La scelta di una determinata strategia processuale: valutazione ex ante o ex post?
04 Aprile 2019
Il conferimento dell'incarico professionale determina l'instaurazione, tra le parti, di un rapporto di natura contrattuale che impegna l'avvocato ad una prestazione d'opera intellettuale nei confronti del cliente (art. 2230 c.c.). Il prestatore d'opera, in questo caso, assume l'obbligazione di svolgere la propria attività professionale, compiendo gli atti difensivi ed esponendo le ragioni del cliente, in vista di ottenerne l'esame e l'accoglimento; l'oggetto della sua obbligazione è quello di assicurare all'assistito non già la vittoria in giudizio, bensì la migliore difesa possibile dei suoi diritti (Cass. civ., 3 maggio 1993, n. 5325; Cass. civ., 28 aprile 1994, n. 4044). La condotta tenuta dal difensore dev'essere, pertanto, valutata non sulla base del risultato ottenuto, bensì avendo riguardo alla diligenza impiegata per conseguirlo, sì che l'inadempimento si sostanzia nella contrarietà della stessa al parametro della diligenza tecnica previsto dal secondo comma dell'art. 1176 c.c., che è la quella del professionista di media attenzione e preparazione. Così, ad esempio, in caso di incertezza giurisprudenziale in ordine al computo del termine di prescrizione del diritto del cliente al risarcimento del danno, il mancato compimento di atti interruttivi, da parte del legale, con riferimento al termine prescrizionale più breve (ancorché in concreto non operante, in forza di un successivo intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Corte regolatrice), implica violazione dell'obbligo di diligenza richiesto dall'art. 1176, comma 2, c.c. (Cass. civ., 14 febbraio 2017, n. 3765). Ne consegue che l'ambito della responsabilità contrattuale, ai sensi degli artt. 1218 e 1176 c.c., coincide tendenzialmente con i casi di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge o di orientamenti giurisprudenziali consolidati (Cass. civ., 6 settembre 2012, n. 14936) nell'espletamento del mandato; viceversa, rispetto all'interpretazione di norme e alla risoluzione di questioni opinabili, sulle quali si siano registrati contrasti in dottrina e giurisprudenza, la responsabilità del professionista va limitata ai casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell'art. 2236 c.c.. Si è ritenuto, ad esempio, che implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà l'individuazione dell'autorità davanti alla quale proporre impugnazione ovvero del rimedio impugnatorio (v., sul punto, postea) esperibile in presenza di un contrasto giurisprudenziale e della peculiare complessità del caso concreto (Cass. civ., 16 febbraio 2016, n. 2954). L'obbligo della diligenza qualificata impone, altresì, all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso del suo svolgimento, anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, al fine di renderlo edotto delle conseguenze del compimento o del mancato compimento degli atti del processo, di rappresentargli le situazioni di fatto o di diritto ostative al raggiungimento del risultato e i rischi di insuccesso insiti nell'iniziativa giudiziale (Cass. civ., 12 aprile 2011, n. 8312), di richiedergli gli elementi conoscitivi e i documenti, in suo possesso, necessari o utili alla conduzione della difesa, di evitare di ingenerare irragionevoli affidamenti.Va escluso, da un canto, che la responsabilità dell'avvocato possa essere negata per il fatto che il mezzo tecnico o la strategia processuale (ad. es., la rinuncia ad una consulenza tecnica o ad una prova decisiva) erronei siano stati sollecitati dal cliente, in quanto la scelta della linea difensiva è di esclusiva competenza dell'avvocato e la sua condivisione da parte del cliente ne postula la completa e puntuale informazione in ordine ai costi, ai vantaggi, e alle possibili conseguenze, dall'altro che tra i doveri di correttezza del cliente possa esservi l'assunzione di costi o rischi eccessivi (Cass. civ., 14 agosto1997, n. 7618). Alla stregua di tali principi, sono state ritenute contrarie al dovere di diligenza incombente sul professionista, senza che, con riguardo a queste ultime, fossero ravvisabili le "speciali difficoltà tecniche" di cui all'art. 2236 c.c.: a) la tardiva notifica dell'opposizione a decreto ingiuntivo ovvero la sua mancata iscrizione a ruolo che ne abbiano determinato l'inammissibilità (Cass. civ., 6 luglio 2010, n. 15861); b) il mancato invio di una lettera di disdetta da un contratto di locazione, in tempo utile per garantire al cliente il conseguimento della disponibilità di un immobile; c) l'omessa o tardiva riassunzione del processo in seguito ad un evento interruttivo cui sia conseguita l'estinzione del processo e, con essa, la perdita del diritto del cliente o il colpevole ritardo nel suo soddisfacimento; d) la mancata formulazione di un'eccezione di prescrizione; e) la mancata partecipazione all'udienza di convalida dello sfratto; f) l'omessa proposizione dell'impugnazione della sentenza sfavorevole, con conseguente sua irrevocabilità (Cass. civ., 26 febbraio 2013, n. 4781).
