Codice Civile art. 1472 - Vendita di cose future.

Cesare Taraschi

Vendita di cose future.

[I]. Nella vendita che ha per oggetto una cosa futura [1348], l'acquisto della proprietà si verifica non appena la cosa viene ad esistenza. Se oggetto della vendita sono gli alberi o i frutti di un fondo, la proprietà si acquista quando gli alberi sono tagliati o i frutti sono separati [820 2].

[II]. Qualora le parti non abbiano voluto concludere un contratto aleatorio [1448 4, 1469], la vendita è nulla, se la cosa non viene ad esistenza.

Inquadramento

Per vendita di cosa futura si intende la vendita di un bene attualmente inesistente, in senso materiale o giuridico, come autonomo oggetto di diritti di godimento (Bianca, 372). Il comma 1 della norma in esame costituisce una specifica applicazione, al contratto di vendita, del principio enunciato nell'art. 1348 c.c. (Troiano, 473).

In particolare, la fattispecie in esame comprende: 1) le cose non ancora esistenti in natura (es.: produzione derivante da un futuro raccolto); 2) le cose che, seppur esistenti, non siano in proprietà di alcuno (res nullius) e siano suscettibili di occupazione (es.: i pesci di una futura retata); 3) i prodotti d'opera non ancora realizzati (es.: un immobile da costruire); 4) i prodotti naturali già esistenti, ma non ancora staccati dalla cosa madre e insuscettibili di proprietà separata (es.: frutti pendenti, minerali del sottosuolo) (Bianca, 373).

Anche in giurisprudenza risulta superata la tesi sostenuta da Cass. II, n. 4772/1989, secondo cui la vendita di cosa futura avrebbe per oggetto solo beni prodotti dalla natura (e non anche beni da costruire), come i frutti di un fondo, i parti degli animali o altre cose la cui venuta ad esistenza è considerata dai contraenti come incerta e non dipendente in modo esclusivo dalla volontà dell'uomo, ed in cui se la cosa non viene ad esistenza il contratto è nullo. Da tempo, invero, si è riconosciuto che anche la vendita di un edificio da costruire costituisce vendita di cosa futura (Cass. II, n. 7252/2006).

Secondo la tesi prevalente in dottrina, rientra nella fattispecie in esame anche la vendita di diritti futuri (anche relativi), ossia di diritti non ancora sorti, ma non anche l'alienazione di un diritto sospensivamente condizionato o di un'aspettativa (Bianca, 372; Luminoso, 46; Troiano, 481; contra, nel senso che costituirebbero diritti futuri anche quelli derivanti da fattispecie legali o negoziali sub condicione, Mirabelli, 21).

Naturalmente, la venuta ad esistenza (giuridica) del bene deve rientrare tra gli accadimenti normalmente possibili, versandosi altrimenti nell'ipotesi di nullità del contratto per impossibilità originaria dell'oggetto ex art. 1346 c.c. (Bianca, 374).

Non rientra nella vendita di cosa futura la vendita di cosa altrui, in quanto la prima si riferisce a cosa che non esiste nel patrimonio di alcun soggetto, mentre la seconda inerisce ad un bene già esistente, sebbene appartenente a persona diversa dal venditore (Bianca, 373).

Normalmente la cosa futura è un bene determinato, ma può trattarsi anche di cosa generica (Bonfante, 112). In senso contrario si è, invece, ritenuto che, qualora la cosa concerna un genus (es.: una data quantità di raccolto appartenente ad una produzione futura), il trasferimento del diritto in capo all'acquirente opererebbe non già nel momento di venuta ad esistenza della cosa, bensì in quello dell'individuazione (Bianca, 376).

In giurisprudenza si ritiene, comunque, configurabile la vendita di cosa futura generica (Cass. II, n. 2838/1959; Cass. n. 1885/1953). Tuttavia, si è precisato che la vendita di un'autovettura designata solo per marca, tipo e accessori, non è una vendita di cosa altrui o cosa futura, ma una vendita di cosa appartenente a genere limitato (Cass. VI, n. 14025/2014).

