Codice Civile art. 1325 - Indicazione dei requisiti.

Gian Andrea Chiesi

Riferimenti normativi:
art. 1321 - Nozione. [ 25 prel.]
art. 1326 - Conclusione del contratto.
art. 1343 - Causa illecita.
art. 1344 - Contratto in frode alla legge.
art. 1345 - Motivo illecito.
art. 1346 - Requisiti.
art. 1350 - Atti che devono farsi per iscritto.
art. 1418 - Cause di nullità del contratto.


Indicazione dei requisiti.

[I]. I requisiti del contratto sono:

1) l'accordo delle parti [1326 ss.];

2) la causa [1343 ss., 1895];

3) l'oggetto [1346 ss.];

4) la forma, quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità [1350 ss.].

Inquadramento

L'art. 1325 c.c. indica quali sono gli elementi essenziali che, contrapponendosi a quelli accidentali (termine, condizione, onere), devono necessariamente esistere affinché si possa discorrere di contratto.

Per la dottrina più risalente, la norma andrebbe letta in combinato disposto con l'art. 1418 c.c., che sancisce la nullità del contratto qualora l'atto difetti di uno dei requisiti indicati, per l'appunto, nell'art. 1325 c.c. (Osti, 500). Per le teorie più recenti, al contrario, la disposizione sarebbe priva di qualunque portata precettiva ed avrebbe un valore meramente ricognitivo, nel senso che non avrebbe altra funzione che anticipare e riassumere, in termini costruzionistici, i principali problemi e criteri della disciplina giuridica della materia (Scognamiglio, 65). Una parziale rilettura di tale impostazione ha infine portato a leggere la norma in combinato disposto con l'art. 1321 c.c. giacché, riportando l'elenco dei requisiti necessari per l'esistenza del contratto, entrambe concorrerebbero alla sua definizione

L'accordo

L'accordo contemplato dall'art. 1325, n. 1 e dal precedente art. 1321 c.c., quale fondamento e sostanza del contratto, viene raggiunto attraverso l'incontro delle volontà delle parti coinvolte nell'operazione negoziale. Ciò può avvenire: a) secondo lo schema «base» fornito dall'art. 1326 c.c. e, dunque, mediante lo scambio di proposta ed accettazione tra persone lontane (tale è, invero, il presupposto della norma in esame, come si evince dai commi 1 e 2 della menzionata disposizione), variamente «mitigato» o, meglio, adattato, alle varie tipologie di contratti contemplati dagli artt. 1327, 1332, 1333 e 1341 c.c.); b) mediante la elaborazione del testo contrattuale ad opera delle parti contestualmente presenti ovvero di un terzo (che sottoponga loro uno schema di contratto, cui le parti medesime dichiarino di aderire); c) mediante la previsione, in aggiunta al consenso quale elemento essenziale al perfezionamento della fattispecie, della consegna del bene oggetto della prestazione (cd. contratti reali ovvero che re perficiuntur) — ciò è quanto è previsto, ad esempio, nel caso del mutuo (cfr. art. 1813 c.c., sia pure con alcune perplessità: si rimanda, in proposito, al relativo commento), del comodato (cfr. art. 1803 c.c.), del deposito (art. 1766 c.c.) del contratto estimatorio (art. 1556 c.c.) — nel senso che, anteriormente alla traditio, il contratto non sarebbe radicalmente nullo ma in itinere, ossia in fase di formazione (Messineo, 1961, 883).

