Anche i comportamenti contrari a lealtà tenuti dopo il divorzio incidono sul diritto all'assegno?
07 Maggio 2019
Massima
L'assenza del nesso di causalità tra il divario economico-patrimoniale e le scelte di vita in costanza di matrimonio esclude la componente compensativa riequilibratrice che l'assegno divorzile è chiamato a svolgere. Dalla funzione composita assistenziale-perequativa e riequilibratrice dell'assegno deriva la rilevanza dei comportamenti successivi allo scioglimento del matrimonio poiché il principio di libertà e autoresponsabilità che deve improntare anche gli effetti economici conseguenti lo scioglimento del vincolo matrimoniale non può essere unidirezionale, cioè gravante esclusivamente sull'ex coniuge obbligato, bensì deve connotare anche la condotta dell'altro nell'ottica di un comportamento di reciproca lealtà. Il caso
Tizio chiedeva la revoca dell'assegno divorzile per Caia quantificato in 9.000 euro, in modifica delle condizioni della sentenza di scioglimento del matrimonio del Tribunale di Milano riformata dalla Corte d'Appello, adducendo, a fondamento della domanda, da un lato comportamenti della ex moglie successivi alla pronuncia di divorzio contrari a lealtà, dall'altro la ritenuta autonomia economica della ex moglie, attesa la capacità reddituale e lavorativa dalla stessa vantata sui social network, le competenze e la professionalità riconosciute anche dalla pronuncia di divorzio e le ingenti somme versatele da Tizio dopo la separazione. Il Tribunale, all'esito di una delicata e articolata istruttoria, richiamando i principi sanciti dalla pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Uniten. 18287/2018, che fungono da guida interpretativa anche nei giudizi di revisione in presenza di fatti nuovi allegati e provati, a parziale modifica della sentenza di scioglimento del matrimonio revoca l'assegno divorzile per l'ex moglie. La questione
Le questioni poste dalla decisione in commento sono due: da un lato, l'assunzione della decisione in tema di modifica delle condizioni di divorzio alla luce dei principi sanciti dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018, una volta appurata la sussistenza del quid novi; dall'altro, tenuto conto della ratio della funzione composita dell'assegno divorzile, il riconoscimento della rilevanza dei comportamenti tenuti dagli ex coniugi dopo lo scioglimento del vincolo (nella specie l'uso del cognome del marito anche sui social network nonostante il divieto già in precedenza imposto con la sentenza di divorzio) in quanto il principio di libertà e autoresponsabilità post matrimoniale non può essere unidirezionale ma deve connotare la condotta di entrambi gli ex coniugi nell'ottica della lealtà che connota l'assegno divorzile attesa la sua funzione composita, assistenziale perequativa e riequilibratrice. Le soluzioni giuridiche
Premessa la sussistenza del quid novi quale presupposto per la revisione delle condizioni di divorzio ex art. 9 l. n. 898/1970 (nella specie ravvisabile nei comportamenti della ex moglie successivi alla pronuncia delle condizioni di divorzio quali l'uso abusivo di una carta di credito intestata al marito, l'uso continuato del cognome del marito nonostante il divieto imposto dalla sentenza di scioglimento del matrimonio, la denigrazione dell'immagine e della persona dell'ex coniuge attraverso i social network, il tutto in violazione del dovere di solidarietà post coniugale, ma anche la ritenuta autonomia economica dell'ex moglie attesa la capacità reddituale e lavorativa dalla stessa vantata sui social network, le competenze e professionalità riconosciute anche con la sentenza di divorzio e che dovevano essere impiegate, oltre alle ingenti somme versate dall'ex marito dopo la separazione), il Tribunale afferma che la decisione anche nel caso di specie deve essere assunta alla luce dei principi sanciti dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 18287/2018, conformandosi alla giurisprudenza pregressa in forza della quale nei giudizi di modifica delle condizioni di divorzio, il Giudice, in presenza di fatti nuovi allegati e provati, deve condurre la valutazione ed assumere la decisione alla luce del novum interpretativo dettato dalla suddetta sentenza (così Cass. n. 