Le azioni di responsabilità contro gli amministratori al tempo del Codice della crisi e dell’insolvenza

Stefano Bastianon
24 Aprile 2019

Il Codice della crisi e dell'insolvenza (CCI) rappresenta la più importante e radicale riforma della disciplina fallimentare codificata nel Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 e nelle successive modifiche. Tale riforma, proprio perché estesa all'intero settore del diritto concorsuale, tocca inevitabilmente anche fenomeni che trovano la loro disciplina sia nelle regole del diritto fallimentare (rectius, della crisi e dell'insolvenza), sia nelle regole del Codice civile. E' questo, ad esempio, il tema delle azioni di responsabilità contro gli amministratori per mala gestio. Nel presente lavoro, l'Autore si dà carico di illustrare le novità introdotte dal Codice della crisi e dell'insolvenza su questo specifica tema, cercando di analizzare analogie e differenze rispetto alla previgente disciplina.
Premessa

Per tutti gli “innamorati” del diritto fallimentare, quest'anno il giorno di San Valentino non ha deluso le attese. Lungamente atteso ed oggetto di dibattiti e commenti durante tutto il tempo della sua gestazione, il Decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 contenente la (nuova) disciplina delle situazioni di crisi o di insolvenza del debitore (consumatore o professionista) o dell'imprenditore (commerciale, artigianale o agricolo) individuale o collettivo è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale proprio il giorno dedicato a San Valentino.

Il Codice della crisi e dell'insolvenza (CCI) rappresenta la più importante e radicale riforma della disciplina fallimentare codificata nel R.D. 16 marzo 1942, n. 267 e nelle successive modifiche occorse nel corso degli ultimi settanta anni, sia sotto il profilo dell'impostazione normativa, sia sotto il profilo terminologico. La parola “fallimento, infatti, lascia il posto a concetti quali “crisi dell'impresa”, “insolvenza”, “liquidazione giudiziale” ed altri simili, nel dichiarato tentativo di eliminare “l'aura di negatività e di discredito, anche personale, che storicamente a quella parola si accompagna” secondo cui “anche un diverso approccio lessicale può meglio esprimere una nuova cultura del superamento dell'insolvenza, vista come evenienza fisiologica nel ciclo vitale di un'impresa, da prevenire ed eventualmente regolare al meglio” .

A tal fine, invero, ai sensi dell'art. 382 CCI, i termini "fallito" e "fallimento" previsti agli artt. 2288, 2308 e 2497 c.c. vengo opportunamente sostituiti. A mente dell'art. 2288 c.c., infatti, l'esclusione di diritto del socio viene prevista non già con riferimento al “socio fallito”, bensì al socio sottoposto ad una procedura di liquidazione giudiziale; analogamente, l'art. 2308 c.c. prevede quale causa di scioglimento della società non più la dichiarazione di “fallimento”, ma l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale; da ultimo, l'art. 2497 c.c. prevede che la legittimazione ad esperire l'azione di responsabilità dei creditori spetti al Curatore nel caso di liquidazione giudiziale (anziché di fallimento). Nello stesso senso deve leggersi l'abrogazione, a far data dall'entrata in vigore della nuova disciplina in tema di crisi di impresa e di insolvenza, dell'art. 2221 c.c. a mente del quale gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono assoggettati, in caso di insolvenza, alle procedure di fallimento e del concordato preventivo.

Sarebbe, tuttavia, oltremodo prematuro ed azzardato vedere nel nuovo Codice l'immediato tramonto e disapplicazione della precedente normativa. Da un lato, infatti, si osserva che la riforma, fatta eccezione per alcune, poche disposizioni che entrano in vigore entro 30 giorni dalla sua pubblicazione (vale a dire il 15 marzo 2019), entrerà in vigore soltanto il giorno di ferragosto del 2020, come previsto dall'art. 389, comma 1 CCI. Dall'altro lato, la disciplina transitoria di cui all'art. 390 CCI non lascia alcun dubbio sul fatto che, almeno nell'immediato futuro anche dopo l'entrata in vigore del nuovo Codice, la “vecchia” disciplina fallimentare continuerà a trovare applicazione. Ai sensi dell'art. 390, comma 1 CCI, infatti, i ricorsi per la dichiarazione di fallimento e le proposte di concordato fallimentare, i ricorsi per l'omologazione degli accordi di ristrutturazione, per l'apertura del concordato preventivo, per la liquidazione coatta amministrativa e le domande di accesso alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento depositati prima dell'entrata in vigore del nuovo Codice saranno definiti secondo le disposizioni della “vecchia” legge fallimentare e della Legge n. 3/2012. Lo stesso dicasi per tutte le altre procedure sopra menzionate pendenti alla data del 15 agosto 2020.

