L'esecuzione delle condanne per reati contro la Pubblica Amministrazione dopo la legge anticorruzione

29 Marzo 2019

Come noto, la legge 3/2019 è entrata in vigore con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. L'art. 1, comma 6, in particolare, ha incluso, nel catalogo dei reati soggetti al regime dell'art. 4-bis, ordinamento penitenziario (di seguito anche ord. pen.), numerosi delitti contro la Pubblica Amministrazione e, segnatamente, quelli previsti dagli artt. 314...
Abstract

Come noto, la legge 3/2019 è entrata in vigore con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

L'art. 1, comma 6, in particolare, ha incluso, nel catalogo dei reati soggetti al regime dell'art. 4-bis, ordinamento penitenziario (di seguito anche ord. pen.), numerosi delitti contro la Pubblica Amministrazione e, segnatamente, quelli previsti dagli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322, 322-bis, c.p. La novella ha introdotto, altresì, tra le forme di collaborazione previste dall'art. 58-ter, ord. pen., in ragione delle quali è consentito l'accesso alle misure alternative alla detenzione (diverse dalla liberazione anticipata), anche quella peculiare di cui al nuovo art. 322-bis, comma 2, c.p.

In sostanza, dunque, a partire dal 31 gennaio 2019, chiunque commetta i reati contro la Pubblica Amministrazione, indicati nel nuovo elenco dell'art. 4-bis, ord. pen., non potrà accedere alle misure alternative, ove non presti la collaborazione di cui all'art. 58-ter, ord. pen. (ovvero all'art. 322-bis, comma 2, c.p., in detta norma richiamato). Contestualmente non potrà fruire della sospensione dell'ordine di esecuzione, ex art. 656, comma 5, c.p.p., in quanto espressamente escluso dal successivo comma 9.

Se la predetta conclusione si palesa ovvia e indiscutibile, sul piano giuridico, per i reati commessi dopo l'entrata in vigore della legge 3/2019; non altrettanto può dirsi con riguardo ai reati già commessi.

Rispetto a questi ultimi, invero – ove l'esecuzione della pena non abbia già avuto inizio con l'eventuale concessione delle misure alternative –, occorre fare i conti con l'orientamento, pacifico, della Corte di Cassazione, che considera le norme relative alla esecuzione della pena ed alle misure di sicurezza (al pari di quelle processuali), soggette al regime intertemporale del tempus regit actum.

Tale principio, in effetti, potrebbe travolgere le aspettative del condannato, il quale non abbia ancora ricevuto l'ordine di esecuzione, ovvero pur avendo beneficiato della sospensione della esecuzione, a norma dell'art. 656, comma 5, c.p.p., non sia ancora stato destinatario della decisione del Tribunale di Sorveglianza (sono noti, d'altronde, i tempi lunghi della Sorveglianza, quando il condannato non sia ristretto in carcere ovvero ai domiciliari).

In questi due casi, infatti, dovendo operare, hic et nunc, la novella legislativa, si dovrebbe escludere, in difetto delle condizioni stabilite dall'art. 4-bis, ord. pen., sia la sospensione dell'ordine di esecuzione, sia la concessione delle misure alternative alla detenzione; affidamento in prova in testa. Inoltre, per le stesse ragioni, anche ordini di esecuzione già sospesi potrebbero essere revocati, proprio in applicazione della nuova normativa più sfavorevole.

Tali conclusioni, tuttavia, come meglio si cercherà di illustrare in seguito, non sono praticabili, per la manifesta frizione con principi di rango costituzionale e convenzionale.

Questo premesso, giova quindi prendere le mosse dall'orientamento della giurisprudenza di legittimità, favorevole all'applicazione della regola tempus regit actum alla materia in argomento.

La giurisprudenza di legittimità e la regola del “tempus regit actum”

Il punto di partenza dell'orientamento che assume l'inapplicabilità dell'art. 2 c.p. e dell'art. 25, Cost. alle norme di esecuzione e alle misure alternative alla detenzione, è rappresentato dalla sentenza delle Sezioni Unite, 17 luglio 2006, n. 24561, avente ad oggetto (proprio) una modifica normativa che aveva ampliato il catalogo dei reati ostativi, di cui all'art. 4-bis, ord. pen.: «Le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio tempus regit actum, e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'art. 2 cod. pen., e dall'art. 25 della Costituzione. (In applicazione di tale principio, le S.U. hanno ritenuto che, in un caso in cui vi era stata condanna per il delitto di violenza sessuale, la sopravvenuta inclusione di tale delitto, per effetto dell'art. 15 della legge 6 febbraio 2006 n. 38, tra quelli previsti dall'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario in quanto tali, e non più soltanto come reati-fine di un'associazione per delinquere, comportasse l'operatività, altrimenti esclusa, del divieto della sospensione dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 656, comma nono lett. a), cod.proc.pen., non essendo ancora esaurito il relativo procedimento esecutivo al momento dell'entrata in vigore della novella legislativa)».