Anche la rivendita di strumenti finanziari da parte di operatori qualificati, presso i quali erano stati precedentemente collocati, nei confronti della propria clientela «retail» nel cd. mercato grigio (cioè, prima che i titoli siano emessi ufficialmente) costituisce una vendita lecita e legittima di cosa futura, consentita dall'art. 100-bis del d.lgs. n. 58/1998 (Cass. I, n. 17292/2016).

Natura giuridica: teorie minoritarie

Sulla costruzione teorica dell'istituto sono stati prospettati tre orientamenti.

Secondo una prima tesi, la vendita di cosa futura sarebbe un negozio a consenso anticipato, ossia un negozio in itinere perfetto e completo per quanto riguarda il consenso ma carente dell'oggetto, appunto, futuro. Si tratterebbe, in definitiva, di una fattispecie in cui viene invertito cronologicamente il normale iter di formazione del contratto, nel senso che la formazione del consenso anticiperebbe la venuta ad esistenza dell'oggetto dell'accordo (Rubino, 173).

In maniera conforme si è anche espressa una giurisprudenza assai datata, secondo cui la vendita di cose future è negozio destinato a produrre, fino a quando la cosa non venga ad esistenza, soltanto effetti preliminari, mentre gli effetti definitivi del contratto, sia traslativi che obbligatori, sono destinati a prodursi nel momento in cui la cosa venga ad esistenza. Pertanto, nel caso di vendita di frutti futuri, qualora il compratore non abbia provveduto alla raccolta di cui aveva assunto l'obbligo, non essendo il contratto ancora perfezionato, il suo inadempimento determinerebbe una obbligazione di risarcimento, costituente debito di valore (Cass. n. 2058/1956; Cass. III, n. 3090/1962).

Tale orientamento, secondo cui la vendita di cosa futura sarebbe un contratto in via di formazione, muove, però, da un assunto che non può essere condiviso, ossia che la mancanza del bene equivarrebbe a mancanza dell'oggetto, come mancanza di un requisito essenziale del contratto. In realtà, l'oggetto è l'insieme dei risultati programmati e, come tale, esso integra l'accordo senza che occorra la presenza attuale del bene sul quale devono cadere gli effetti previsti. La tesi della incompletezza della vendita di cosa futura urta poi contro un elementare significato del negozio: quello cioè dell'immediata operatività del vincolo contrattuale per quanto attiene all'impegno traslativo dell'alienante. Non può dirsi, quindi, che il venditore sia in mera attesa di un evento futuro e incerto, né può spiegarsi la sua posizione in termini di non ingerenza o di buona fede. Il venditore è piuttosto obbligato al risultato traslativo e all'attività strumentale positiva necessaria per realizzarlo (Bianca, 379).

Una differente opinione della dottrina configura, invece, la vendita di cosa futura come contratto sospensivamente condizionato alla venuta ad esistenza del bene. L'evento che sospende l'efficacia di tale contratto è inquadrato, da alcuni, come condizione sospensiva volontaria, mentre da altri è considerato come condicio juris (Perlingieri, 118).

In tal senso, anche la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di osservare che la vendita di cose future non produce immediatamente effetti reali, essendo sottoposta alla condizione che la cosa venga ad esistenza giuridica, ed ha perciò medio tempore effetti meramente obbligatori (Cass. III, n. 2422/1971).

Anche tale teoria presta, però, il fianco a critiche, in quanto l'acquisto del bene non potrebbe che avvenire ex nunc alla venuta ad esistenza dello stesso, tanto che si dovrebbe parlare di condizione non retroattiva ai sensi dell'art. 1360 c.c. oppure di condicio juris come tale non retroattiva. Inoltre, si pongono dubbi sull'ammissibilità della deduzione in condizione di un elemento essenziale del contratto, quale l'oggetto (Rubino, 179).

Entrambe le predette teorie risultano ormai da tempo superate, sia in dottrina che in giurisprudenza.

La vendita di cosa futura come negozio obbligatorio

La dottrina assolutamente dominante ritiene, invero, che la vendita di cosa futura sia un negozio ab initio perfetto, in quanto completo di tutti gli elementi essenziali del contratto, ossia i soggetti, la causa venditionis e l'oggetto, costituito dalla res sperata o in fieri (Mirabelli, 21).