L'accordo rappresenta, in sostanza, l'espressione della volontà delle parti di creare un vincolo e conseguentemente di concludere il contratto: esso rappresenta «l'esternazione dell'elemento soggettivo e psicologico della parte: la sua manifestazione di volontà diretta a realizzare uno scopo, un determinato interesse pratico che viene rivestito delle forme della giuridicità del vincolo e, come tale, protetto dalla legge se l'ordinamento lo reputa meritevole di tutela. Da qui la fondamentale rilevanza che assume l'indagine sulla volontà del soggetto agente, la quale deve essere libera, cosciente e consapevole, poiché la volontà è determinante degli effetti, con la conseguenza che se la volontà comunque manca, il contratto è nullo; se invece il soggetto agente è incapace (art. 1425 c.c.), o la sua volontà è viziata (da errore, violenza, dolo: artt. 1427 c.c. e ss.) o sussistono turbative della sua volontà (ad esempio, la minaccia di far valere un diritto: art. 1438 c.c.; ovvero lo stato di necessità: art. 1447 c.c.), o forme di divergenza tra quanto voluto e quanto dichiarato, allora il contratto è annullabile o inefficace (artt. 1441 c.c. e ss.)» (Gabrielli, 2018).

Nel contratto, dunque, non solo l'azione, al pari di quanto avviene negli atti giuridici, è voluta dal soggetto agente, ma è l'espressione di una volontà diretta ad uno scopo e, cioè, la produzione di determinati effetti materiali e giuridici.

Sotto diverso — ma concorrente — profilo, va infine evidenziato come l'accordo non sempre viene raggiunto semplicemente, spesso richiedendo, al contrario, lunghi e complessi incontri tra le parti, che prendono il nome di trattative: esse si collocano, dunque, in una fase preliminare a quella costitutiva del contratto, pur non mancando di riverberare i propri effetti su di un contratto validamente concluso, giacché la violazione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nel loro svolgimento (cfr. art. 1337 c.c.) assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche, quale dolo incidente (cfr. art. 1440 c.c.), se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto (Cass. I, n. 19024/2005)

La causa

Si suole distinguere, in dottrina, tra chi, seguendo lo schema della Relazione del Guardasigilli al Re, identifica nella causa la funzione economico sociale del contratto (cd. causa in astratto), per cui essa non si identifica con lo scopo soggettivo perseguito dalle parti nel caso concreto, identificandosi, piuttosto, nella ragione giustificativa apprezzabile in base ai principi cui si ispira l'ordinamento giuridico (Osti, 506) e chi, al contrario, ritiene che la causa debba essere indagata in una prospettiva soggettiva, quale funzione economico individuale che le parti perseguono con la conclusione dello specifico contratto (cd. causa concreta): la causa consisterebbe, dunque, nella ragione pratica del contratto, sì da dare rilevanza giuridica al complesso delle finalità perseguite dai contraenti (Carresi, 251). L'adesione all'una ovvero all'altra delle evidenziate impostazioni reca con sé conseguenze diverse: per i fautori della causa in astratto, il giudizio in ordine alla liceità è risolto alla base dal legislatore, mediante la determinazione dei connotati caratterizzanti del tipo contrattuale, con la conseguenza che l'elencazione delle caratteristiche essenziali dei contratti normativamente disciplinati risolverebbe già, in via preventiva e legislativa, il problema della valutazione, in termini positivi, della liceità dell'operazione conclusa dalla parti, valutazione di liceità ex art. 1343 c.c. che, a questo punto, concernerebbe unicamente i contratti innominati (Santoro Passarelli, 187). Per i fautori della causa in concreto, invece, i concetti di causa e tipo vanno diversificati, dovendo la valutazione di liceità ex art. 1343 c.c. coinvolgere anche i contratti tipici. In tale prospettiva si evidenzia che il tipo legale si identifica con l'astratto schema regolamentare contenente la rappresentazione di un'operazione economica ricorrente nella pratica commerciale, mentre la causa del contratto va ricercata, piuttosto, negli interessi concreti che i privati mirano a raggiungere mediante la concreta operazione economica prescelta, di modo che mentre l'indagine sul tipo è essenzialmente astratta e statica, quella sulla causa è esclusivamente concreta e dinamica. L'indagine sulla liceità della causa va dunque riferita al contratto concluso in concreto, sia esso un negozio tipico ovvero atipico: l'integrazione della causa illecita può riguardare, infatti, anche i contratti tipici, qualora un determinato schema negoziale sia in concreto utilizzato per il perseguimento di finalità contrarie ai principi giuridici ed etici fondamentali dell'ordinamento.