Nel caso preso in esame, l'ordine di esecuzione, inizialmente non sospeso dal Pubblico Ministero, era stato impugnato con incidente di esecuzione dal condannato e poi – in ragione della sospensione disposta dal Giudice dell'esecuzione –, anche dal P.M. con ricorso per cassazione; nelle more del quale era poi intervenuta la novella peggiorativa. La Corte, quindi, ha accolto il ricorso del P.M., assumendo che la novella dovesse applicarsi, in ragione del principio tempus regit actum, non essendo ancora esaurito (a causa della impugnazione dell'ordine di esecuzione) il rapporto esecutivo sottostante. La Corte, inoltre, nella motivazione ha richiamato la sentenza della Corte Costituzionale (n. 306/1993), che avrebbe negato, in una vicenda analoga, la violazione dell'art. 25, comma 2, Cost.

La giurisprudenza successiva di legittimità si è adagiata, tralaticiamente, sul principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite.

Una veloce rassegna delle pronunce in discorso, peraltro, consentirà di comprendere agevolmente lo scarso approfondimento riservato, dalle decisioni posteriori, al delicato tema; con alcune lodevoli eccezioni.

La sentenza Cass. pen., 18 luglio 2006, n. 24767, infatti, pur confermando le conclusioni delle Sezioni Unite, opera un'importante precisazione. L'applicazione “retroattiva” delle norme esecutive è legittima, purché, però, non risulti irragionevole e non urti con altri valori di rango costituzionale. La sentenza richiama, poi, la pronuncia della Corte Costituzionale n. 137/1999; secondo la quale l'omessa concessione del permesso premio a chi ha già maturato, prima della novella peggiorativa, le condizioni per fruirne, viola la funzione rieducativa della pena, di cui all'art. 27, comma 3, Cost. Sul punto, in questa sede, basti osservare che le sentenze della Corte Edu (sia della Camera che della Grande Camera), nel caso Del Rio Prada c. Spagna, hanno ritenuto la violazione del principio di irretroattività, di cui all'art. 7 Cedu, in una vicenda del tutto simile; laddove, cioè, una modifica nella interpretazione delle Corti, successiva al momento in cui il ricorrente aveva già maturato il diritto di accedere alle misure alternative alla detenzione, aveva reso necessaria l'espiazione di una pena maggiore, prima di poter conseguire il beneficio penitenziario.

Proseguendo nella rassegna, occorre richiamare la sentenza Cass. pen., 11 ottobre 2006, n. 34040. In questa sentenza si conferma il principio della retroattività della modifica in peius (senza alcuna ulteriore meditazione), in un caso di affidamento in prova ai servizi sociali; non concesso per la intervenuta modifica della recidiva. Nel caso scrutinato dalla Corte, la misura era stata negata perché non era ancora iniziato l'affidamento e, dunque, perché non si sarebbe potuto ritenere vanificato il percorso rieducativo del condannato. Il Giudice di legittimità, inoltre, nel considerare corretta la decisione del Tribunale di Sorveglianza, cita la sentenza della Corte Costituzionale n. 257/2006. Sul punto, tuttavia, è sufficiente per ora rilevare che nella decisione predetta il Giudice delle leggi critica la mancanza di individualizzazione – rispetto alla funzione rieducativa della pena – sia della recidiva, sia dei “tipi di reato” selezionati dal legislatore (e quindi dei “tipi di autori”), in quanto automatiche condizioni ostative al riconoscimento dei benefici penitenziari.

Infine, le sentenze Cass. pen., 20 luglio 2006, n. 25113, Cass. pen., 4 ottobre 2006, n. 33062, Cass. pen., 15 luglio 2008, n. 29155, Cass. pen., 18 dicembre 2014, n. 52578 ripetono il principio evocato dalle Sezioni Unite senza alcuna specifica motivazione.

Un discorso a parte merita, da ultimo, la sentenza Cass. pen., 22 febbraio 2012, n. 6910, perché, pur richiamando senza approfondimenti particolari la regola tempus regit actum, esclude, tuttavia, nella vicenda scrutinata, che ci fossero stati progressi nella rieducazione del condannato, tali da poter giustificare la concessione dei benefici penitenziari.

Questo premesso, per poter procedere nella disamina del tema posto dalla legge 3/2019, occorre ora soffermarsi sulla nozione di atto; essendo proprio l'atto a perimetrare la norma applicabile nel caso concreto, secondo la regola tempus regit actum, più volte richiamata dal Giudice di legittimità.

La nozione di atto, ai fini della regola “tempus regit actum”

Per comprendere la nozione di atto, risulta illuminante la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, n. 27614 del 12 luglio 2007. Questa sentenza, infatti, si sofferma sulla natura “autonoma” che l'atto deve possedere, per distinguersi dagli altri atti che costituiscono la sequela procedimentale; precisando che esistono diverse tipologie di atto cui devono corrispondere trattamenti differenziati in ordine al regime intertemporale della successione di leggi.