In sostanza, la fattispecie in esame costituisce una vendita obbligatoria, da cui non nasce un obbligo di trasferire, posto che il trasferimento della proprietà si verifica automaticamente con la venuta ad esistenza della cosa.

Anche la giurisprudenza ritiene, ormai in modo unanime, che la vendita di cosa futura sia un contratto perfetto con immediata efficacia obbligatoria, e con efficacia reale soltanto nel momento in cui la cosa viene ad esistenza (ex multis: Cass. III, n. 551/2012; Cass. II, n. 20998/2009).

Da tale affermazione discende che il venditore è tenuto ad attivarsi al fine di far venire ad esistenza la cosa, non essendo sufficiente una mera astensione dal porre in essere comportamenti contrari alla venuta ad esistenza della stessa (Bianca, 372 ss.; Luminoso, 46 ss.).

Anche la giurisprudenza ha, in proposito, sostenuto che il venditore che assuma anche l'obbligazione di realizzazione del bene è tenuto a prestare la relativa, necessaria attività, e risponde di inadempimento contrattuale nel caso in cui non dimostri che la prestazione promessa è venuta a mancare per causa a sé non imputabile (Cass. II, n. 1623/2007; Cass. III, n. 2464/1972). I sostenitori, invece, della teoria del contratto non ancora perfetto facevano rispondere l'alienante per responsabilità precontrattuale ex art. 1338 c.c., limitatamente alla lesione del cd. interesse negativo.

Pertanto, anche la vendita dei frutti pendenti ha — fino al momento della separazione — efficacia meramente obbligatoria e non traslativa. Ne deriva che se, dopo la vendita ma prima della separazione, un terzo costituisce sui frutti ancora pendenti un vincolo avente efficacia erga omnes, come il pignoramento, avvenuta la separazione l'acquisto della proprietà da parte del compratore è inefficace nei confronti del creditore pignorante (Cass. III, n. 10239/1996).

Dalle massime giurisprudenziali sembra, quindi, desumersi che l'obbligazione di attivarsi per far venire ad esistenza la cosa debba formare oggetto di altra ed apposita pattuizione, integrando, in tal caso, gli estremi di un ulteriore e collegato contratto d'opera. In tal senso, si è espressa anche una parte della dottrina (Russo, 64), secondo cui, quando emerge un'obbligazione di fare del venditore, si esce dalla fattispecie dell'art. 1472 c.c. e ci si trova di fronte ad un contratto misto.

Momento dell'effetto traslativo

Venuto ad esistenza il bene si ha un automatico trasferimento del diritto in capo al compratore; da quel momento, inoltre, nascono l'obbligazione di consegna a carico del venditore e l'obbligo di pagamento del prezzo a carico del compratore.

L'individuazione di tale momento può presentare qualche difficoltà nel caso di vendita di un bene d'opera. Secondo la dottrina, l'esigenza di tutelare il compratore contro il rischio del perimento dell'opera che si trovi ancora nella disponibilità dell'alienante induce a ritenere che l'opera debba considerarsi «esistente» solo al momento del suo definitivo completamento (Bianca, 382).

La giurisprudenza ha, però, in proposito ritenuto sufficiente la conclusione del processo edificatorio nelle sue componenti essenziali, essendo irrilevante la mancanza di rifiniture o accessori non indispensabili per la sua utilizzazione (Cass. V, n. 6171/2017; Cass. II, n. 24172/2013). Ma v. comma 6 art. 2645-bis c.c. in tema di effetti della trascrizione del preliminare di vendita di immobile da costruire.

Se si tratta di immobili in costruzione, perché si verifichi l'effetto traslativo, è altresì necessario che il contratto indichi gli estremi del permesso di costruire, a pena di nullità, ai sensi dell'art. 17 l. n. 47/1985, ora art. 46 d.P.R. n. 380/2001 (Cass. II, n. 18129/2006).

La mancata consegna dell'immobile dopo che sia venuto ad esistenza (e sia scaduto il termine all'uopo contrattualmente stabilito) comporta che il venditore sopporti il rischio del perimento o deterioramento del bene per causa a lui non imputabile ai sensi dell'art. 1221 c.c. (Cass. II, n. 20998/2009).