15481/2018, secondo cui la nuova interpretazione dell'art. 5 l. n. 898/1970 può incidere ma solo all'imprescindibile condizione che la riconsiderazione della situazione possa legittimamente fondarsi sulla sopravvenienza di un fatto idoneo a modificare il quadro delle circostanze sostanziali su cui si era formato il giudicato secondo la nota clausola di salvaguardia rebus sic stantibus). Il Collegio ripercorre quindi i passaggi più significativi della sentenza delle Sezioni Unite che ha composto il contrasto che si era venuto a creare tra l'interpretazione giurisprudenziale dell'art. 5 comma 6 l. n. 898/1970 offerta dalle pronunce a Sezioni Unite n. 11490 e 11492 del 1990, costantemente applicata per un trentennio, che rapportava al tenore di vita pregresso il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del richiedente l'assegno divorzile, e quella elaborata da Cassazione sez. I n.11504/2017 facente leva sul raggiungimento dell'autosufficienza e dell'indipendenza economica della parte richiedente, seguita da un nutrito filone giurisprudenziale successivo, mettendo in luce, in particolare, i nuovi principi di diritto sanciti, vale a dire 1) il superamento della dicotomia tra an e quantum, 2) la funzione composita, assistenziale-perequativa e riequilibratrice dell'assegno divorzile. Il Supremo consesso, com'è noto, offre una lettura dell'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970 diversa rispetto al passato, giungendo a individuare un criterio elastico e integrato, definito assistenziale-compensativo, concreto e idoneo ad adeguarsi ai molteplici modelli familiari. Presupposto dell'iter logico della Corte è la centralità, nella vita matrimoniale, ma anche in quella successiva allo scioglimento del vincolo, del principio costituzionale espresso dall'art. 29, vale a dire di un matrimonio fondato sull'uguaglianza, la solidarietà, la pari dignità tra i coniugi, la libertà di scelta inclusa la reversibilità della scelta matrimoniale. A tale canone costituzionale vanno rapportati i principi di autoresponsabilità e autodeterminazione: i criteri sanciti nell'incipit dell'art. 5 esprimono e sottolineano l'immanenza del principio di autoresponsabilità, atteso che le scelte liberamente compiute dai coniugi durante il matrimonio relativamente ai compiti e ai ruoli assolti all'interno della famiglia determinano il modello di vita familiare prescelto hanno una incidenza anche dopo la crisi coniugale, poiché eventuali rinunce o limitazioni del percorso professionale si riflettono sulla posizione economico patrimoniale anche post matrimoniale, a vanno quindi considerate al momento dell'accertamento del diritto alla corresponsione dell'assegno divorzile. Ne deriva la necessità di superare e abbandonare il cd. giudizio bifasico seguito in passato, ossia la ripartizione tra criteri attributivi e determinativi, dovendo il Giudice fondare l'accertamento (e la quantificazione) del diritto all'assegno sugli indicatori contenuti nella prima parte dell'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970 in quanto rivelatori della declinazione del principio costituzionale di solidarietà posto alla base del giudizio relativistico e compartivo di adeguatezza. Il giudizio di inadeguatezza dei mezzi va quindi parametrato a tutti gli indici contenuti nell'art. 5 l. n. 898/1970, ossia va ancorato alle reali scelte di condizione della vita familiare e alla ripartizione endofamiliare dei ruoli, valorizzando il contributo (deciso comunemente durante la vita matrimoniale) offerto dal coniuge che risulti economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune e di quello di ciascuno dei due, anche in relazione alle potenzialità future. Ne deriva il secondo principio di diritto richiamato dal provvedimento in oggetto con riferimento alla nota sentenza delle Sezioni Unite, vale a dire che l'assegno divorzile svolge sì una funzione assistenziale ma anche perequativa - riequilibratrice - compensativa (espressa appunto dai criteri menzionati nell'incipit del sesto comma dell'art. 5 l. n. 898/1970), sempre in rapporto alla durata del matrimonio, che è fattore di fondamentale importanza nella valutazione del contributo dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune e/o