La Corte, inoltre, assai significativamente richiama il principio dell'“affidamento” dell'imputato (regola, come si vedrà nel prosieguo, assai cara alla Corte Edu), come valore meta-giuridico che deve essere preservato (v. pag. 12). La Corte, quindi, precisa che non può «[…] la nuova legge processuale travolgere quegli effetti dell'atto che si sono già prodotti prima dell'entrata in vigore della medesima legge, né regolare diversamente gli effetti futuri dell'atto (cfr. in senso conforme Cass. S.U. civili sent. 20/12/2006 n. 27172; S.U. penali sentenze 27/3/2002 n. 16101 e n. 16102, queste ultime in un tema non perfettamente sovrapponibile a quello in esame)».

La stessa Corte esemplifica un caso di patente violazione dell'affidamento, quando la concreta disposizione normativa dipenda non dalla condotta dell'imputato/condannato, bensì da fattori esterni, aleatori, del tutto sottratti alla sua sfera di signoria, quali gli adempimenti di cancelleria.

In sintonia con detta pronuncia si pone altra sentenza delle Sezioni Unite (14 luglio 2011, n. 27919), che ha escluso la modifica retroattiva in peius di misure cautelari; evidenziando che, in ordine alle norme processuali, occorre adottare un approccio sostanzialistico, in modo da valutarne caso per caso la reale vocazione, al fine di evitare approdi irragionevoli e lesivi di valori costituzionali.

Per giungere a tali conclusioni, la Corte si sofferma sulla regola tempus regit actum e precisa, icasticamente, che «essa enuncia che la nuova norma disciplina il processo dal momento della sua entrata in vigore; che gli atti compiuti nel vigore della legge previgente restano validi; che la nuova disciplina, quindi, non ha effetto retroattivo […]. Per questo, il principio tempus regit actum significa in primo luogo che, di regola, la norma vigente al momento del compimento di ciascun atto ne segna definitivamente lo statuto regolativo: un atto, una norma». Chiarisce ancora, con riguardo alla difficoltà di delimitare i confini temporali di ciascun atto, che «piuttosto che cercare soluzioni di carattere generale, conviene considerare che il superamento di alcuni problemi può essere favorito da una attenta disamina della complessiva disciplina legale della materia cui ci si interessa e dall'individuazione del concreto, reale ruolo che la nuova norma è chiamata a svolgervi alla luce delle diverse possibili soluzioni dei problemi di diritto intertemporale». Occorre, dunque, una analisi, in concreto, approfondita e completa, al fine di stabilire quali ripercussioni, la nuova normativa (nonostante le etichette prescelte dal legislatore) riverberi sui diritti fondamentali della persona. Diritti tra i quali campeggiano, quam maxime, sia la libertà personale, sia, più in generale, la ragionevolezza e l'affidamento circa la prevedibilità delle conseguenze delle proprie azioni. La Corte richiama anche la giurisprudenza della Corte Edu (caso Scoppola c. Italia), sulla esigenza di una verifica in concreto della matrice processuale delle norme, cui applicare la regola tempus regit actum: «È la stessa Corte che si perita di chiarire che resta ragionevole l'applicazione del principio tempus regit actum per quanto riguarda l'ambito processuale, pur dovendosi accuratamente definire di volta in volta se le norme di cui si discute appartengano o meno alla sfera del diritto penale materiale».

In conclusione, dunque, a questo primo stadio dell'analisi può affermarsi che il principio tempus regit actum presuppone la corretta delimitazione dell'atto processuale, che resta sempre e comunque regolato dalla norma del suo tempo, senza poter perciò subire, retroattivamente, modifiche peggiorative successive. Inoltre, l'atto e soprattutto la normativa successiva devono essere riguardati in una prospettiva sostanzialistica, al fine di evitare la compromissione di valori costituzionali e convenzionali fondamentali, quali la libertà personale, la ragionevolezza e l'affidamento legittimo su situazioni acquisite.

Questo premesso, occorre adesso valutare gli approdi della giurisprudenza costituzionale.

La giurisprudenza costituzionale

Sul complesso tema del diritto intertemporale delle norme in materia di esecuzione della pena e di misure alternative alla detenzione è intervenuta, a più riprese, la Corte Costituzionale.

Come si vedrà, nelle diverse pronunce la Consulta si sofferma sempre sulla funzione rieducativa della pena (art. 27, comma 3, Cost.), sul generale principio di ragionevolezza, sul principio di eguaglianza ed, infine, anche sul principio di legalità, sub specie di divieto di retroattività della norma più sfavorevole.

Tuttavia, mentre i principi di rieducazione, uguaglianza e ragionevolezza costituiscono i profili che fondano le dichiarazioni di incostituzionalità; il principio di irretroattività non è mai oggetto di una decisione espressa, rimanendo assorbito dalle precedenti censure. La Corte, però, non esclude mai, espressamente, il vulnus al principio in esame – come invece assunto dalla Corte di Cassazione –, sottolineandone sempre, almeno indirettamente, la rilevanza.