Nel caso di alberi o frutti di un fondo la proprietà si acquista quando gli alberi sono tagliati o i frutti sono separati, non essendo sufficiente la semplice venuta ad esistenza di tali beni. Si è, in proposito, rilevato, anche in giurisprudenza, che la vendita di alberi da tagliare (o di frutti del fondo da raccogliere) non può mai avere effetto reale immediato, perché un prodotto naturale, fino a quando non sia staccato dalla cosa madre, è insuscettibile di proprietà separata e pertanto, come testualmente dispone l'art. 1472 c.c., tale vendita ha natura meramente obbligatoria (Cass. II, n. 2827/1987). Pertanto, poiché, ove si tratti dei frutti naturali della cosa, il passaggio di proprietà avviene, a mente dell'art. 821 c.c., con la separazione dei primi dalla seconda, ne consegue che il rischio del verificarsi di eventi che impediscano la venuta ad esistenza dei frutti naturali della cosa, al pari del rischio della mancata venuta ad esistenza di quest'ultima, è a carico del venditore, giacché grava su di esso, salvo patto contrario, l'obbligazione di separazione dei frutti dalla cosa principale che si trovi nel suo dominio e possesso e, dunque, nella sua disponibilità giuridica e materiale (Cass. II, n. 14461/2011). La detenzione del bene fruttifero può essere concessa al compratore, qualora sia stato pattuito che questi provveda alla raccolta. Se, tuttavia, la detenzione del fondo non è limitata al tempo necessario a separare i frutti, e quindi non ha carattere accessorio, ma è preordinata a consentire la gestione produttiva del terreno, il contratto dovrebbe qualificarsi come affitto di fondo rustico (Cass. III, n. 6920/1998).

Se il venditore contesta il diritto del compratore e raccoglie i frutti, può essere chiesto il rimedio del sequestro giudiziario di cui all'art. 670 c.p.c. Essendo la raccolta dei frutti e il taglio degli alberi dovuti dal venditore, qualora questi non provveda, il compratore può ricorrere all'esecuzione in forma specifica di tale obbligo, facendo compiere le operazioni necessarie alla raccolta a spese dell'alienante ex art. 2931 c.c. (Bianca, 399). Si è affermato anche il possibile ricorso ai provvedimenti d'urgenza (art. 700 c.p.c.) quando si tratti di frutti giunti a maturazione (Rubino, 199).

In dottrina si è, altresì, ritenuto che il venditore, qualora la sua condotta negligente abbia portato ad una produzione dei beni venduti in quantità inferiori alle normali aspettative, risponda a titolo di inadempimento; in tal caso, il rimedio per il compratore può consistere in una riduzione del prezzo, se ha comprato per una cifra fissata globalmente, oltre al risarcimento del danno (Musy, Ferreri, 206).

A favore del compratore si ammette pure la risoluzione del contratto, ove l'inadempimento sia di non scarsa importanza ex art. 1455 c.c., come anche l'applicabilità della disciplina in tema di vizi ex art. 1490 c.c. (a meno che lo stato della cosa madre o della cosa in formazione consentisse di dedurre agevolmente il risultato deteriore: Bianca, 389), oltre a quella relativa alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta e alla rescissione per lesione.

In proposito, la fattispecie di cui al comma 2 della norma in esame, che prevede la nullità del contratto, è riferita dalla dottrina all'ipotesi in cui l'impegno del venditore, diversamente da quanto accade normalmente, non riguardi l'evento della venuta ad esistenza del bene, la mancanza del quale comporta l'inefficacia retroattiva del contratto.

Anche in giurisprudenza si è, infatti, ritenuto che, qualora il bene debba essere costruito da un terzo, ed il venditore non abbia assunto alcuna obbligazione in proposito, la mancata realizzazione del bene medesimo comporti non già la risoluzione del contratto per inadempimento, bensì la nullità dello stesso per mancanza dell'oggetto (Cass. II, n. 1623/2007).

La giurisprudenza, inoltre, ammette il rimedio della garanzia per vizi (Cass. II, n. 5202/2007).