Per quanto riguarda, invece, le misure in vigore dal 15 marzo 2019 si segnalano gli artt. 27, comma 1 e 350 CCI sulla competenza per le procedure di amministrazione straordinaria ed i gruppi di impresse di rilevanti dimensioni; gli artt. 363 e 364 CCI in materia di certificazione dei debiti contributivi e dei premi assicurativi nonché quelli tributari; gli artt. 375, 377, 378 e 379 CCI in materia di modifiche agli assetti organizzativi dell'impresa, agli assetti organizzativi societari nonché alla responsabilità degli amministratori e alla nomina degli organi di controllo; gli artt. 356, 357 e 358 CCI in materia di istituzione e funzionamento dell'albo unico dei soggetti chiamati a svolgere le funzioni di curatore, commissario giudiziale e liquidatore; ed infine gli artt. 385 e 386 CCI in materia di garanzie a favore degli acquirenti di immobili da costruire.

Come si evince chiaramente dalle norme appena menzionate, il CCI non si limita a riscrivere le regole in materia di crisi dell'impresa e di insolvenza prima contenute nella legge fallimentare, ma interviene anche sul contenuto precettivo di alcune nome del Codice civile in materia di responsabilità degli amministratori di cui occorre dare conto, soprattutto in considerazione dell'anticipata entrata in vigore di tali disposizioni rispetto all'intero CCI.

I nuovi obblighi in materia di assetti organizzativi dell'impresa

La prima modifica apportata al Codice civile riguarda l'art. 2086, sia nella rubrica, sia nella parte precettiva. Quanto alla prima, dal concetto di "direzione e gerarchia dell'impresa" si passa a quello, decisamente più ampio, di "gestione dell'impresa". Per quanto riguarda, invece, la portata precettiva della nuova disposizione, viene aggiunto un secondo comma a mente del quale “l'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.

Dalla semplice analisi della portata letterale della norma risulta evidente la finalità perseguita dal legislatore della riforma di riprodurre su base più ampia, estesa cioè a tutti gli imprenditori organizzati in forma societaria o collettiva, la disciplina prevista dall'art. 2381 Codice civile in materia di società per azioni. Va da sé, inoltre, che il nuovo obbligo per tutte le società di dotarsi di un assetto organizzativo adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa in vista della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale deve essere letto alla luce dell'art. 13 CCI che, da un lato, individua gli indicatori della crisi e, dall'altro lato, pone in capo al CNDCEC l'onere di elaborare tali indicatori con specifico riferimento ad ogni tipologia di attività economica.

In base all'art. 13, comma 1 CCI “costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell'impresa e dell'attività imprenditoriale svolta dal debitore, tenuto conto della data di costituzione e di inizio dell'attività, rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l'esercizio in corso o, quando la durata residua dell'esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi. A questi fini, sono indici significativi quelli che misurano la sostenibilità degli oneri dell'indebitamento con i flussi di cassa che l'impresa è in grado di generare e l'adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi. Costituiscono altresì indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi, anche sulla base di quanto previsto nell'articolo 24” in tema di tempestività dell'iniziativa dell'imprenditore a prevenire l'aggrava crisi. A tal fine, il comma 2 stabilisce che “il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili, tenuto conto delle migliori prassi nazionali ed internazionali, elabora con cadenza almeno triennale, in riferimento ad ogni tipologia di attività economica secondo le classificazioni I.S.T.A.T., gli indici di cui al comma 1 che, valutati unitariamente, fanno ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell'impresa. Il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili elabora indici specifici con riferimento alle start-up innovative di cui al D.L. 18 ottobre 2012, n.179, convertito dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, alle PMI innovative di cui al D.L. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2015, n. 33, alle società in liquidazione, alle imprese costituite da meno di due anni. Gli indici elaborati sono approvati con decreto del Ministero dello sviluppo economico”. Peraltro, in considerazione della non contestuale entrata in vigore dell'art. 13 e dell'art. 375 (il primo fra 18 mesi e il secondo giorno fra 30 giorni), sarà interessante verificare le modalità con le quali le varie società operanti nei diversi settori economici provvederanno a dotarsi dei prescritti assetti organizzativi.

Al netto di tale considerazione, è di palmare evidenza la relazione tra la nuova formulazione dell'art. 2086 c.c. e la responsabilità degli amministratori. L'art. 377 CCI, infatti, modifica gli artt. 2257, 2380-bis, 2409-novies e 2475 c.c. prevedendo l'inserimento in tutti questi articoli del principio in base al quale la gestione dell'impresa deve svolgersi nel rispetto della disposizione di cui all'art. 2086, secondo comma, del Codice civile. Se, quindi, una sana e corretta gestione della società presuppone l'istituzione di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, qualsiasi violazione di tale precetto integra gli estremi di una mala gestio con conseguente responsabilità degli amministratori. Anche per questo motivo, lo scollamento previsto sotto il profilo temporale dell'entrata in vigore dell'art. 13 CCI e degli artt. 375 e 377 CCI appare censurabile.

