La tutela dell'incapace che stipula un contratto senza il tutore, il curatore o l'amministratore di sostegno

Stefania Flore
10 Aprile 2019

Un incapace sottoscrive personalmente un contratto, senza l'assistenza del tutore, del curatore o dell'amministratore di sostegno, obbligandosi personalmente e quindi senza ben comprendere le conseguenze legali. A tale posizione si contrappone quella del contraente capace che, colpevolmente o meno, ha consegnato un bene all'incapace e rischia di veder pregiudicato il suo diritto alla controprestazione. Quali tutele sono previste nel bilanciamento dei due interessi?
Il contratto sottoscritto dall'incapace

Un incapace sottoscrive personalmente un contratto, senza l'assistenza del tutore, del curatore o dell'amministratore di sostegno, obbligandosi personalmente e quindi senza ben comprendere le conseguenze legali.

A tale posizione si contrappone quella del contraente capace che, colpevolmente o meno, ha consegnato un bene all'incapace e rischia di veder pregiudicato il suo diritto alla controprestazione. Quali tutele sono previste nel bilanciamento dei due interessi?

Il titolo XII del libro primo del codice civile descrive gli istituti a tutela di coloro che sono totalmente o parzialmente privi di autonomia. Ci si riferisce prevalentemente all'incapacità psichica, ma anche a quella fisica (la quale però non rileva in questo approfondimento).

Le procedure di tutela previste dal codice sono tre: interdizione, inabilitazione e amministrazione di sostegno. Le prime due sono misure tradizionali e poco flessibili, quasi totalmente disapplicate nella pratica odierna.

L'interdizione può richiedersi per il soggetto totalmente e permanentemente incapace di intendere e volere; prevede la nomina di un tutore che si occuperà di compiere ogni atto in nome e per conto dell'incapace, salvo che la sentenza che pronuncia l'interdizione preveda che l'interdetto mantenga la capacità per compiere qualche atto di ordinaria amministrazione.

L'inabilitazione è prevista, invece, per infermità mentali meno gravi ovvero per coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici.

L'inabilitato conserva la capacità solo per gli atti di ordinaria amministrazione e nella sentenza che pronuncia l'inabilitazione può stabilirsi che alcuni atti eccedenti l'ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall'inabilitato senza l'assistenza del curatore.

Questi due istituti sono stati di fatto sostituiti dall'amministrazione di sostegno, introdotta con l. n. 6/2004 a tutela di coloro che, per effetto di una infermità ovvero di una mancanza psichica o fisica, si trova nella impossibilità anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi.

L'amministrazione di sostegno, a differenza delle altre misure, che presumono l'impossibilità di compiere intere categorie di atti, presuppone la capacità del soggetto, per poi delineare eventuali eccezioni, ossia atti che dovranno essere stipulati direttamente dall'amministratore o con il supporto dello stesso.

Per tutte e tre le figure, che rappresentano misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia e che perciò comportano, una volta pronunciate delle incapacità legali, più o meno estese, il codice civile prevede l'annullabilità del contratto stipulato senza l'assistenza del tutore, curatore o amministratore (artt. 412, 427, comma 2, 1425 ss. c.c.; v. Cass. civ. n. 13584/2006 e Cass. civ. n. 9628/2009 secondo le quali l'amministrazione di sostegno va inquadrata tra le misure di tutela dell'incapace legale al pari dell'interdizione e inabilitazione).

Giova sottolineare che l'interdetto non dispone del proprio denaro e il suo conto in banca viene gestito dal tutore; ciò vale in genere anche per l'inabilitato e per il beneficiario di amministrazione di sostegno disposta a fronte di problemi psichici. Il tutore (o curatore o amministratore di sostegno a seconda dei casi), nel gestire le risorse economiche dell'incapace, preleva periodicamente una somma e gliela concede per le esigenze di ordinaria amministrazione previste dalla sentenza o dal decreto. Pertanto quando si parla di contratti stipulati dall'incapace senza la relativa figura di supporto, si deve tener conto che in questi casi l'incapace non spende denaro (non avendo disponibilità effettiva ed immediata, nemmeno mediante bonifico), ma si obbliga a spenderlo per ottenere un bene, oppure trasferisce un bene mobile per incassare denaro.

L'ipotesi appena descritta è in realtà più diffusa di quanto si pensi: se l'incapace non si mostra palesemente come tale, potrebbe infatti riuscire a comprare un'auto, sottoscrivere un finanziamento o addirittura comprare una casa. Nel fare ciò potrebbe essere assistito da persone, spesso parenti, che sono le vere interessate alla conclusione del contratto e si servono dell'incapace per ottenere un bene desiderato.

Se da una parte abbiamo la lesione dell'incapace, dall'altra avremo quella del contraente capace, il quale, colpevolmente o meno, può essere all'oscuro dell'incapacità (anche se legalmente dichiarata) e rischia di subire un pregiudizio economico dall'annullamento del contratto.

L'annullamento del contratto per incapacità legale

La disciplina dell'annullamento per incapacità legale presenta alcune particolarità rispetto a quella generale.