dell'altro coniuge. Sicchè, ribadiscono le Sezioni Unite, la funzione equilibratrice dell'assegno non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma soltanto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole nei termini anzidetti. Il Tribunale conclude quindi l'analisi dei passaggi più significativi della sentenza delle Sezioni Unite indicando i passaggi logici dell'accertamento giudiziario (accertamento della disparità economica tra le due situazioni, nesso di causalità tra la disparità e le scelte di vita familiare e di sacrificio di aspettative professionali e reddituali, tenuto conto della possibilità per il richiedente l'assegno di recuperare il divario per le potenzialità professionali e lavorative, specie in ragione dell'età e delle condizioni del mercato del lavoro, valutazioni tutte da rapportare alla durata del matrimonio) e prosegue applicando i principi di diritto al caso di specie. La sentenza di divorzio, risalente al 2012, aveva messo in luce la rilevante disparità economica tra le parti e la misura dell'assegno (6000 euro poi elevati a 9000 euro dalla Corte d'Appello) era stata quantificata al fine di garantire il tenore di vita matrimoniale, ciò coerentemente all'interpretazione giurisprudenziale unanime dell'art. 5 l. n. 898/1970 all'epoca vigente. Ma dalla medesima sentenza emergeva anche che il divario economico non era riconducibile alle scelte di vita e ai sacrifici professionali della moglie durante il matrimonio, durato poco più di cinque anni, non avendo la coppia avuto figli e risultando anche che la moglie per qualche anno aveva lavorato, era in possesso di ben due lauree, parlava due lingue, e quindi era dotata di comprovata professionalità e competenza non messa tuttavia a frutto dopo la separazione; di contro era emerso che il l'ex marito aveva incrementato la propria posizione economico patrimoniale dopo la separazione e solo grazie alla propria competenza e professionalità. Prosegue il Collegio osservando che anche all'attualità, pur a fronte delle sopravvenienze rappresentate dalle parti, inclusa la cessazione da parte dell'ex marito del ruolo di amministratore delegato senza percepire emolumenti ma considerata la possibilità di reperire altre analoghe opportunità professionali, sussiste, per quanto più marginale, una disparità economica tra gli ex coniugi. L'ex moglie, dal canto suo, ha continuato a non lavorare (ndr. pur avendo l'astratta possibilità di farlo, essendo in possesso di comprovata professionalità e in età non avanzata) , beneficiando del cospicuo assegno divorzile e delle ulteriori ingenti somme versate dall'ex marito tra la separazione e il divorzio. Ecco che, in modo più che condivisibile, il Tribunale ritiene pacifica l'assenza del nesso di causalità tra il divario economico patrimoniale attuale e le scelte di vita endoconiugali dell'ex moglie, che non ha sacrificato alcunchè e non ha contribuito in alcun modo alla costituzione del patrimonio dell'ex marito. L'assegno divorzile nel caso di specie non svolge quindi la funzione compensativa riequilibratice, giudicata preminente, ma neppure, sempre secondo il ragionamento condotto dal Supremo consesso, residua alcun margine in relazione alla funzione assistenziale, essendo emerso in corso di causa che l'ex moglie disponeva di mezzi adeguati per provvedere a sé stessa (in particolare erano emerse consistenti e regolari provviste di denaro sul conto corrente, costituite da versamenti su sportello, vari bonifici, disponibilità pervenute in conseguenza alla vendita di due unità immobiliari ereditate al decesso della madre, oltre al TFR riconosciutole a seguito di sentenza del Tribunale di Milano, avverso la quale pendeva appello per la rivendicazione ulteriore di una quota dell'incentivo all'esodo versate sul fondo di previdenza complementare del marito). Interessante è la rilevanza attribuita alla relazione affettiva stabile e continuativa della donna con una terza persona, autrice di buona parte delle elargizioni economiche, e ciò a prescindere dall'esistenza di una convivenza. Sul punto, il decreto in commento si allinea ad alcune recenti pronunce di merito (Trib. Como ordinanza 12 aprile 2018, Trib. Milano 30 gennaio 2018) secondo le quali una stabile relazione