Trattasi di situazioni accomunate dalla particolare connotazione della negligenza del professionista, concretatasi nell'omissione di atti dovuti, per lo più soggetti a termini perentori. Tuttavia, anche in caso di controversie di notevole difficoltà e tali da esporre il cliente ad un elevato rischio di soccombenza, l'attività difensiva deve essere svolta con diligenza, al fine di limitare od escludere il pregiudizio riconducibile alla posizione del cliente, anche sollevando le eccezioni relative ad eventuali errori di carattere sostanziale o processuale della controparte. Pertanto, il difensore può non accettare una causa per la quale prevede già dall'inizio la soccombenza del suo assistito, ma non può accettarla e, poi, disinteressarsene del tutto, con il pretesto che trattasi di una causa destinata all'insuccesso (c.d. causa “persa” ab initio), senza nemmeno attivarsi per trovare una soluzione transattiva, essendo tale comportamento comunque doveroso ove si accetti di difendere una causa rischiosa per il proprio cliente. In caso di assoluta inerzia del difensore viene, conseguentemente, a configurarsi la sua responsabilità professionale, avendo comunque esposto il cliente all'incremento del pregiudizio iniziale, se non altro a causa delle spese processuali cui lo stesso va incontro per la propria difesa e per quella della parte avversa (Cass. civ., 2 luglio 2010, n. 15717). La scelta della strategia professionale
Anche la scelta di una determinata strategia processuale (ad es. l'aver omesso di proporre un ricorso per accertamento tecnico preventivo o una domanda cautelare ante causam) può essere foriera di responsabilità, purché l'inadeguatezza rispetto al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata dal giudice di merito ex ante, in relazione alla natura e alle caratteristiche della controversia e all'interesse del cliente ad affrontarla con i relativi oneri, dovendosi in ogni caso valutare anche il comportamento successivo tenuto dal professionista nel corso della lite. In applicazione di tale principio, Cass. civ., 22 novembre 2018, n. 30169, ha confermato la sentenza di merito che, con riferimento a una causa di opposizione a decreto ingiuntivo dal sicuro esito sfavorevole, aveva escluso la responsabilità professionale dell'avvocato il quale, pur avendo sconsigliato il cliente di svolgere l'opposizione, aveva accettato l'incarico in considerazione della sua impossibilità di onorare nell'immediato il debito, adoperandosi successivamente nel corso della lite per addivenire a una transazione, tuttavia non accettata dal cliente. Più precisamente, la detta valutazione non può essere effettuata ex post, sulla base dell'esito del giudizio, restando comunque esclusa la responsabilità in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità - in astratto o con riferimento al caso concreto - tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale, ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente (Cass. civ., 10 giugno 2016, n. 11906). Il nesso causale
Il difensore, che svolge la propria attività in modo negligente o con colpa grave ovvero con dolo, è inadempiente alla obbligazione che gli deriva dalla conclusione del contratto di prestazione d'opera intellettuale: ciò, però, non basta affinché ne sia affermata la responsabilità, giacché questa, a norma dell'art. 1218 c.c., presuppone che dall'inadempimento sia derivato un danno. L'onere di provare l'esistenza del danno (non solo la soccombenza, ma anche il ritardo nella realizzazione del diritto o un maggior aggravio di spese) e il nesso causale tra la insufficiente o inadeguata o negligente attività del professionista e il pregiudizio grava sul cliente (Cass. civ., 20 agosto 2015, n. 17016; Cass. civ., 15 dicembre 2016, n. 25895; Cass. civ., 22 luglio 2014, n. 16690; Cass. civ., 7 agosto 2002, n. 11901). La valutazione della sussistenza del nesso causale tra condotta del professionista intellettuale e risultato sfavorevole per il cliente costituisce indispensabile presupposto per la formulazione di un giudizio di responsabilità del primo e va effettuata, secondo un criterio prognostico, giacché, in materia di responsabilità per colpa professionale, al criterio della certezza degli effetti della condotta si sostituisce, nella ricerca del nesso di causalità, quello della probabilità di tali effetti e della idoneità della condotta a produrli, cosicché il rapporto causale sussiste anche quando l'opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì serie ed apprezzabili possibilità, di successo. A tal fine, trattandosi, per