La conferma dell'esperibilità dell'azione di responsabilità da parte dei creditori sociali nelle Srl

Per effetto delle nuove disposizioni e, in particolare, dell'art. 378 CCI, a decorrere dal 15 marzo 2019 all'art. 2476 c.c. dovrà essere aggiunto un quinto comma dal seguente tenore: “gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l'inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell'integrità del patrimonio sociale. L'azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. La rinunzia all'azione da parte della società non impedisce l'esercizio dell'azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l'azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi”. Tale disposizione riproduce letteralmente, nell'ambito della disciplina delle Srl, la regola contenuta nell'art. 2394 c.c. in materia di Spa. Di conseguenza, per effetto della modifica dell'art. 2476 c.c. viene finalmente colmato, sul piano legislativo, quel vuoto normativo frutto di un errore di coordinamento della normativa in tema di Srl emerso all'indomani della riforma del diritto societario ad opera del D. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. Come noto, infatti, nella disciplina in vigore prima della riforma apportata dal D. lgs. n. 6/2003 la responsabilità degli amministratori era disciplinata espressamente solo per le SpA e, in forza dell'espresso richiamo contenuto nell'art. 2487, comma 2, c.c. tale disciplina veniva ritenuta applicabile anche in materia di Srl. la stessa disciplina veniva applicata anche alle Srl. In seguito all'entrata in vigore del D. lgs. n. 6/2003, per contro, da un lato la disciplina della responsabilità degli amministratori delle Srl è stata condensata nell'art. 2476 c.c., prevedendo espressamente la responsabilità degli amministratori verso la società e verso il singolo socio ed il terzo, senza alcun riferimento all'azione dei creditori sociali; dall'altro lato, è stato abrogato il richiamo operato dall'art. 2487, comma 2, c.c. alla disciplina delle Spa, e quindi anche all'art. 2394 c.c. in tema di azione dei creditori sociali.

In un primissimo momento, tale intervenuta riforma è stata interpretata, sia dalla giurisprudenza di merito, sia da una parte della dottrina nel senso che il legislatore aveva voluto escludere l'azione dei creditori sociali dal novero delle azioni esperibili nei confronti degli amministratori delle Srl. Emblematica di tale approccio interpretativo è la sentenza del Tribunale di Milano del 25 gennaio 2006 secondo cui “per effetto della riforma del diritto societario, i creditori sociali non possono più esercitare l'azione nell'interesse sociale, come era previsto nell'art. 2394 c.c., oggi sostanzialmente non più riferibile alla disciplina della società a responsabilità limitata. Difatti, il disposto di cui all'art. 2476 c.c., che oggi regola e disciplina le azioni di responsabilità nell'ambito della società a responsabilità limitata, mentre prevede l'azione sociale esperibile dal singolo socio nell'interesse della società (e dunque anche del curatore per effetto del disposto di cui all'art. 146 l.fall.), non prevede più, tra le possibili azioni esperibili, quella dei creditori, bensì solo quella del terzo e del socio personalmente, che tuttavia possono solo far valere un proprio diritto risarcitorio nei confronti degli organi della società” (Trib. Milano, 25 gennaio 2006, in Dir. comm. soc., 3, 2007, 320)

Successivamente, tuttavia, la stessa giurisprudenza di merito ha optato per una lettura della riforma della disciplina delle Srl in chiave sistematica riconoscendo che “nonostante, dopo l'entrata in vigore della riforma del diritto societario, non vi sia più una normativa che espressamente disciplini l'azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società a responsabilità limitata per mancata conservazione del patrimonio sociale, si deve ritenere che tale azione sia comunque esperibile in virtù del divieto del neminem laedere di cui all'art. 2043 c.c. e che la legittimazione a proporla, in ipotesi di fallimento della società, spetti al curatore del fallimento in forza del rinvio "per relationem" contenuto nell'art. 146 l. fall.” (Trib. Biella 21 ottobre 2008 consultabile su www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/1639.pdf. Nello stesso senso v. Trib. Pescara 15 novembre 2006; Trib. Napoli 11 novembre 2004, in Le Soc., 2005; Trib. Napoli 12/5/2004 in Soc., 2005).