E valga il vero.

Con la sentenza n. 306/1993, la Consulta, con riferimento alla modifica del catalogo di reati inseriti nell'art. 4-bis, ord. pen., che aveva comportato la possibile revoca di misure alternative già concesse, ne ha dichiarato la illegittimità costituzionale, evidenziando molteplici ragioni di censura.

In primo luogo ha sottolineato, come si è già detto, la violazione della funzione rieducativa della pena; posto che la revoca della misura già concessa vanificherebbe il proficuo percorso rieducativo già intrapreso dal condannato.

Inoltre, la Corte ha rilevato che la scelta legislativa di limitare l'accesso alle misure alternative alla detenzione, in ragione, unicamente, della astratta tipologia di reato, determini una grave compromissione della finalità rieducativa. A tal proposito, il Giudice delle leggi ha poi precisato che l'obbligo di collaborazione, quale presupposto stabilito dall'art. 4-bis, ord. pen., per l'accesso alla misure alternative, rappresenti il risultato di una scelta di politica criminale, legittima, ma in contrapposizione con gli indici di colpevolezza e la individualizzazione del trattamento penitenziario che devono, invece, connotare il momento esecutivo della pena.

Ancora, la Consulta ha stigmatizzato la violazione del principio di ragionevolezza, derivante dalla illogica vanificazione di una posizione soggettiva positivamente acquisita.

La Corte Costituzionale, infine, non ha escluso – diversamente da quanto ritenuto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 24561/2006) – la potenziale violazione dell'art. 25, comma 2, Cost., riferendosi espressamente ad essa in alcuni, decisivi, passaggi motivazionali.

In una successiva pronuncia – n. 445/1997 –, la Corte Costituzionale, in ordine al diniego della semilibertà derivante dalla modifica, in itinere, dell'art. 4-bis, ord. pen., ha dichiarato la incostituzionalità della novella, per avere escluso la concessione della misura anche a chi avesse già maturato le condizioni per l'accesso al beneficio prima della riforma (e dunque anche in mancanza della previa collaborazione). Ciò per la patente violazione sia del principio di uguaglianza (rispetto a chi aveva beneficiato della misura prima della nuova legge), sia per il principio di rieducazione della pena, vanificato, nella sostanza, senza alcuna colpa del condannato.

Importante sottolineare che, in questa occasione, la Corte, una volta riconosciuta la violazione degli artt. 3 e 27 Cost., ha ritenuto invece assorbito il profilo di doglianza inerente il principio di legalità, di cui all'art. 25, comma 2, Cost.

Le conclusioni anzidette sono state ribadite nella sentenza n. 137/1997, laddove la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 27, comma 3, Cost., della normativa sopravvenuta che aveva bloccato la concessione dei permessi premio, nei confronti di chi aveva già in precedenza maturato il diritto di accedervi: «Il punto di arrivo di tale percorso é rappresentato dall'affermazione secondo cui non si può ostacolare il raggiungimento della finalità rieducativa, prescritta dalla Costituzione nell'art. 27, con il precludere l'accesso a determinati benefici o a determinate misure alternative in favore di chi, al momento in cui é entrata in vigore una legge restrittiva, abbia già realizzato tutte le condizioni per usufruire di quei benefici o di quelle misure».

Identiche direttrici ermeneutiche ispirano la successiva sentenza Corte Cost. n. 257/2006, sempre relativa al tema dei permessi premio. In questo caso, il Giudice delle Leggi stigmatizza, anzitutto, la violazione della funzione rieducativa della pena, derivante dal fatto che l'aprioristica selezione di tipi di reato generalmente ostativi, contrasti con l'individualizzazione del trattamento sanzionatorio. In secondo luogo, l'irragionevolezza della compromissione di una posizione soggettiva già maturata, prima della entrata in vigore della novella.

La Corte, infine, riconosciuto il contrasto con l'art. 27, comma 3, Cost., ritiene assorbita la censura in punto di divieto di retroattività, di cui all'art. 25, comma 2, Cost.

Giova, da ultimo, richiamare la recente sentenza Corte Cost. n. 149/2018.

Questa pronuncia, infatti, segna il punto di rottura (ovvero la migliore linea evolutiva) rispetto alla precedente giurisprudenza costituzionale, formatasi in ordine alle varie funzioni della pena; giungendo ad affermare che la prevalente funzione della pena – l'unica citata in Costituzione – è quella squisitamente rieducativa. Vero e proprio «imperativo costituzionale», «finalità ineliminabile, che deve sempre essere garantita anche nei confronti di autori di delitti gravissimi»; di fatto incompatibile con meccanismi automatici di esclusione delle misure alternative alla detenzione. Per tali ragioni – prosegue la Consulta – è legittimo «il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena (sentenze n. 78 del 2007, n. 257 del 2006, n. 68 del 1995, n. 306 del 1993 e n. 313 del 1990)».