lo più, di causalità omissiva, occorre la individuazione della condotta alternativa dovuta (e omessa) secondo il parametro della diligenza professionale e la prova, anche presuntiva, che la stessa, ove tempestivamente e correttamente tenuta, avrebbe evitato o anche solo ridotto l‘effetto pregiudizievole subito dal cliente ovvero consentito di ottenere il medesimo risultato più rapidamente (Cass. civ., 26 luglio 2010, n. 17506), secondo un criterio di ragionevole probabilità fondato su un giudizio probabilistico ex ante (cd. prognosi postuma; cfr. Cass. civ., 5 febbraio 2013, n. 2638, e Cass. civ., 14 maggio 2013, n. 11548). Spetta, invece, al professionista, al fine di andare esente da responsabilità o di mitigarne le conseguenze, dimostrare che il risultato vantaggioso è mancato per fatto a sé non imputabile (ad esempio, per l'incuria o la negligenza dello stesso assistito ovvero per circostanze imponderabili, indipendenti dalla propria attività defensionale) ovvero che l'impegno intellettuale richiesto fosse superiore a quello mediamente esigibile e tale da giustificare un'attenuazione della responsabilità, o, ancora, che l'attività omessa non avrebbe prodotto alcun risultato utile per l'assistito né avrebbe elevato l'aspettativa delusa a chance giuridicamente rilevante. Il danno risarcibile
Nei casi in cui il risultato utile, possibile e atteso dal cliente sia mancato del tutto (com'è nel caso di soccombenza, ossia di integrale rigetto delle pretese giudiziali), viene meno il diritto del professionista alla percezione del compenso per l'attività rivelatasi inutile e il cliente è legittimato ad opporgli l'exceptio inadimpleti contractus ai sensi dell'art. 1460 c.c. purchè la violazione dei doveri professionali abbia inciso negativamente sui suoi interessi, essendo contrario a buona fede l'esercizio del potere di autotutela ove non sia pregiudicata la chance di buon esito del giudizio (Cass. civ., 5 luglio 2012, n. 11304). Il professionista è altresì esposto all'obbligo di risarcire il cliente dei danni che costituiscano conseguenza del proprio inadempimento professionale, ai sensi dell'art. 1223 c.c., danni che possono consistere anche nella perdita di quanto l'assistito avrebbe conseguito in caso di esito favorevole del giudizio (ovvero nella irrecuperabilità di un credito) e nelle spese inutilmente sostenute (App. Milano, 4 dicembre 2015, n. 4682). In particolare, nel caso in cui la responsabilità del difensore discenda dal mancato esercizio del diritto entro il termine prescrizionale, il danno che il professionista deve risarcire alla parte consiste nel pregiudizio economico che questa subisce a causa del mancato accoglimento della domanda per estinzione del diritto determinata dal decorso del termine (Cass. civ., 18 luglio 2002, n. 10454). L'incertezza dell'esito della vicenda processuale, ove non impedisca del tutto la formulazione di un giudizio prognostico favorevole al cliente, non esclude l'obbligazione risarcitoria, ma incide esclusivamente sul quantum debeatur, che va rapportato alla percentuale che esprime la probabilità (chance) di vittoria della lite L'avvocato è tenuto, in presenza di un indirizzo giurisprudenziale recente, affermativo di una soluzione giuridica opinabile ed, eventualmente, non condivisa e convintamente ritenuta ingiusta ed errata dal medesimo (ad esempio, in materia di validità della notifica della sentenza ai fini decorrenza del termine breve per l'impugnazionedel provvedimento), a tenerne conto per porre in essere una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze, sfavorevoli per il proprio assistito, della prevedibile applicazione dell'orientamento ermeneutico da cui pur dissente (Cass. civ.,28 febbraio 2014, n. 4790). Anche nel caso in cui l'errore professionale addebitabile all'avvocato si sostanzi nell'omessa o tardiva impugnazione di una sentenza sfavorevole all'assistito, nell'omessa o tardiva proposizione dell'impugnazione incidentale, nella mancata costituzione tempestiva dinanzi al giudice di secondo grado, che abbia determinato l'improcedibilità dell'appello, la responsabilità dell'esercente la professione forense non può affermarsi per il solo fatto del mancato corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare in primo luogo se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del legale; in secondo luogo, se un danno vi sia stato effettivamente, posto che l'art. 1223 c.c. postula la dimostrazione dell'esistenza concreta di un pregiudizio consistente in una diminuzione patrimoniale o in un mancato guadagno; in terzo