Tale radicale inversione di rotta è stata resa possibile dal rilievo secondo cui escludere la possibilità per i creditori sociali dalla possibilità di esperire l'azione di responsabilità sarebbe stato inconciliabile con il sistema di responsabilità degli organi gestori come delineato dalla riforma, dal momento che la disciplina della Srl non sarebbe più stata coordinata con quella di cui agli artt. 2485 e 2486 c.c., con quella dei gruppi e con la regolamentazione della responsabilità dei sindaci. Infatti, veniva messo in risalto il fatto che il creditore avrebbe potuto agire contro gli amministratori della Srl in stato di scioglimento ex art. 2486 c.c. ma non contro quelli della Srl operativa; il creditore avrebbe potuto agire contro la controllante della debitrice Srl e contro gli amministratori di quest'ultima (art. 2497 c.c.), ma non contro gli amministratori della Srl qualora essa non fosse stata soggetta a direzione e coordinamento; infine, in caso di Srl con collegio sindacale obbligatorio ex art. 2477 c.c. si sarebbe dovuta applicare la norma di cui all'art. 2407, comma 2, c.c. che richiama l'art. 2394 c.c., sicché i creditori di una Srl con collegio sindacale obbligatorio avrebbero potuto agire contro i sindaci per l'omesso controllo che avrebbe concorso a determinare l'insufficienza del patrimonio sociale, ma non - paradossalmente - contro gli amministratori che l'avrebbero direttamente provocata.

Nel senso illustrato dalla giurisprudenza richiamata ben presto si pose anche la maggioranza della dottrina secondo cui il curatore era legittimato ad esperire entrambe le azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contro amministratori e sindaci di una Srl assoggetta a fallimento in presenza atti di mala gestio (Corsi, Le nuove società di capitali, Milano, 2003, 240; Buonocore (a cura di), Manuale di diritto commerciale, Torino, 2004, 335; Grossi, La riforma della legge fallimentare, Milano, 2006, 1937; Santangeli (a cura di), Il nuovo fallimento, Milano, 2006, 659)

Infine, la perdurante possibilità per i creditori sociali di esperire l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una Srl è stata sancita anche dal giudice della legittimità. Ad avviso del Supremo Collegio, infatti, la questione interpretativa che aveva diviso dottrina e giurisprudenza di merito doveva “ritenersi superata dalla considerazione che la legge fallimentare, art. 146, nel suo testo originario, era destinato solo a riconoscere la legittimazione del curatore all'esercizio delle azioni di responsabilità comunque esercitabili dai soci o dai creditori nei confronti degli amministratori, indipendentemente dallo specifico riferimento agli artt. 2393 e 2394 c.c. E questa interpretazione risulta ora confermata dallo stesso legislatore, perché il nuovo testo della legge fallimentare, art. 146, come sostituito dal D. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 130, prevede semplicemente che il curatore è legittimato a esercitare le azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali e i liquidatori, della società fallita. Sicché il curatore può esercitare qualsiasi azione di responsabilità contro gli amministratori di qualsiasi società” (Cass. 21 Luglio 2010, n. 17121). Sulla scorta di tali considerazioni, il giudice della legittimità ha enunciato il seguente principio di diritto: “in tema di responsabilità degli amministratori di società a responsabilità limitata, la riforma societaria di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, che pur non prevede più il richiamo, negli artt. 2476 e 2487 c.c., agli artt. 2392, 2393 e 2394 c.c., e cioè alle norme in materia di società per azioni, non spiega alcuna rilevanza abrogativa sulla legittimazione del curatore della società a responsabilità limitata che sia fallita, all'esercizio della predetta azione ai sensi dell'art. 146 legge fall., in quanto per tale disposizione, riformulata dall'art. 130 del D.lgs. n. 5 del 2006, tale organo è abilitato all'esercizio di qualsiasi azione di responsabilità contro amministratori, organi di controllo, direttori generali e liquidatori di società, così confermandosi l'interpretazione per cui, anche nel testo originario, si riconosceva la legittimazione del curatore all'esercizio delle azioni comunque esercitabili dai soci o dai creditori nei confronti degli amministratori, indipendentemente dallo specifico riferimento agli artt. 2393 e 2394 c.c.”.

In tale contesto, pertanto, la nuova formulazione dell'art. 2476 c.c. ha il merito, tutt'altro che banale e meramente formale, di uniformare anche sotto il profilo della lettera della legge la disciplina in materia di azione dei creditori sociali prevista per le Spa e le Srl.

La quantificazione del danno

Nella stessa ottica di un necessario adeguamento della lettera della legge (c.d. law in book) al diritto vivente (c.d. law in action) deve essere letto il nuovo terzo comma aggiunto all'art. 2486 c.c. secondo il quale “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all'articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”.