Emptio spei

La vendita di cosa futura disciplinata dalla norma in esame (emptio rei speratae) va distinta dalla emptio spei (o vendita a sorte), in cui il prezzo è fissato globalmente a prescindere dalla quantità del bene prodotto, e l'acquirente sopporta anche il rischio che il bene medesimo non venga ad esistenza e delle sue eventuali deficienze qualitative (Cass. II, n. 4094/1988); nella comune vendita di cosa futura, invece, il compratore, anche qualora il prezzo sia stabilito forfettariamente, assume il solo rischio derivante dall'eventuale minore quantità o dalla carenza qualitativa del prodotto rispetto al previsto, e non anche il rischio del mancato venire in essere del bene (Cass. II, n. 1329/1993).

L'emptio spei, poiché deroga alla regola generale sul rischio, non si presume, ma deve risultare da una espressa volizione delle parti contenuta in clausole appositamente stabilite e accettate (Cass. III, n. 26022/2011).

Secondo la dottrina, l'emptio spei è una normale vendita, nella quale il compratore assume su di sé il rischio della mancata o ridotta produzione della cosa per causa non imputabile al venditore, il quale, invece, risponde, a titolo d'inadempimento, per la mancata produzione del bene che sia dovuta a fatto proprio, ossia a propria colpa o dolo (Bonfante, 115). Inoltre, il venditore risponde per l'evizione e per i vizi della cosa (Troiano, 537; contra Bonfante, 115, secondo cui la disciplina della garanzia per vizi non è applicabile alla vendita a sorte in quanto qui, per definizione, il rischio assunto dal compratore comprende anche quello specifico relativo alle deficienze qualitative del bene).

In quanto contratto aleatorio, la vendita a sorte non può essere risolta per eccessiva onerosità e neppure può essere rescissa per lesione (contra Bianca, 396, secondo cui sarebbe ammissibile la generale azione di rescissione per lesione qualora già al momento della stipulazione il corrispettivo convenuto fosse inferiore alla metà del prezzo medio forfettario realizzabile sul mercato).

Per una fattispecie normativa di emptio spei, secondo parte della dottrina, vedi sub art. 1529 c.c.

Preliminare di vendita di cosa futura

Si ritiene ammissibile la stipulazione di un preliminare di vendita di cosa futura. In tale ipotesi, in caso di inadempimento, qualora la cosa sia venuta ad esistenza, è possibile conseguirne il trasferimento in via di esecuzione in forma specifica (Cass. I, n. 24396/2010; Cass. II, n. 7252/2006, la quale, in relazione ad un caso in cui erano stati promessi in vendita tre appartamenti da costruire, dei quali uno solo era stato poi realizzato, ha escluso che potesse essere ottenuta la pronuncia di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., in considerazione del fatto che le parti avevano espressamente subordinato la stipula del contratto definitivo alla avvenuta edificazione di tutti gli immobili considerati). Il rimedio dell'art. 2932 c.c. è esperibile anche se la cosa venuta ad esistenza presenti vizi e difformità rispetto a quanto previsto nel preliminare (Cass. II, n. 3273/1993).

In relazione sia alla vendita che al preliminare di vendita di immobile ancora da costruire, il d.lgs. n. 122/2005 impone al venditore, a pena di nullità del contratto (rilevabile dal solo acquirente), di procurare al compratore il rilascio (da parte di una banca o di una compagnia assicuratrice) di una fideiussione a garanzia della restituzione delle somme di denaro corrisposte prima del trasferimento della proprietà del bene, qualora il venditore incorra in una situazione di crisi, e sia perciò impedito il compiersi dell'effetto traslativo.

Il d.lgs. n. 122/2005 non si applica, però, alle compravendite di edifici «sulla carta», per i quali non sia stato ancora richiesto il permesso di costruire o un titolo equipollente (Cass. II, n. 5749/2011).

Forma e trascrizione

Quanto alla forma, si è affermato che nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà di immobili futuri, la forma scritta è necessaria solo per la stipulazione del contratto ad effetti obbligatori e non anche per l'individuazione del bene, la cui proprietà è trasferita non appena lo stesso viene ad esistenza (Cass. I, n. 9994/2016, la quale ha confermato la decisione impugnata, che, con riguardo ad un contratto di permuta di cosa futura, aveva trasferito agli acquirenti, che ne erano risultati assegnatari «di fatto», beni diversi da quelli scelti nel progetto originario, sebbene con caratteristiche ad essi analoghe).