luogo se, qualora l'avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il suo assistito avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando altrimenti la prova del necessario nesso eziologico (v. infra) tra la condotta del legale, commissiva od omissiva che sia, ed il risultato derivatone. Nella valutazione della causale riconducibilità dell'evento dannoso a negligenza del difensore non può, però, prescindersi dall'apprezzamento dell'eventuale incidenza dell'inerzia dello stesso cliente che sia stato posto in condizione di provvedervi altrimenti tempestivamente, in quanto informato della scadenza del termine per l'impugnazione e munito di documenti necessari per la preparazione dell'atto di impugnazione (Cass. civ., 5 febbraio 2013, n. 2638). Come visto in precedenza, spetta, inoltre, al cliente–danneggiato fornire gli elementi di prova in ordine al fondamento dell'impugnazione ai fini del giudizio prognostico circa l'esito favorevole che avrebbe potuto essere conseguito ove l'avvocato avesse improntato la propria condotta allo standard della diligenza media del professionista normalmente preparato e avveduto (tra le tante, cfr. Cass. civ., n. 16846/2005 e n. 12354/2009). Non può, perciò, limitarsi a dedurre l'astratta possibilità della riforma in appello della pronuncia in senso a lui favorevole, ma deve dimostrare l'erroneità della decisione in questione oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto, secondo il criterio del “più probabile che non”, poiché l'accertamento del rapporto di causalità ipotetica derivante dalla condotta omissiva passa attraverso l'enunciato “controfattuale” che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, alla luce del quale verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato (Cass. civ., 29 settembre 2009, n. 20828). In proposito, va chiarito che, in tema di responsabilità professionale dell'avvocato per omesso svolgimento di un'attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell'evidenza o del “più probabile che non”, si applica non solo all'accertamento del nesso di causalità fra l'omissione e l'evento di danno, ma anche all'accertamento del nesso tra quest'ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa. Una volta provati gli elementi costitutivi della responsabilità professionale, è onere dell'avvocato dimostrare non solo che la mancata proposizione del gravame sia frutto di una consapevole scelta del cliente o del fatto che quest'ultimo abbia omesso di fornirgli indicazioni circa la propria intenzione di impugnare o meno la pronuncia, ma anche di averlo esaustivamente informato del rimedio esperibile e dei relativi costi e benefici, oltre che delle concrete possibilità di conseguire un risultato più vantaggioso. É, infatti, largamente improbabile, che la parte di un giudizio sia in grado di valutare la correttezza delle ragioni giuridiche addotte da una sentenza di rigetto della sua domanda, la proponibilità o meno di determinati motivi di impugnazione, le probabilità di successo dell'appello, e così via. Invero, la valutazione della correttezza o meno di una sentenza richiede competenze squisitamente tecniche, che solo il difensore possiede e che solo al difensore spetta di illustrare al cliente, consigliando le opportune iniziative (sui doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, cfr. Cass. civ., 30 luglio 2004, n. 14597). Sul tema, la Suprema Corte di recente ha precisato che, quando il cliente abbia provato la conclusione del contratto di patrocinio, con il conferimento dell'incarico al legale per agire nei gradi di merito, non è necessario il rilascio di un ulteriore mandato per agire in sede di legittimità, la cui prova sia a carico del primo, sicchè la sola circostanza che non sia stata conferita la prevista procura speciale non esclude la responsabilità del professionista per mancata proposizione tempestiva del relativo ricorso, gravando sull'avvocato l'onere di provare di aver sollecitato il cliente a fornire indicazioni circa la propria intenzione d'impugnare la sentenza sfavorevole di secondo grado, di averlo informato di questo esito e delle conseguenze dell'omessa impugnazione, nonchè di non aver agito per fatto a sé non imputabile o per la sopravvenuta cessazione del rapporto contrattuale (Cass. civ., 23 marzo 2017, n. 7410). In mancanza della prova liberatoria della non imputabilità dell'inadempimento, il cliente ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale, che va liquidato in proporzione al grado di possibilità di successo dell'impugnazione, ossia in base ad