La norma in esame, quindi, prevede, all'esito dell'accertamento della responsabilità degli amministratori:

a) una presunzione dell'entità del danno determinata attraverso il richiamo alla teoria della differenza dei netti patrimoniali;

b) la possibilità di fornire la prova di un diverso ammontare del danno;

c) nel caso di azione esperita dal Curatore, la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare nell'ipotesi in cui (per mancanza o irregolarità della scritture contabili o per altre ragioni) non sia possibile determinare i netti patrimoniali.

Anche con riferimento alla quantificazione del danno arrecato dagli amministratori, la nuova formulazione dell'art. 2486 c.c. costituisce la trasposizione sul piano normativo delle conclusioni cui da tempo, seppur gradatamente e non senza difficoltà, è approdata la giurisprudenza. Tuttavia, onde evitare facili semplificazioni e generalizzazioni, sembra opportuno svolgere le seguenti considerazioni anche al fine di cercare di tratteggiare con precisione l'effettivo ambito di applicazione della norma in questione. La nuova disposizione, infatti, in quanto inserita all'interno del 2486 c.c. deve intendersi riferita esclusivamente al danno arrecato per effetto dell'illecita prosecuzione dell'attività economica della società dopo il verificarsi di una causa di scioglimento. Ciò significa che, anche nella vigenza della nuova disciplina della crisi di impresa e dell'insolvenza, qualora si contesti agli amministratori il compimento di singoli, specifici atti di mala gestio che si ritengono illegittimi anche in una prospettiva di continuità aziendale, l'attore non potrà esimersi dal domandare soltanto il risarcimento dei danni che si presentano come conseguenza diretta ed immediata dei singoli e specifici atti di mala gestio. In altre parole, se si contesta uno o più atti distrattivi, non v'è dubbio che il danno risarcibile continuerà ad essere soltanto quella rappresentato dalla diminuzione patrimoniale subita a causa dell'operazione in questione; analogamente, in presenza dell'omesso pagamenti degli oneri fiscali e contributivi, colui che agisce in sede risarcitoria potrà unicamente pretendere un importo pari alla somma delle sanzioni e degli interessi che la società ha dovuto corrispondere.

Per quanto riguarda, invece, l'ipotesi specifica considerata dalla norma in esame (vale a dire, l'illecita prosecuzione dell'attività economica della società dopo il verificarsi di una causa di scioglimento), deve essere innanzitutto sottolineato che il nuovo terzo comma dell'art. 2486 c.c. non modifica in nulla i presupposti dell'imputazione di una simile responsabilità e i relativi oneri probatori. Di conseguenza, si ritiene che anche dopo il 15 marzo 2019 continueranno a trovare applicazione i principi sino ad oggi elaborati in ordine all'onere probatorio che grava sull'attore. Da un lato, pertanto, si dovrà dimostrare che, dopo la perdita del capitale sociale, gli amministratori hanno posto in essere iniziative imprenditoriali incompatibili con una logica meramente conservativa in violazione dell'art. 2486, comma 2, c.c. ed individuare tali singole iniziative; dall'altro lato, preso atto che “la natura dinamica e complessa dell'attività di impresa può rendere estremamente complesso il rispetto di questo onere di allegazione”, la prova della condotta illecita può essere ravvisata nella semplice “assenza di elementi di discontinuità rispetto ai caratteri che connotavano l'attività aziendale prima della perdita del capitale sociale. Ad esempio: i costi per acquisti di materie prime o per il personale dipendente sono rimasti per lungo tempo invariati; i macchinari hanno mantenuto nel tempo gli stessi indici di utilizzo; non vi sono state dismissioni di strumenti produttivi; il consumo di energia è rimasto costante, ecc.” (Mambriani, La prova del danno nelle azioni di responsabilità esercitate dal curatore fallimentare ex art. 146 l.f., consultabile su www.odcec.mi.it.

Il criterio del deficit fallimentare

Dove, invece, la nuova formulazione dell'art. 2486 c.c. interviene in modo più significativo, seppur codificando principi ormai da tempo elaborati dalla giurisprudenza, è il tema dei criteri di liquidazione del danno.

La norma contempla due distinti criteri. Il secondo, quello della differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare, ha una portata meramente residuale e trova applicazione soltanto in presenza delle seguenti condizioni cumulative:

  • apertura di una procedura concorsuale;
  • impossibilità di determinare i netti patrimoniali per:

a) mancanza delle scritture contabili;

b) irregolarità delle scritture contabili;

c) altri motivi.