Innanzitutto, quest'ultima prevede che, a seguito della pronuncia di annullamento, gli effetti dell'atto cessino con efficacia retroattiva. Ai sensi dell'art. 1445 c.c., vengono però fatti salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede e trascritti prima dell'azione di annullamento. Ad esempio, se un soggetto acquista un immobile in base a un atto annullabile e lo rivende a un terzo in buona fede, ignaro dell'invalidità, se questi trascrive tempestivamente l'acquisto, prima della trascrizione dell'azione di annullamento, potrà considerarlo salvo, anche se successivamente si accerta l'annullamento del contratto del primo venditore.

In caso di annullamento per incapacità legale, invece, gli effetti dell'atto cessano con efficacia retroattiva, senza alcuna previsione di salvaguardia dei diritti dei terzi acquirenti. A seguito dell'annullamento, infatti, il bene oggetto dell'atto di disposizione invalido dovrà essere restituito all'incapace legale, anche se è stato alienato a un terzo di buona fede (art. 1445, comma 1, c.c.).

Altre differenze, fra la disciplina generale dell'annullamento e quella particolare dell'annullamento per incapacità legale del primo venditore, sono previste per la prescrizione.

La maggiore differenza, che qui interessa, riguarda però un altro aspetto degli effetti dell'annullamento.

Secondo la disciplina generale, dopo l'annullamento bisogna considerare il contratto come se non fosse mai esistito, con conseguente obbligo delle parti di ripetere le reciproche prestazioni. Ad esempio, se un soggetto compra un'auto, a seguito dell'annullamento dovrà restituirla e la concessionaria dovrà rendergli i soldi (salvo eventuali indennizzi per l'utilizzo del bene nel frattempo).

Invece, in base all'art. 1443, comma 1, c.c., nel caso di annullamento per incapacità, l'incapace non è tenuto alla restituzione di quanto ha percepito, se non nei limiti in cui la prestazione è stata rivolta a suo vantaggio.

La norma si basa sulla presunzione che l'incapace non sia in grado, a causa della sua incapacità, di trarre profitto dalla prestazione che riceve, nello stesso modo e nella stessa misura di un soggetto pienamente capace. Perciò, a seguito dell'annullamento del contratto per incapacità, quest'ultimo sarà tenuto a restituire la prestazione nel frattempo ricevuta, solo nei limiti in cui abbia affettivamente tratto vantaggio dall'adempimento.

Il vantaggio dell'incapace: le posizioni della dottrina e della giurisprudenza

Proprio sulla nozione di vantaggio dell'incapace che si segnalano le maggiori differenze con la disciplina generale: la nozione è, infatti, ancora incerta e dibattuta

Il vantaggio dell'incapace veniva inteso dalla dottrina, ben prima dell'introduzione dell'amministrazione di sostegno, nel senso di gestione oculata e accorta della prestazione ricevuta. La norma presume, infatti, che l'incapace non sia in grado di utilizzare effettivamente a proprio vantaggio i proventi del contratto, non essendo in grado di amministrare il proprio patrimonio.

Il “vantaggio” tratto dall'incapace dovrebbe distinguersi dall'arricchimento ex art. 2041 c.c. e quindi non essere valutato in termini oggettivi di percezione del denaro, ma in termini soggettivi di valutazione dell'amministrazione oculata, utile e quindi vantaggiosa per l'incapace (Breccia, La ripetizione dell'indebito, Milano, 1974; Manzini, Il vantaggio dell'incapace, in Riv. Dir. Civ., 1980, I, 649 ss; Galgano, Il negozio giuridico, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Mengoni, Milano, 1988).

L'onere di provare questo effettivo sfruttamento vantaggioso del bene ricevuto grava sul contraente capace, il quale, per ottenere la restituzione di ciò che ha dato, deve vincere la presunzione suddetta. Ad esempio, il contraente capace potrà provare che il denaro è stato impiegato per soddisfare effettivi bisogni dell'incapace o che il bene percepito è stato utilizzato nel suo interesse.

La giurisprudenza, tuttavia, (Cass. civ. n. 681/1968, relativa però a contratto stipulato dal rappresentante legale di un minore senza l'autorizzazione del giudice; Cass. civ. n. 2104/1961) si è orientata nel senso di considerare il vantaggio per l'incapace in termini meramente economici, quindi valutando il vantaggio inizialmente conseguito, seppur sperperato.

La questione è particolarmente spinosa, in quanto sussiste un contrasto non solo tra dottrina e giurisprudenza, ma anche all'interno della stessa giurisprudenza di Cassazione, in particolare tra quella risalente e quella più recente.