Alla luce della breve rassegna costituzionale, è agevole ricavare le coordinate all'interno delle quali declinare la regola tempus regit actum.

Nessuna applicazione retroattiva, in materia di misure alternative alla detenzione, può ammettersi, ove ne derivi una interruzione, irragionevole, del percorso rieducativo, che non sia addebitabile a responsabilità personali del condannato. Conclusione che vale a fortiori, quando l'applicazione retroattiva si fondi su presupposti generalizzati (il tipo di reato), senza alcuna valutazione individualizzata, e vanifichi posizioni soggettive già positivamente maturate prima della entrata in vigore della novella normativa.

In tutto questo, la certificata violazione degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. non esclude ma semplicemente assorbe – nella prospettiva della Corte – il contrasto con il principio di irretroattività della legge deteriore.

A ben guardare, nel percorso ermeneutico seguito dal Giudice delle Leggi, può senz'altro leggersi una costante attenzione per i profili – squisitamente sostanzialistici – legati alla esecuzione della pena. Si osserva bene, in controluce, questa tendenza, laddove la Corte Costituzionale non esclude mai, recisamente, la violazione dell'art. 25, comma 2, Cost. (garanzia generalmente riservata alle norme di diritto penale materiale); limitandosi sempre a ritenere la questione assorbita dal riconosciuto contrasto delle norme esaminate con gli artt. 3 e 27 Cost..

Né questo deve sorprendere – nonostante il ripetuto rimando della Corte di Cassazione alla regola del tempus regit actum –; posto che l'incidenza, straordinaria, della pena sul bene primario della libertà personale, è di palmare evidenza. Incidenza che diventa drammatica, quando può essere del tutto o parzialmente stornata, grazie alle misure alternative alla detenzione.

D'altra parte, come si è già visto, persino il Giudice di Legittimità, nelle più recenti sentenze, ha ampliato la nozione di atto processuale esaurito (come tale refrattario all'applicazione di norme successive, proprio in ragione del principio tempus regit actum), al fine di evitare la retroattività di normative sopravvenute più sfavorevoli, quando impattino sulla libertà personale dell'imputato. E ciò proprio sul presupposto della natura “sostanziale” delle norme processuali modificate (si veda Cass., SS.UU., n. 27919/2011, in materia di misure cautelari personali).

La mutata sensibilità del Giudice di legittimità, peraltro, in buona misura si deve anche all'influsso della giurisprudenza sovranazionale, maturata in seno alla Corte Europea dei diritti dell'uomo.

La giurisprudenza della Corte Edu

Come noto, il principio della irretroattività della legge penale sfavorevole è presidiato anche in ambito sovranazionale, dall'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Tuttavia, in linea generale, la Corte Edu non ha mai ritenuto incompatibile, con la Convenzione, l'applicazione del principio tempus regit actum, quando abbia ad oggetto le norme processuali e l'esecuzione della pena (i veda Scoppola c. Italia, 17.9.2009, § 110).

Ciononostante, la Corte Edu ha però sempre espressamente chiarito che la valutazione della materia penale, soggetta invece all'art. 7 Cedu, spetti alla Corte medesima, a prescindere dal formale inquadramento giuridico assegnato dal legislatore nazionale (ivi, § 111. In dottrina, si veda CHIAVARIO, Norme processuali nel tempo, pag. 4).

Per questa ragione, nella nota sentenza Scoppola c. Italia, la Corte ha ritenuto afferente alla materia penale e, quindi, presidiato dal principio di legalità di cui all'art. 7 Cedu, l'art. 442 c.p.p., concernente la pena da comminare, in sede di giudizio abbreviato, per i reati puniti con la pena dell'ergastolo (§ 112).

In relazione al tema di interesse, peraltro, meritano una segnalazione speciale due sentenze emesse dalla Corte Edu nel caso Del Rio Prada c. Spagna. Si tratta, in particolare, delle sentenze rese dalla Sezione Terza della Corte, in data 10 luglio 2012, e dalla Grande Camera, in data 21 ottobre 2013.

Il caso concreto è di assoluto rilievo: alcuni condannati, per fatti di terrorismo, avevano avanzato richiesta di liberazione anticipata (istituto omologo alla nostra liberazione anticipata), avendo espiato la pena minima richiesta dalla legge spagnola. Tuttavia, successivamente alla predetta istanza, la giurisprudenza era mutata, prevedendo un lasso temporale maggiore di pena da scontare, prima di poter accedere al beneficio. Il caso è all'evidenza rilevante, in quanto del tutto simile a quello scrutinato dalla Corte di Cassazione italiana con la sentenza n. 24767/2006: qui erano stati esclusi profili di irragionevolezza della applicazione retroattiva della novella normativa, sul presupposto che il beneficio della semilibertà non sarebbe stato escluso, ma avrebbe preteso, per la sua concessione, unicamente l'espiazione di un maggior periodo di pena detentiva, da parte del condannato.