Come noto, in materia di azioni di responsabilità contro amministratori (e sindaci) esperite dal Curatore sul presupposto dell'illegittima prosecuzione dell'attività imprenditoriale dopo il verificarsi di una causa di scioglimento (di regola rappresentata dalla perdita del capitale sociale), il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare quale parametro per quantificare il danno arrecato ha rappresentato il leitmotiv della giurisprudenza degli anni settanta ed ottanta. A partire dagli anni novanta, peraltro, il criterio del deficit fallimentare ha formato oggetto di forti critiche, sia da parte della dottrina che da parte della giurisprudenza secondo la quale il danno non può essere commisurato alla differenza tra attivo e passivo accertati in sede concorsuale in quanto lo sbilancio patrimoniale della società insolvente potrebbe avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali; ed in quanto questo criterio si pone in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare l'esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima ed il danno. Sennonché, quella stessa giurisprudenza che aveva estromesso il criterio del deficit fallimentare dalla finestra, lo faceva rientrare (parzialmente) dalla finestra riconoscendogli il ruolo di parametro di riferimento per la liquidazione equitativa del danno in tutti i casi nei quali fosse stato impossibile ricostruire i dati contabili (per mancanza o irregolare tenuta della contabilità), a patto che il giudice del merito indicasse le ragioni che non avevano permesso l'accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli ricollegabili alla condotta degli amministratori. La sostanziale unitarietà dell'accennato panorama giurisprudenziale viene incrinata per effetto di due sentenze della Corte di Cassazione del 2011 secondo le quali quando l'assoluta mancanza o l'irregolare tenuta della contabilità rendono impossibile al Curatore fornire la dimostrazione del nesso di causalità tra il comportamento illecito e il danno, non solo si verifica un inversione dell'onere della prova in relazione al predetto nesso di causalità, ma la stessa condotta degli amministratori, integrando la violazione di specifichi obblighi di legge, sarebbe da sola sufficiente a tradursi in pregiudizio per il patrimonio sociale corrisponde al deficit fallimentare (Cass. 11 marzo 2011, n. 5876; Cass. 4 aprile 2011, n. 7606). A dirimere tale contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni Unite nel 2015 con la sentenza n. 9100 la quale ha fissato i seguenti principi-chiave (Cass. sez. un., 6 maggio 2015, n. 9100):

a) la tenuta delle scritture contabili costituisce uno dei doveri gravanti sugli amministratori per cui il mancato rinvenimento di tali scritture da parte del Curatore giustifica l'allegazione dell'inadempimento di quel dovere;

b) sebbene il mancato rinvenimento delle scritture contabili (o la loro tenuta irregolare) non consenta al Curatore di ricostruire con sufficiente certezza le vicende che hanno condotto all'insolvenza e possa pertanto essere addotto come una causa di danno, tale sola circostanza non è di per sé sufficiente per giustificare che il pregiudizio ricollegabile alla condotta degli amministratori sia automaticamente pari al deficit fallimentare per l'ovvia considerazione che “la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l'attività dell'impresa, ma non li determina; ed è da quegli accadimenti che deriva il deficit patrimoniale, non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità”;

c) se la mancanza delle scritture contabili rende difficile per il Curatore una quantificazione ed una prova precisa del danno che sia di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all'amministratore della società fallita, lo stesso Curatore potrà invocare a proprio vantaggio la disposizione dell'art. 1226 c.c.e chiedere al giudice di provvedere alla liquidazione del danno in via equitativa. In tal caso, peraltro, pur non potendosi escludere che il giudice, proprio avvalendosi della facoltà di liquidazione equitativa, tenga conto in tutto o in parte dello sbilancio patrimoniale della società quale registrato nell'ambito della procedura concorsuale, al fine di evitare che tale possibilità si traduca nell'applicazione di un criterio arbitrario, sarà necessario che il giudice indichi le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta degli amministratori e sempre che il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

In tale panorama giurisprudenziale, il nuovo art. 2486 c.c. stabilisce, come già anticipato, che “se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”.

Da un punto di vista strettamente letterale deve essere evidenziato che la riforma sembra parzialmente discostarsi dai principi enunciati dalle Sezioni Unite nel 2015 nella misura in cui prevede che, in caso di mancanza o irregolarità nella tenute delle scritture contabili, il giudice possa liquidare il danno in misura pari al deficit fallimentare. In altre parole, per effetto della riforma sembra possibile affermare che nell'azione di responsabilità promossa dal Curatore nei confronti degli amministratori di una società, una volta che il Curatore abbia fornito la prova degli specifici inadempimenti addebitati agli amministratori, l'eventuale mancanza delle scritture contabili della società (o la loro inattendibilità) consente al giudice di liquidare il danno in misura pari al deficit fallimentare accertato. In altre parole, il criterio del deficit fallimentare cessa di essere visto come semplice parametro che il giudice può utilizzare per la liquidazione del danno secondo criteri equitativi, trasformandosi in vero e proprio criterio di liquidazione che, come tale, dovrebbe esonerare il giudicante dall'onere di dover indicare le ragioni per le quali si è fatto ricorso alla liquidazione in via equitativa.