La mancanza o il vizio della causa rende l'atto nullo, totalmente (art. 1418 c.c.) o parzialmente (1419 c.c.), ovvero inefficace, se il vizio è sopravvenuto o successivo rispetto alla conclusione del contratto (art. 1448 ss. c.c.).

Richiamando un risalente orientamento propugnato da Cass. S.U., n. 63/1973, la quale sosteneva che la causa, come funzione economico-sociale del negozio, va intesa nei contratti tipici come funzione concreta obiettiva, che corrisponde ad una delle funzioni tipiche ed astratte determinate dalla legge, con la conseguenza che anche nei contratti tipici, avendo riguardo a detta funzione concreta, è concepibile una causa illecita, allorché le parti, con l'uso di uno schema negoziale tipico, abbiano direttamente perseguito uno scopo contrario ai principi giuridici ed etici fondamentali dell'ordinamento, conferma l'adesione alla impostazione dottrinaria da ultimo delineata anche la più recente giurisprudenza di legittimità, per la quale la causa del contratto costituisce la sintesi dei contrapposti interessi reali che le parti intendono realizzare con la specifica negoziazione, indipendentemente dall'astratto modello utilizzato (Cass. III, n. 8100/2013); causa del contratto — chiarisce ancora Cass. III, n. 23941/2009è lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (c.d. causa concreta), quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato. Ne consegue che, qualora le parti perseguano il risultato vietato dall'ordinamento non attraverso la combinazione di atti di per sé leciti ma mediante la stipulazione di un contratto la cui causa concreta si ponga direttamente in contrasto con le disposizioni urbanistiche e, in particolare, con i vincoli di destinazione posti dal locale piano regolatore, il contratto stipulato è nullo ai sensi dell'art. 1343 c.c. (per violazione, appunto, di disposizioni imperative) e non ai sensi dell'art. 1344 c.c. (Cass. III, n. 24769/2008). Sicché il giudice, nel procedere all'identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all'individuazione della disciplina che lo regola, deve procedere alla valutazione in concreto della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento per l'interprete della generale conformità a legge dell'attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell'art. 1343, ossia la liceità della causa, e dell'art. 1322, comma 2, ossia la meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l'ordinamento giuridico (Cass. III, n. 1898/2000).

La causa rappresenta, dunque, il profilo dinamico del contratto e «ne indica il momento di emersione degli interessi che, con riguardo alla singola operazione economica, le parti con quell'atto vogliono realizzare...la causa di un contratto non è la sua funzione economico-sociale, che si cristallizzerebbe per ogni contratto tipizzato dal legislatore (ciò che non spiegherebbe, a tacer d'altro, come un contratto tipico possa avere una causa illecita), ma è la sintesi degli interessi reali che il singolo, specifico contratto posto in essere è diretto a realizzare» (Gabrielli, 2780 ss.).

La causa va infine distinta dal motivo e, cioè, cioè dalla «pulsione psicologica e interna, che spinge il soggetto a compiere un determinato atto o a concludere un certo tipo di contratto» (Gabrielli). Il motivo è, infatti, normalmente irrilevante e non produce alcun vizio sul contratto, salvo che sia «un motivo illecito comune ad entrambe» le parti, che è stato determinate del consenso, poiché in tal caso esso determina la nullità del contratto (art. 1345 c.c.)

L'oggetto

Ogni contratto necessita, per la propria valida costituzione, di un oggetto, consistente, sostanzialmente, nel bene (o nell'utilità) alla cui realizzazione o al cui conseguimento l'accordo negoziale è preordinato.