Ebbene, nelle due sentenze citate la Corte Edu ha evidenziato la indiscutibile incidenza della modifica in peius sulla pena concretamente espiabile; avendo comportato, infatti, la necessità, per il condannato, di trascorrere un tempo maggiore in regime detentivo, pur avendo già maturato, al momento della richiesta, i requisiti per l'accesso alla liberazione anticipata. In tal modo, però – argomenta la Corte – risultano violati sia l'art. 7, in punto di applicazione retroattiva sfavorevole, trattandosi di “materia penale”, sia l'art. 5 Cedu, per la parte di privazione della libertà patita in più dal condannato, a causa della modifica esegetica più sfavorevole.

La Grande Camera, inoltre, nel confermare le conclusione della Terza Sezione, ha altresì ribadito che l'applicazione retroattiva del mutamento giurisprudenziale ha determinato l'imprevedibilità, per il condannato che deve decidere se compiere o meno un'azione criminosa, della pena concretamente irrogabile per effetto della commissione dell'azione medesima.

In sintesi, dunque, l'approccio casistico e sostanziale della Corte Edu, relativamente all'ambito della c.d. “materia penale”, consente di ritenere che, laddove la modifica della base giuridica (sia essa normativa o giurisprudenziale), formalmente processuale o esecutiva, incida (sfavorevolmente) sulla sostanza della pena (qualità e quantità), debba trovare ingresso il principio di legalità declinato dall'art. 7 Cedu. Pena, altrimenti, la violazione del superiore principio di prevedibilità delle proprie azioni, che rappresenta il cardine ed il fondamento ontologico dello stesso principio di legalità.

In conclusione

Alla luce delle considerazioni più sopra espresse, è possibile tirare le fila del discorso, con riferimento ai due quesiti iniziali: se sia possibile revocare ordini di esecuzioni sospesi; se sia possibile negare la concessione delle misure alternative, non ancora concesse ma concedibili al momento della presentazione della relativa domanda.

Quanto al primo quesito, è agevole rispondere negativamente, valorizzando la sola giurisprudenza di legittimità (pur con tutte le riserve che si diranno).

Una volta emanato l'ordine sospeso, infatti, l'atto processuale così come scolpito dall'art. 656, comma 5, c.p.p., deve considerarsi esaurito sotto la vigenza della originaria disciplina.

La sospensione, in effetti, svolge la unica funzione di consentire al condannato di presentare, nel termine di trenta giorni dalla notifica, eventuali richieste di misure alternative. Una volta esercitata la relativa facoltà, però, la competenza passa alla Magistratura di Sorveglianza, che dovrà decidere sul merito dell'istanza medesima.

Come si vede, dunque, nessuno spazio residua, dopo la formalizzazione della richiesta, al Pubblico Ministero procedente.

Va da sé, quindi, come limpidamente evidenziato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che la norma sopravvenuta non possa operare retroattivamente, posto che ad ogni atto corrisponde una sola norma (Cass. pen., Sez. Unite, n. 27919/2011, cit.).

A tal proposito, pare opportuno richiamare anche l'ordinanza del Tribunale di Napoli, Sez. VII, dell'1 marzo 2019, che - pur ribadendo la natura processuale delle norme sulla esecuzione delle pene e sulle misure alternative alla detenzione -, ha però affermato che gli ordini di esecuzione già sospesi, prima della entrata in vigore della legge 3/2019, non possono essere revocati; in quanto la loro efficacia si consuma con la sospensione ed è pertanto sorretta proprio e solo dalla norma vigente al momento della loro emanazione. È il principio tempus regit actus, insomma, per il Giudice partenopeo, la regola che impone di non vanificare, retroattivamente, gli effetti di un atto compiuto ed esaurito sotto la vigenza della norma poi modificata.

Più complesso è sciogliere il secondo quesito.

Prima di entrare nel merito della questione, per ragioni di completezza, giova tuttavia preliminarmente sottolineare che il problema non si pone per le misure già concesse, atteso il consolidamento della relativa posizione soggettiva e la espressa presa di posizione della Corte Costituzionale (sentenza n. 306/1993).

Detto questo, si anticipa, sin da subito che non si ritiene possa il Tribunale di Sorveglianza negare la concessione delle misure alternative, alla stregua dei nuovi parametri introdotti dalla legge n. 3/2019.

Numerose sono le ragioni che militano in questa direzione.

In primo luogo, la funzione rieducativa della pena, come massimamente evidenziata dalle decisioni della Corte Costituzionale.