Da ultimo, un cenno merita la prevista possibilità d ricorrere al criterio del deficit fallimentare nell'ipotesi in cui l'impossibilità di determinare i netti patrimoniali si riveli impossibile per “altri motivi”, diversi dalla mancanza o irregolarità delle scritture contabili. Nel silenzio della norma, per individuare questi altri motivi non sembra potersi fare altro che richiamare la giurisprudenza formatasi nel vigore della precedente disciplina che aveva individuato tali motivi nell'ipotesi in cui il dissesto poteva essere ricondotto direttamente ai comportamenti illegittimi dell'organo amministrativo sul presupposto che “anche una rigorosa applicazione delle regole sul nesso di causalità materiale ben giustifica la quantificazione del danno (in mancanza di prova di maggior pregiudizio) nella differenza fra attivo e passivo (senza che possano trovare ingresso considerazioni relative alla perdita di valore nella liquidazione) se, per fatto imputabile agli organi sociali, si sia venuto a determinare il dissesto della società e la conseguente sua sottoposizione a procedura concorsuale. Se, infatti, tra i comportamenti di amministratori e sindaci ed il dissesto vi è nesso eziologico, anche la liquidazione fallimentare ne è conseguenza diretta ed immediata” (Cass. 17 settembre 1997, n. 9252).

Il criterio (presuntivo) della differenza dei netti patrimoniali

Il primo criterio richiamato dal nuovo terzo comma dell'art. 2486 c.c., invece, richiama il concetto della differenza dei netti patrimoniali. Come noto, infatti, una volta esclusa qualsiasi possibilità di utilizzare il deficit fallimentare quale criterio di applicazione generale per la quantificazione del danno e relegatolo negli angusti ambiti prima ricordati, il criterio della differenza dei netti patrimoniali è divenuto il nuovo criterio di applicazione generale. Da questo punto di vista, pertanto, la riforma non aggiunge nulla di nuovo rispetto all'ormai consolidata prassi giurisprudenziale alla quale, pertanto, si dovrà ancora fare riferimento.

Come noto, il criterio in esame consiste nella differenza tra il patrimonio netto della società al momento del verificarsi della causa di scioglimento della stessa (PN1) ed il patrimonio netto della società al momento della messa in liquidazione (o della sentenza dichiarativa di fallimento, se non preceduta da fase di liquidazione) (PN2).

PN1 – PN2 = differenza netti patrimoniali

L'applicazione pratica di tale criterio impone, quindi, all'attore di individuare il momento a partire dal quale l'attività di impresa è proseguita illegittimamente. Tale momento può coincidere con la diminuzione del capitale sociale al di sotto dei limiti di legge (con conseguente obbligo per l'organo amministrativo di iscrivere la causa di scioglimento presso il Registro delle imprese e convocare l'assemblea dei soci per la messa in liquidazione della società), oppure con il determinarsi dello stato di insolvenza (con conseguente obbligo per l'organo amministrativo di presentare ricorso per la dichiarazione di fallimento in proprio). Come è stato evidenziato in giurisprudenza, “i due momenti possono non coincidere, ben potendo l'uno precedere l'altro. Un imprenditore può infatti essere insolvente ed avere ancora un patrimonio netto esuberante rispetto ai limiti minimi di legge o, al contrario, avere ancora la possibilità di accedere al credito, e quindi di pagare i propri fornitori, nonostante le perdite di esercizio abbiano eroso integralmente il patrimonio netto. La seconda operazione, più agevole della prima, consiste nell'individuare il momento della dichiarazione di fallimento o, se c'è stata, della messa in liquidazione antecedente alla dichiarazione di fallimento, e ciò al fine di calcolare la differenza tra il valore del patrimonio netto alla data iniziale, quella in cui l'attività di gestione caratteristica doveva cessare, ed il valore del patrimonio netto al momento finale in cui, per il fallimento (o per l'anteriore messa in liquidazione) la gestione caratteristica è effettivamente cessata” (così, Trib. Catania 22 gennaio 2015 in Il caso).

