stato dichiarato in stato di abbandono: è proprio l'esito della procedura di adottabilità a costituire, secondo il Collegio, imprescindibile premessa a fondamento della decisione in esame.

Si osserva infatti, come, in casi simili, il Giudice minorile debba necessariamente calibrare le proprie decisioni in funzione del superiore interesse del minore, valutando di volta in volta le caratteristiche del caso concreto.

In conclusione

Dall'analisi dei più recenti approdi della giurisprudenza (di legittimità e di merito), emerge una graduale apertura alla piena attuazione dei principi internazionali, con una sempre maggiore tendenza a riconoscere alla kafala efficacia diretta nel nostro ordinamento ai sensi dell'art. 66 l. n. 218/1995 (approccio da ritenersi, peraltro, più corretto e sensibile al pluralismo dei modelli culturali. In senso conforme cfr. ancheTrib. Min. Brescia, sent. 23 dicembre 2013).

Deve considerarsi ormai superata la soluzione originariamente prospettata dal Tribunale per i Minorenni di Trento, unicum non suscettibile di essere riproposto in casi analoghi; diversamente, una traduzione automatica della kafala in un'adozione – quand'anche non legittimante – rischierebbe di denaturare l'art. 44 lett. d) l. n. 184/1983, traducendolo indebitamente in uno strumento di aggiramento della normativa sull'adozione internazionale.

Invero, il rischio – paventato in passato da dottrina e giurisprudenza – di aprire un canale parallelo all'adozione internazionale proprio mediante l'automatico riconoscimento della kafala nel nostro ordinamento, deve ritenersi pacificamente escluso. Al contrario, proporre per un minore affidato in kafala un'adozione in casi particolari vorrebbe dire operare un indebito disconoscimento dei caratteri e del significato di quella misura, operazione in netto contrasto con la partecipazione dell'Italia alle Convenzioni internazionali in materia.

La kafala, riconosciuta dalla comunità internazionale quale idonea misura di protezione dei minori, gode di autonoma efficacia e dignità e si troverebbe in contrasto con le norme di cui alla l. n. 184/1983 solo ove se ne volessero far derivare effetti identici o analoghi a quelli dell'adozione.

In buona sostanza, l'adozione non vanta più il titolo di unico valido strumento di tutela dell'infanzia abbandonata ed eventuali abusi o elusioni delle procedure nazionali potranno essere contrastati solo attraverso la collaborazione tra gli Stati. Si segnala, a tal proposito, l'art. 33 della l. n. 101/2015 (Convenzione dell'Aja del 19 ottobre 1996) che prevede una consultazione obbligatoria tra Autorità Centrali laddove uno Stato si trovi a dover valutare l'ipotesi di disporre una misura di collocamento di un minore destinata ad essere eseguita in un altro Stato contraente. La procedura conferisce un vero e proprio potere di controllo sulla decisione allo Stato di futura accoglienza, evitando ab origine il sorgere di posizioni incerte.

È chiaro come le problematiche inerenti il riconoscimento della kafala nel nostro ordinamento siano, in realtà, derivanti dalla difficoltà di dare applicazione a principi di certo già fortemente cristallizzati nella nostra cultura giuridica ma legati ad uno strumento profondamente diverso dalle categorie di legge cui il Giudice italiano è abituato a dare applicazione. Tuttavia si rileva come, in uno scenario normativo ancora incerto, la giurisprudenza abbia, senza ombra di dubbio, inaugurato una nuova stagione interpretativa, auspicando un dialogo sempre maggiore tra Stati appartenenti a tradizioni e culture giuridiche differenti e aderendo ad un progetto comune nella tutela del superiore interesse dei minori.

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