La nozione, invero, non è pacifica in dottrina giacché, secondo una prima una prima ricostruzione l'oggetto del contratto andrebbe identificato con la prestazione (Osti, 503), chiarendosi che la nozione di prestazione, propria dei rapporti obbligatori, può comprendere non solo ciò che il soggetto si obbliga a fare o dare, ma anche ogni modificazione della situazione materiale che derivi dall'impegno assunto dalle parti nello stringere il vincolo contrattuale; «la prestazione è il comportamento che la regola impone o il risultato che alla stessa immediatamente consegue, laddove il singolo bene al quale la regola ha riguardo non è l'oggetto del contratto ma, piuttosto, l'oggetto della prestazione, la quale, a sua volta, deve essere individuata in concreto al fine di poter adempiere» (Gabrielli, 2780).

In senso contrario si osserva, invece, che, affinché possa essere riportato all'oggetto anche l'effetto traslativo del diritto, occorrerebbe necessariamente aderire ad una concezione oltremodo generica di prestazione, identificandola con il risultato dedotto nel rapporto obbligatorio, rendendo così difficile la distinzione tra prestazione e contenuto del contratto. Sicché altra impostazione individua l'oggetto del contratto nel contenuto dell'autoregolamento adottato dalle parti (Carresi, 372), mentre per un'ulteriore opinione esso corrisponderebbe al bene (o alla cosa) che mediante il contratto diventa materia di trasferimento o di godimento (Messineo, 836). In particolare, l'oggetto si distingue dalla prestazione e, anzi, si contrappone concettualmente ad essa, riferendosi quest'ultima al contenuto del rapporto obbligatorio e consistendo nel comportamento al quale il debitore è tenuto.

Le medesime difficoltà definitorie evidenziate in dottrina sono emerse in giurisprudenza, laddove ad un orientamento che identifica l'oggetto immediato con la prestazione, da valutare con riguardo al singolo atto di autonomia posto in essere dai privati (Cass. II, n. 19509/2012), si contrappone un diverso orientamento che rinviene l'oggetto del contratto nei beni che vengono scambiati, da non confondere con l'utilità che le parti conseguono attraverso tale scambio, utilità che considerata in rapporto alla funzione economico-sociale che il negozio è oggettivamente idoneo ad assolvere, costituisce la causa del contratto mentre, in rapporto alle finalità particolari e contingenti che la parte si ripromette di conseguire, ne configura il motivo (Cass. II, n. 6771/1991).

L'oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile (art. 1346 c.c.): tale precisazione appare importante, giacché l'art. 1325 c.c. descrive l'elemento, ma non le caratteristiche; la determinazione dell'oggetto può, infine, anche essere rimessa ad un terzo, il quale con l'arbitraggio (art. 1349 c.c.) potrà colmare la lacuna lasciata nel contratto in ordine a tale elemento, operandone la determinazione secondo il proprio mero arbitrio, ovvero procedendo con equo apprezzamento

La forma

Gli elementi illustrati in precedenza (volontà, causa ed oggetto) devono tuttavia assumere una forma esteriore, che abbia la funzione di fissare tali requisiti (1) a fini probatori e (2) per renderli, sul piano della pubblicità degli atti giuridici, conosciuti o conoscibili ai terzi, i quali possono avere interesse a quel contratto.

La forma del contratto è, dunque, il modo con cui esso si manifesta ovvero — in altri termini — il veicolo che esprime all'esterno l'accordo delle parti: ciò implica che una forma, come mezzo di comunicazione all'esterno della volontà delle parti, è sempre necessaria.

Ove sia inteso come manifestazione esterna o esternazione dell'atto, la forma si identifica con il regolamento negoziale in sé mentre, se inteso come mezzo espressivo o di formalizzazione con cui l'atto deve essere compiuto, individua un elemento essenziale del contratto, prescritto a condizione di validità dell'atto stesso nei soli casi previsti dalla legge.

A tali concetti corrisponde la distinzione tra dichiarazione e documento, nel senso che non necessariamente a dichiarazione viene incorporata in un documento (Cataudella, 106).