una valutazione probabilistica del risultato utile raggiungibile con il gravame (Cass. civ., 27 gennaio 1999, n. 722, ha ritenuto immune da vizi la determinazione del quantum da parte del giudice del merito in misura pari alla differenza tra ciò che la parte aveva ottenuto con la sentenza di primo grado e ciò che avrebbe ottenuto in via transattiva, se le trattative non fossero state repentinamente interrotte dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado). Ove, poi, il contratto di patrocinio fosse destinato a soddisfare interessi anche non patrimoniali del cliente, l'inadempimento del professionista potrà essere foriero di danni non patrimoniali, suscettibili di ristoro ai sensi dell'art. 2059 c.c. (secondo la lettura offertane dalla Cass. civ., Sez. Un., sent., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975), quando abbia determinato una lesione di diritti inviolabili della persona tutelati dalla Costituzione o di diritti espressamente previsti dalla legge (cfr. Cass. civ., 15 giugno 2016, n. 12280, che, rispetto alla tardiva impugnazione di una sentenza penale di condanna, cui era conseguita l'impossibilità per il cliente di ottenere una riduzione della pena detentiva in sede di gravame, ha ritenuto che il pregiudizio di carattere non patrimoniale patito dal condannato non potesse essere risarcito applicando automaticamente i criteri elaborati dalla giurisprudenza penale per il ristoro del danno da ingiusta detenzione - trattandosi di condanna legalmente data e, quindi, di detenzione legittima -, ma andasse liquidato in via equitativa). Infine, qualora la negligenza dell'avvocato determini la definitiva perdita del diritto dell'assistito (come avviene quando dalla mancata impugnazione di una sentenza dichiarativa dell'estinzione del processo per irritualità della riassunzione dello stesso e dall'omessa informazione del cliente circa le conseguenze di essa discenda la prescrizione del diritto, stante il venir meno dell'effetto interruttivo permanente del corso della prescrizione, già ricollegatosi alla proposizione della domanda giudiziale), l'omissione rende del tutto inutile l'attività difensiva precedentemente svolta dal professionista, dovendosi ritenere la sua prestazione totalmente inadempiuta ed improduttiva di effetti in favore del proprio assistito, con la conseguenza che in tal caso non gli è dovuto alcun compenso (Cass. civ.,Sez.III,26 febbraio 2013, n. 4781). In conclusione
Ad oggi, come visto, la qualificazione dell'obbligo posto a carico del professionista è ritenuta un'obbligazione di mezzi e non di risultato. Anche se, recentemente, in particolari fattispecie giurisprudenziali si è cercato di attenuare tale distinzione [in caso di inadempimento ad incarichi specifici quali la mancata informazione, nell'ipotesi di parere stragiudiziale, della intervenuta prescrizione (vedi Cass. civ., 14 novembre 2002, n. 16023), in caso di intervenuta decadenza dalle prove (Cass. civ., 8 maggio 1993, n. 5325), oppure in caso di omissione della richiesta di prove testimoniali (Cass. civ., 6 febbraio 1998, n. 1286). Questo orientamento, prevalentemente giurisprudenziale, è stato, peraltro, criticato da parte della dottrina, la quale ritiene che il professionista, per portare a termine la propria opera, deve eseguire una serie di attività che rientrano sia nella categoria delle obbligazioni di mezzi che in quella di obbligazioni di risultato. Per di più è possibile che il contratto preveda non solo obblighi di comportamento diligente, ma anche promesse di particolari risultati, facendo sì che, in relazione allo stesso contratto, possano trovare spazio sia i criteri e principi relativi alle obbligazioni di mezzi, sia quelli relativi alle obbligazioni di risultato. D'altra parte, la stessa Corte di cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 15781 del 28 luglio 2005, poi confermata, nel contenuto, da successive sentenze della Suprema Corte, sempre a Sezioni Unite (n. 577/2008), ha statuito che la distinzione fra obbligazione di mezzi ed obbligazione di risultato non avrebbe motivo di esistere, in quanto entrambe le obbligazioni implicano un risultato ed unica sarebbe la responsabilità del professionista, dato che, come in ogni altra obbligazione, si richiede sia la presenza del comportamento del debitore (ovverosia la diligenza) sia del risultato, anche se proporzionalmente alle varie fattispecie variabile. Il futuro ci dirà se questi segnali di discontinuità apriranno un varco all'interno del quale si formerà un nuovo orientamento.
(Fonte: ilprocessocivile.it) |