La vendita di un bene immobile futuro è poi senz'altro trascrivibile (Cass. III, n. 16921/2009; Cass. II, n. 2126/1997; Cass. II, n. 4497/1986; Cass. III, n. 2520/1973).

Ai sensi dell'art. 2645-bis c.c., anche il preliminare di vendita di un immobile ancora da costruire è trascrivibile, a prescindere dal fatto che il contratto definitivo sia una vendita di cosa futura oppure una vendita ad immediati effetti reali.

Sugli effetti della trascrizione del preliminare di vendita di immobile futuro, cfr. Gabrielli, in Riv. dir. civ. 1997, I, 529; De Matteis, Dalla promessa di vendita al preliminare trascritto, in Studi in onore di P. Rescigno, III, 2, 290; Zaccaria-Troiano, Gli effetti della trascrizione, Torino, 2005, 170.

Vendita di cosa futura e appalto

Dottrina e giurisprudenza hanno cercato di individuare i criteri ed i requisiti in base ai quali differenziare le due fattispecie contrattuali della vendita e dell'appalto e qualificare strutture negoziali complesse riconducendole nell'ambito dell'una o dell'altra fattispecie.

In astratto, la differenza tra i due negozi sembra essere evidente, atteso che la compravendita rappresenta il tipico contratto ad efficacia reale avente ad oggetto un'obbligazione di dare, mentre l'appalto un contratto ad efficacia obbligatoria connotato da un facere; la prima è diretta ad un trasferimento, mentre il secondo è volto in primis alla produzione di un opus, mediante un'attività elaboratrice; l'uno presuppone l'esistenza attuale della cosa, l'altro l'inesistenza ed è posto in essere per produrla.

Nella realtà applicativa, tuttavia, la distinzione è spesso sfumata, ponendosi rilevanti problemi interpretativi, in particolare, in ordine alla differenza tra appalto e vendita di cosa futura, atteso che quest'ultima, avendo ad oggetto un bene non ancora esistente, rappresenta la figura di confine tra i due istituti. Non si tratta di una questione prettamente teorica, atteso che, nella prassi, l'interesse delle parti è quello di interpretare nel senso della compravendita o dell'appalto il contratto stipulato al fine di avvalersi della disciplina normativa ritenuta nel caso concreto più favorevole (es.: in tema di vizi e difformità).

La dottrina tradizionale (Bianca, 47 ss.; Caredda, Vendita e appalto, in Codice della vendita, a cura di Buonocore e Luminoso, 2001, 260; Luminoso, La compravendita, 1998, 13 ss.; Rubino, Iudica, voce Appalto, in Comm. S.B., 1992, 4) richiama la regola che individua nella prevalenza del lavoro (e dell'autonoma progettualità) sulla materia (che non deve subire trasformazioni che esulano dal normale ciclo produttivo del venditore) la caratteristica contenutistica che distingue l'appalto dalla compravendita.

Criterio suppletivo di differenziazione è individuato nel riferimento alla comune intenzione delle parti per accertare se la somministrazione della materia è un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro lo scopo del negozio, nel qual caso si ha appalto, o se il lavoro è il mezzo ulteriore per la trasformazione della materia ed il conseguimento della cosa costituisce lo scopo del negozio, così configurandosi una vendita (Stolfi, voce Appalto, in Enc. dir., 1958).

In giurisprudenza, premesso che non risulta rilevante il nomen iuris adoperato dai contraenti (Cass. S.U., n. 11656/2008), si è tradizionalmente sostenuto che, per stabilire l'esatta natura giuridica di un negozio complesso nel quale siano commisti e combinati elementi dell'appalto e della vendita, occorre seguire il criterio della prevalenza fra le prestazioni pattuite, sicché il negozio deve essere assoggettato alla disciplina unitaria dell'uno o dell'altro contratto, in base alla prevalenza degli elementi che concorrono a costituirla. In proposito, il fattore decisivo per stabilire tale prevalenza è dato dall'interesse che ha mosso le parti, avendosi una vendita se esse abbiano avuto fondamentalmente interesse a scambiarsi un bene in natura contro una somma di danaro, e solo per ragioni contingenti il venditore si sia adattato a ricevere una parte del corrispettivo sotto forma del compimento di un opus, mentre deve ravvisarsi un appalto se l'interesse originario e fondamentale delle parti sia stato quello di compiere e, rispettivamente, ricevere un'opera, anche se il corrispettivo sia stato integrato con un bene in natura (Cass. II, n. 2626/1984).