La sentenza della Cassazione n. 16888/2017 sul beneficiario di amministrazione di sostegno

La Suprema Corte si è occupata del problema in oggetto nell'ambito specifico dell'amministrazione di sostegno (Cass. civ., sentenza 7 luglio 2017, n. 16888)

In punto di fatto, un beneficiario di amministrazione di sostegno (già inabilitato) vende un immobile a un agente immobiliare ricevendo a titolo di corrispettivo la somma di euro 180.000. L'operazione avviene in due fasi, mediante la stipula di un contratto preliminare prima e di un contratto definitivo in seguito, entrambi all'insaputa del padre del venditore, nonché suo amministratore di sostegno. Quest'ultimo chiede quindi l'annullamento del contratto preliminare e del definitivo. L'agente immobiliare si costituisce rilevando la propria buona fede (il decreto di apertura dell'amministrazione di sostegno era stato depositato il giorno prima della conclusione del contratto preliminare), resistendo alla domanda di annullamento e chiedendo, in subordine, la restituzione dell'intero prezzo di euro 180.000 .

Il Tribunale accoglie la domanda di annullamento e, ai sensi dell'art. 1443 c.c., rigetta la domanda riconvenzionale dell'agente per la restituzione del denaro versato al beneficiario di amministrazione di sostegno.

La Corte d'Appello di Trento, in parziale riforma, condanna l'amministrato alla restituzione di circa 75.000€ (meno della metà dell'importo percepito), affermando che «Quando [...] non sia ravvisabile un comportamento caratterizzato da malafede, deve ritenersi che la valutazione in ordine all'esistenza dei presupposti per la restituzione imponga un contemperamento delle posizioni, entrambe meritevoli di tutela, dell'incapace e dell'altro contraente».

L'amministratore di sostegno ricorre in cassazione rilevando la violazione dell'art. 1443 c.c., il cui tenore letterale non tiene in conto la buona o mala fede del contraente capace e non prevede nessun temperamento alla regola per cui l'incapace non deve restituire alcunché. L'articolo in questione dispone infatti che la restituzione sia dovuta unicamente se viene provato un eventuale vantaggio dell'incapace.

La Suprema Corte accoglie il motivo di impugnazione rilevando che «In effetti la corretta applicazione dell'art. 1443 c.c. non postula tale necessità giacché [...] si prescinde dal riferimento all'elemento soggettivo. Per di più l'orientamento di questa Corte (oggi opportunamente ribadito), tuttora valido ancorché risalente a soli due non recenti precedenti, ha sempre evidenziato come, a fronte della restituzione chiesta dal contraente non incapace, si contrappone la presunzione di non profitto del contraente incapace».

Il primo dei due precedenti cui si riferisce la Corte è quello del 1968 che, pur affermando la sussistenza della presunzione, identificava il vantaggio dell'incapace in quello inizialmente conseguito e lo valutava nella sua oggettività, come mero incasso di denaro, riconducendolo all'indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. Il secondo è una pronuncia del 1975 che viene successivamente citata nella sentenza, seppur, a parer di chi scrive, inopportunamente. La pronuncia della Cassazione sembra infatti contraddirsi laddove, riportando un passo di Cass. civ. n. 3913/1975, afferma che «la legge presume che (l'incapace) ha mal disposto del suo patrimonio, così come che possa aver dissipato la prestazione ricevuta e, pertanto, il rischio di tale situazione ricade sull'altro contraente che in mala fede abbia contrattato con l'incapace e possa vedersi rifiutata la restituzione della sua prestazione ove non provi che di essa l'incapace abbia tratto vantaggio».

In questo citato precedente del 1975 l'onere di provare che l'incapace ha utilmente sfruttato il denaro ricevuto ricade sul contraente in mala fede. Con ciò lasciando intendere che, viceversa, ove il contraente capace sia in buona fede, non possa subire «il rischio […] che l'incapace possa aver dissipato la prestazione ricevuta».

Tale citazione è senza dubbio contraddittoria col resto della pronuncia e deve ritenersi inopportuna. Infatti, il dispositivo della sentenza in esame, conclude con l'accoglimento del secondo motivo del ricorso, ossia per l'irrilevanza dello stato soggettivo del contraente capace. Ci si trova comunque, innegabilmente, di fronte a due dati oggettivamente contrastanti all'interno di una pronuncia che poteva fare molta più chiarezza in una materia già controversa.

In conclusione

È ancora impossibile determinare con certezza quanto debba restituire l'incapace che si obbliga personalmente.

Tuttavia, è auspicabile che la giurisprudenza applichi con rigore la presunzione secondo la quale l'incapace non utilizza mai i soldi a proprio vantaggio, e consideri assolto l'onere probatorio contrario solo in presenza della prova di un utilizzo proficuo del denaro, non del suo mero incasso iniziale.

Infatti, tra le due posizioni da tutelare, quella maggiormente meritevole è senza dubbio quella dell'incapace, tanto più che nella pratica i contraenti capaci, specialmente quando sono in gioco grandi cifre, sono soggetti esperti. Il giudice dovrebbe quindi prestare particolare attenzione all'identità e la natura del contraente capace e valutare non tanto la sua mala fede, quanto una sua eventuale colpa grave nel non adottare la prassi di richiedere un estratto recente del certificato di nascita, nel quale risultano annotate eventuali procedure di tutela. Una giurisprudenza simile incentiverebbe questi soggetti (in particolare le banche, che non sempre richiedono questi documenti) a prestare maggiore attenzione nella scelta dei contraenti e preverrebbe anche l'inizio di cause di annullamento ai sensi dell'art. 1425 c.c.

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