Si è visto, infatti, che la tecnica legislativa di collegare, in modo automatico, tipi di reato (e per l'effetto “tipi di autore”) e concessione (o meno) delle misure alternative alla detenzione, obliteri la funzione rieducativa della pena; mettendo in ombra, sino ad annullarla, la necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio. Con ciò sacrificando del tutto la finalità rieducativa, a vantaggio di esigenze general-preventive e special-preventive della pena, attraverso una operazione che, oggi, non ha più diritto di cittadinanza nel nostro Ordinamento (Corte Cost. n. 149/2018).

A tal riguardo, poi, con specifico riferimento all'affidamento in prova ai servizi sociali (ma il ragionamento può valere anche per le altre misure), l'acritica applicazione della novella, da parte della Magistratura di Sorveglianza, determinerebbe, altresì, la brusca interruzione del percorso rieducativo, senza che ciò sia in alcun modo addebitabile al condannato.

Come noto, infatti, l'art. 47, comma 2, ord. pen. prevede espressamente che la concessione della misura alternativa debba avvenire «sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento stesso, anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati».

Come si vede, dunque, per coloro i quali già si trovino ristretti in carcere, la concessione della misura è preceduta da una valutazione, seppure iniziale, del percorso rieducativo intrapreso e della disponibilità del condannato a proseguirlo, attestati dalla osservazione collegiale della sua personalità.

Tale valutazione, però, è estesa anche ai condannati liberi, quando il comportamento tenuto dopo la commissione del reato, consenta di formulare il medesimo, positivo, giudizio sulla personalità (comma 3).

È evidente, dunque, stando alla formulazione letterale e alla ratio della previsione, che la misura in tanto è concedibile, in quanto vi siano elementi sintomatici di un percorso risocializzante e di rivisitazione personale in atto, seppur, ovviamente, non ancora terminato: «In tema di affidamento in prova al servizio sociale, ai fini del giudizio prognostico in ordine alla realizzazione delle prospettive cui è finalizzato l'istituto, e, quindi, dell'accoglimento o del rigetto dell'istanza, non possono, di per sé, da soli, assumere decisivo rilievo, in senso negativo, elementi quali la gravità del reato per cui è intervenuta condanna, i precedenti penali o la mancata ammissione di colpevolezza, né può richiedersi, in positivo, la prova che il soggetto abbia compiuto una completa revisione critica del proprio passato, essendo sufficiente che, dai risultati dell'osservazione della personalità, emerga che un siffatto processo critico sia stato almeno avviato» (Cass. pen., Sez. I, 10 gennaio 2014, n. 773; Cass. pen., Sez. I, 27 dicembre 1995, n. 6153).

Se così è, dunque, risulta evidente che la mancata concessione del beneficio, motivata unicamente dalla modifica normativa (e quindi dalla mancata collaborazione), determinerebbe un ingiustificato arresto del percorso rieducativo; obliterando tout court la funzione rieducativa, per privilegiare istanze di prevenzione speciale e generale, in patente violazione dell'art. 27, comma 3, Cost..

La predetta conclusione violerebbe, altresì, il principio di ragionevolezza, sotto un duplice profilo.

In primo luogo, perché violerebbe una posizione soggettiva già acquisita (e il relativo affidamento su di essa) (Si veda Cass. pen., Sez. Unite, n. 27614/2007 e Cass. pen., Sez. Unite, n. 27919/2011, cit.), derivante, per l'appunto, dall'aver maturato, prima della novella, le condizioni per fruire del beneficio penitenziario.

In secondo luogo, perché renderebbe del tutto imprevedibili le conseguenze, in termini di sostanziale quantificazione della pena, delle proprie condotte, al momento della commissione del reato.

Ancora la conclusione avversata si porrebbe in contrasto con il principio di uguaglianza. È palese, infatti, che vi sarebbero disparità ingiustificate tra condannati, causate unicamente da fattori esterni e casuali; quali la celerità di fissazione delle udienze del Tribunale di Sorveglianza, rispetto alla emanazione della novella normativa (Cass. pen., Sez. Unite, n. 27614/2007, cit. e Cass. pen., Sez. VI, n. 40146/2018).

Da ultimo, la soluzione contrastata urterebbe anche con il principio di legalità e il correlato divieto di applicazione retroattiva della legge più sfavorevole.

Al di là delle prese di posizione della Corte Costituzionale, infatti, che sul delicato tema non si è mai pronunciata apertamente (avendo sempre ritenuto assorbita la relativa censura), è alla giurisprudenza sovranazionale che occorre guardare.

La Corte Edu, in effetti, ha affermato, senza tentennamenti, che la norma, pur formalmente non sostanziale, che incida in modo concreto sulla quantità di pena detentiva da espiare, deve considerarsi “materia penale” e, perciò, soggetta alla tutela dell'art. 7 Cedu.