Si tratta, peraltro, di un criterio presuntivo, giacché è stato evidenziato che “non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell'attività d'impresa, potendo essa prodursi anche in pendenza di liquidazione o durante il fallimento in ragione del venir meno dell'efficienza produttiva e dell'operatività dell'impresa.” (Cass. 23 giugno 2008, n. 17033). Da qui, la perdurante necessità anche dopo la riforma, di fare corretta applicazione dei correttivi da tempo individuati per rendere sostanzialmente omogenee le situazioni patrimoniali da comparare. In quest'ottica, è stato sottolineato che “la situazione patrimoniale iniziale, oggetto del raffronto, va depurata delle poste dell'attivo la cui valorizzazione si giustifichi esclusivamente in una prospettiva di continuità aziendale. Inoltre le rettifiche operate sul primo bilancio, quali tipicamente quelle effettuate per correggere omesse svalutazioni di voci attive finalizzate ad occultare una perdita, vanno ripetute anche sul secondo bilancio posto in comparazione (ad es. un credito inesigibile, eliminato come tale dalla situazione patrimoniale iniziale, va eliminato anche dalla situazione patrimoniale successiva). Analogamente poiché l'attività di mera liquidazione implica costi ed oneri ineliminabili che non potranno essere imputati a titolo di danno, questi dovranno essere oggetto di rettifica in diminuzione della seconda situazione patrimoniale” (ODCEC PISA, Commissione studio – Diritto Societario, La responsabilità degli organi sociali, consultabile su http://www.odcecpisa.it/images/odcec/documenti/commissioni/societario/RELAZIONE.pdf). In linea con tale impostazione, la giurisprudenza ha chiarito che l'utilizzo del criterio della differenza dei netti patrimoniali non può mai prescindere dai seguenti “due dati ineludibili: a) non è imputabile agli organi sociali lo sbilancio antecedente la perdita del capitale sociale, perché effetto di attività economica svolta lecitamente; b) è essenziale la quantificazione dell'abbattimento che il patrimonio netto avrebbe comunque subito se la società fosse stata tempestivamente posta in liquidazione a seguito della perdita del capitale sociale. Come noto, infatti, la sola messa in liquidazione della società – implicando il mutamento della finalità dell'attività economica e gestionale svolta, non più in continuità aziendale, ma appunto a scopo liquidatorio – comporta, secondo la dovuta applicazione dei relativi principi contabili (OIC 5, par. 4.1. e ss), una consistente svalutazione degli asset aziendali attivi, lo storno di alcune poste attive e l'emersione di alcune particolari poste passive, nonché lo svolgimento di un periodo di liquidazione, più o meno lungo e complesso a seconda del tipo di attività svolto, il cui risultato economico, per lo più fisiologicamente negativo, deve essere considerato” (Trib. Milano, 27 ottobre 2015, n. 12000).

Provando a tradurre in termini operativi queste indicazioni della dottrina e della giurisprudenza si può affermare che il Curatore dovrà:

a) depurare la situazione patrimoniale iniziale, oggetto di raffronto, delle poste dell'attivo la cui valorizzazione può giustificarsi soltanto in un'ottica di continuità aziendale: al riguardo si pensi, ad esempio, alle poste relative all'avviamento, alle immobilizzazioni immateriali e agli ammortamenti;

b) operare sul primo bilancio le rettifiche necessarie per correggere omesse svalutazioni di voci attive finalizzate ad occultare una perdita;

c) riproporre queste stesse rettifiche anche nel secondo bilancio posto in comparazione;

d) tenere nella giusta considerazione tutti quei costi ce avrebbero dovuto essere affrontati anche nell'ipotesi di tempestiva messa in liquidazione della società: si pensi, ad esempio, ai dipendenti che sarebbero comunque rimasti in forza alla società, ai canoni di locazione dei locali, ai canoni di leasing, ai costi per le prestazioni professionali connesse e necessarie alla fase di liquidazione, ecc).

In tal senso, pertanto, deve essere letto l'inciso (peraltro scarno) contenuto nella riforma per cui il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all'art. 2484 c.c., detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione”.

Anche nel contesto della nuova disciplina introdotta dal D. lgs. n. 14/2019 il criterio della differenza dei netti patrimoniali continua a rivestire la natura di criterio presuntivo, con l'ulteriore conseguenza per cui, in linea di principio, sul Curatore grava sempre l'onere di indicare le operazioni poste in essere in una prospettiva di continuità aziendale non consentita che hanno leso l'integrità del patrimonio sociale. Non a caso, infatti, in base alla nuova formulazione del terzo comma dell'art. 2486 c.c., da un lato, la quantificazione del danno sulla base del criterio della differenza dei netti patrimoniali “si presume”, mentre, dall'altro lato, è sempre ammessa la prova “di un diverso danno”. Sennonché, come è stato sottolineato in giurisprudenza, tale onere di allegazione si traduce in una probatio diabolica ogni qualvolta il curatore accerti la risalenza nel tempo del momento in cui collocare la perdita del capitale rispetto al momento dell'apertura del concorso dei creditori, soprattutto se l'attività di impresa è stata varia e complessa (Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032).

Peraltro, poiché nella quasi totalità dei casi è proprio questa la situazione nella quale si trovano ad operare i curatori, è ragionevole prevedere che, anche nella vigenza della riforma, il criterio in esame diventerà il criterio standard di applicazione quasi meccanica.

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