affettiva pur senza convivenza può comportare l'eliminazione definitiva dell'assegno divorzile, poiché la volontà di intraprendere una nuova relazione sarebbe espressione di una libera scelta che andrebbe a recidere ogni collegamento con il precedente matrimonio, e di conseguenza andrebbe ad escludere definitivamente la solidarietà post coniugale. Detto filone giurisprudenziale, va detto, si discosta dall'orientamento della Suprema Corte, ribadito anche di recente (Cass. civ., ord. n. 2732/2018, Cass. civ., sent. 23 ottobre 2017 n. 25074), secondo cui solo la convivenza duratura e stabile elimina la solidarietà post coniugale tra ex coniugi ed è idonea a giustificare in via definitiva la cessazione dell'assegno divorzile. In conclusione, in aggiunta agli argomenti sopra esposti già di per sé sufficienti, a parere del Tribunale, a revocare l'assegno divorzile, se ne aggiunge uno ulteriore e dirimente, alla luce della funzione composita dell'assegno divorzile, ossia la rilevanza dei comportamenti tenuti dall'ex moglie successivamente allo scioglimento del matrimonio, e in particolare l'uso del cognome dell'ex marito sui social network, nonostante la sentenza di divorzio avesse espressamente respinto la sua domanda di continuare ad usarlo. E ciò perché, si legge nel decreto «il principio di libertà e autoresponsabilità che deve improntare anche gli effetti economici conseguenti lo scioglimento del vincolo matrimoniale, non può essere unidirezionale, ovverosia gravante unicamente sull'ex coniuge obbligato, ma deve connotare anche la condotta dell'ex coniuge beneficiario nell'ottica di un comportamento di lealtà che non può non connotare per entrambe le parti questa peculiare obbligazione economica, attesa appunto la sua funzione». Osservazioni
Il provvedimento in commento offre lo spunto per diverse considerazioni. In primo luogo, la rilevanza attribuita al comportamento successivo alla sentenza di divorzio, posto in essere dall'ex moglie, che ha continuato ad usare il cognome maritale in spregio all'espresso divieto giudiziale, quale palese manifestazione di contrarietà al dovere di lealtà che deve essere reciproco tra ex coniugi. Lealtà, quindi, quale espressione anche del principio di libertà e autoresponsabilità, che vigono durante il matrimonio, al momento dello scioglimento (allorchè tutti i criteri indicati dall'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970 vanno considerati dal Giudice in quanto intrinsecamente pregni proprio dell'autoresponsabilità che connota il modello di relazione matrimoniale costituzionalmente rilevante) ma anche successivamente, allorchè un comportamento che con i medesimi contrasti finisce per rilevare anche quale fatto innovativo e giustificativo della revisione della sentenza di divorzio. Si consenta in proposito una riflessione: la valenza del comportamento post divorzile contrario a lealtà e idoneo a corroborare l'eliminazione dell'assegno divorzile per il coniuge sleale, finisce per connotare detto emolumento di un significato latamente premiale, laddove la sanzione connessa al comportamento contrario ad autoresposabilità è la perdita del diritto all'assegno già in precedenza riconosciuto. Se una simile considerazione fosse condivisibile, si aprirebbero spiragli nuovi per diverse e ulteriori ponderazioni sulla funzione dell'assegno divorzile. Sotto diverso profilo, si osserva come il Tribunale paia individuare, tra le diverse funzioni dell'assegno post matrimoniale, quella equilibratrice perequativa come preponderante, laddove da una panoramica della giurisprudenza di merito successiva alla sentenza delle Sezioni Unite, parrebbe trarsi il contrario ossia la predominanza della funzione assistenziale, nel senso che la funzione compensativa e perequativa operano solo in favore dell'ex coniuge bisognoso di assistenza (si veda ad esempio Trib. Torino 9 novembre 2018). D'altro canto la funzione compensativa perequativa non opera nei casi, come quello in esame, in cui un coniuge non abbia contribuito alla formazione del patrimonio comune e/o dell'altro coniuge, mettendo fuori gioco chi sposa una persona già abbiente. In questo senso, paradossalmente, il criterio del tenore di vita premiava maggiormente il coniuge richiedente l'assegno.
|