Nelle due sentenze Del Rio Prada c. Spagna – quella della Grande Camera vero e proprio leading case – la Corte, con specifico riferimento a una misura alternativa alla detenzione, ha ritenuto violato l'art. 7 Cedu (oltre all'art. 5), in ragione del fatto che la nuova base giuridica introdotta dal mutamento giurisprudenziale, avesse determinato la necessità, per il condannato, di espiare un periodo maggiore di pena detentiva, rispetto a quello che, al momento della richiesta del beneficio, risultava sufficiente per conseguirlo. Di qui l'applicazione retroattiva in malam partem della modifica, che ha reso non prevedibile, al momento della commissione del reato, le conseguenze, in termini concretamente sanzionatori, delle proprie azioni e, per ciò stesso, irragionevole la decisione del Giudice spagnolo.

Evidenti sono le affinità con le misure alternative del nostro ordinamento, tanto è vero che in una vicenda del tutto analoga – relativa al maggior tempo di pena da scontare prima di accedere alla semilibertà – la Corte di Cassazione aveva, nel 2006, escluso violazioni in termini di ragionevolezza, richiamando una volta ancora, acriticamente, il brocardo tempus regit actum.

Le misure alternative alla detenzione risultano, infatti, senz'altro riconducibili alla “materia penale”, poiché impattano, in modo decisivo, non solo sul quantum ma addirittura sull'an della pena detentiva da espiare.

Alla luce di tutto quanto sopra, appare in modo limpido l'inadeguatezza dell'orientamento espresso, nel lontano 2006, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; tralaticiamente ripreso dalla giurisprudenza successiva, senza i doverosi confronti con le direttrici evolutive segnate sia dalla Corte Costituzionale, sia dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo.

Un'ultima considerazione sia consentita.

È stata depositata il 20 marzo u.s. la sentenza n. 12541, della Sesta Sezione Penale (Presidente Fidelbo, estensore Bassi).

In questa interessantissima sentenza, la Corte, su sollecitazione della difesa dell'imputato, ha evidenziato la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1, lett. b), legge n. 3/2019, nella parte in cui non prevede una disciplina transitoria.

Ciò in quanto – secondo la Sesta Sezione - non è revocabile in dubbio che, nella più recente giurisprudenza della Corte Europea per i Diritti dell'Uomo, ai fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali, i concetti di illecito penale e di pena abbiano assunto una connotazione "antiformalista" e "sostanzialista", privilegiandosi alla qualificazione formale data dall'ordinamento (all'"etichetta" assegnata), la valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonché alle modalità di esecuzione della sanzione o della misura imposta. Significativa in tale senso è la pronuncia resa nel caso Del Rio Prada contro Spagna (del 21 ottobre 2013), là dove la Grande Camera della Corte EDU, nel ravvisare una violazione dell'art. 7 della Convenzione, ha riconosciuto rilevanza anche al mutamento giurisprudenziale in tema di un istituto riportabile alla liberazione anticipata prevista dal nostro ordinamento in quanto suscettibile di comportare effetti peggiorativi, giungendo dunque ad affermare che, ai fini del rispetto del "principio dell'affidamento" del consociato circa la "prevedibilità della sanzione penale", occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata, ma anche alla sua esecuzione (sebbene - in quel caso - l'istituto avesse diretto riverbero sulla durata della pena da scontare). Alla luce di tale approdo della giurisprudenza di Strasburgo – prosegue ancora la Sesta Sezione -, non parrebbe manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale l'avere il legislatore cambiato in itinere le "carte in tavola" senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art.117 Cost., là dove si traduce, per l'imputato, nel passaggio - "a sorpresa" e dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata "senza assaggio di pena" ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il già rilevato operare del combinato disposto degli artt. 656, comma 9, lett. a), C.p.p. e 4-bis O.P. La Sesta Sezione, tuttavia, non ha poi sollevato incidente di costituzionalità, solo perché non ha ritenuto la questione rilevante nel caso concreto scrutinato.

Sullo stesso piano, e con una presa di posizione ancora più netta, si pone la coeva ordinanza del Gip di Como (datata 8 marzo 2019, dott.ssa Lo Gatto). In questa coraggiosa pronuncia, infatti, il Giudice lariano afferma, senza mezzi termini (e con ampi richiami alla Convenzione EDU ed alle decisioni della Corte Europea), che le norme in materia di esecuzione e di misure alternative alla detenzione, quando condizionano an e quantum della pena da applicare in concreto (come accade per l'affidamento in prova), perdono la foro natura meramente “formale”, per assumere quella sostanziale; con il conseguente dovere di applicarvi lo statuto del principio di legalità, al fine di non frustrare l'affidamento riposto, dal soggetto agente, nella prevedibilità delle conseguenze delle proprie azioni (eventualmente criminose).

Le decisioni in esame, invero, meritano il dovuto riconoscimento, per aver ben focalizzato la serietà (e drammaticità) del problema posto dalla novella ed avere preso, almeno in parte, le distanze dal tralatizio principio del “tempus regit actum”, evocato dalle Sezioni Unite del 2006. Con l'auspicio che a tale autorevole spunto ermeneutico, possano seguire a breve più approfondite riflessioni su un tema così delicato, che involge un bene primario di rango costituzionale.

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