La previsione contenuta al n. 4 dell'art. 1325 c.c. (per cui la forma rappresenta elemento essenziale del contratto solo ove richiesta ad substantiam), implica la vigenza, nell'ordinamento giuridico italiano, del principio di libertà di forma, con conseguente validità dei contratti a forma libera, salve le eccezioni espressamente disciplinate. In altri termini, ai fini della validità del vincolo negoziale è sufficiente che la volontà si renda palese, estrinsecandosi in un qualsiasi modo sensibile, si dà potersi distinguere una volontà tacita (o per facta concludentia) da una espressa.

Il principio di libertà della forma patisce, tuttavia, numerose deroghe, a) richiedendosi per numerosi contratti una specifica forma vincolata, che assume ora la veste della scrittura privata, ora dell'atto pubblico, nonché b) prevedendosi, accanto alla forma scritta ad substantiam (quale requisito di validità dell'atto), una forma scritta ad probationem, richiesta allo scopo di assicurare, in giudizio, la prova dell'esistenza del contratto. Sicché il contratto stipulato senza l'osservanza di tale formalità è perfettamente valido ed efficace, ma di difficile dimostrazione, scontrandosi la realtà giuridica con i limiti alla prova testimoniale posti dall'art. 2725 c.c.

La scrittura privata è il documento, in qualunque modo redatto, e che deve essere sottoscritto dalle parti, giacché la sottoscrizione attribuisce ai relativi autori la paternità dell'atto, e «fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta» (cfr. l'art. 2702 c.c.). L'atto pubblico, invece, consiste nella redazione per iscritto, ad opera di un notaio o di un pubblico ufficiale, di un documento, al quale la legge attribuisce «pubblica fede», che raccoglie le dichiarazioni delle parti davanti a testimoni, e richiede alla fine della redazione del documento che lo stesso sia sottoscritto, oltre che dalle parti e dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, anche dai testimoni che alla redazione e confezione dell'atto hanno assistito (art. 2699 c.c.).

La giurisprudenza di legittimità riconosce pacificamente che il nostro ordinamento è governato dal principio di libertà delle forme (Cass. I, n. 25626/2017), con la conseguenza che le norme che prescrivono vincoli di forma costituiscono eccezione a tale principio (Cass. sez. lav., n. 2088/1994) e sono di stretta interpretazione, cioè insuscettibili di applicazione analogica (Cass. S.U., n. 3318/1995).

La giurisprudenza di legittimità si è di recente espressa in tema di contratti della P.A., segnatamente nell'ambito di quelli relativi alla concessione temporanea per occupazione di suolo pubblico, pronunciandosi in merito alla forma scritta ad substantiam quale requisito indefettibile per la stipulazione del contratto con il soggetto pubblico (Cass. S.U., n. 9775/2022). La Cassazione ha stabilito che affinché possa dirsi osservato il requisito formale è sufficiente l'incontro delle dichiarazioni scritte, espressione della volontà delle parti, anche manifestate separatamente e in momenti distinti, non essendo necessaria la redazione di un unico documento (così la Corte ha ritenuto validamente formato il vincolo contrattuale sorto sulla base dell'istanza del privato tesa ad ottenere la concessione, cui seguiva il rilascio del provvedimento medesimo da parte dell'amministrazione; provvedimento, quest'ultimo, che si atteggia ad accettazione della proposta negoziale del privato, dando luogo ad un'ipotesi di modello di formazione contrattuale compatibile con l'art. 17 del r.d. 2440 del 1923.

Sempre in relazione ai contratti della P.A., in particolare per quanto concerne i profili di responsabilità verso terzi estranei al rapporto tra quest'ultima e il professionista, la Cassazione, ribadendo il necessario requisito della forma scritta ad substantiam per i contratti stipulati con l'Amministrazione (nel caso di specie, contratto d'opera professionale), ancorché rientranti in un'attività svolta iure privatorum, evidenzia quanto ciò non rilevi quale causa di esclusione della responsabilità nei confronti dei terzi ma solo nel rapporto tra l'Amministrazione e il professionista (Cass. S.U., n. 13849/2023).

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Sommario