Nel caso in cui il contratto abbia ad oggetto la fornitura di beni prodotti con materiali ceduti dallo stesso destinatario della prestazione, il criterio fondamentale è costituito dalla natura dell'attività espletata dal fornitore, nel senso che il contratto è qualificabile come compravendita qualora detta attività consista nella trasformazione delle materie prime in prodotti finiti, non necessariamente destinati ad essere riacquistati dall'originario cedente, e come appalto nel caso in cui essa consista, invece, nell'adattamento delle medesime materie alle specifiche esigenze del destinatario, sì da potersi considerare i prodotti come il risultato voluto ed effettivo della prestazione di un facere (Cass. V, n. 1726/2007).

Sicché, ad es., il contratto con cui un imprenditore si obbliga a fornire ad un altro soggetto manufatti che rientrano nella propria normale attività produttiva, apportando ad essi le modifiche di forma, misura e qualità richieste specificamente dalla controparte, costituisce vendita di cosa futura se dette modifiche non snaturano le caratteristiche essenziali del prodotto, ma consistano in accorgimenti marginali e secondari diretti ad adattarlo alle specifiche esigenze dell'acquirente, mentre è da qualificarsi contratto d'appalto allorché le modifiche siano tali da dar luogo ad un prodotto diverso, nella sua essenza, da quello realizzato normalmente dal fornitore e richiedente, altresì, un cambiamento dei mezzi di produzione predisposti per la lavorazione di serie (Cass. II, n. 3375/1988).

In generale, dunque, deve aversi riguardo alla prevalenza o meno del lavoro sulla fornitura della materia (Cass. V, n. 9320/2006), ma non in senso oggettivo, bensì con riguardo alla volontà dei contraenti al fine di accertare nei singoli casi se la somministrazione della materia sia un semplice mezzo per la produzione dell'opera ed il lavoro lo scopo del negozio (appalto), oppure se il lavoro sia il mezzo per la trasformazione della materia ed il conseguimento della cosa l'effettiva finalità del contratto (vendita) (Cass. II, n. 5935/2018; Cass. II, n. 20391/2008).

Sul tema sono, di recente, intervenute anche le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 11656/2008), secondo cui il contratto avente ad oggetto la cessione di un fabbricato non ancora realizzato, con previsione dell'obbligo del cedente — che sia proprietario anche del terreno su cui l'erigendo fabbricato insisterà — di eseguire i lavori necessari al fine di completare il bene e di renderlo idoneo al godimento, può integrare alternativamente tanto gli estremi della vendita di una cosa futura (verificandosi allora l'effetto traslativo nel momento in cui il bene viene ad esistenza nella sua completezza), quanto quelli del negozio misto, caratterizzato da elementi propri della vendita di cosa presente (il suolo, con conseguente effetto traslativo immediato dello stesso) e dell'appalto: e ciò a seconda che, nel sinallagma contrattuale, assuma un rilievo centrale il conseguimento della proprietà dell'immobile completato ovvero tale ruolo centrale sia costituito dal trasferimento della proprietà attuale (del suolo) e dall'attività realizzatrice dell'opera da parte del cedente. Si avrà quindi vendita di cosa futura, quando l'intento delle parti abbia ad oggetto il trasferimento della cosa futura e consideri l'attività costruttiva nella mera funzione strumentale e accessoria (Cass. II, n. 23110/2021, in relazione alla cessione di un fabbricato non ancora compiutamente realizzato o da ristrutturare, con previsione dell'obbligo del cedente, che sia anche imprenditore edile, di eseguire i lavori necessari a completare il bene o a renderlo idoneo al godimento), e per contro si avrà vendita con effetti reali del suolo ed appalto della costruzione, quando l'attività costruttiva, che il cedente assume a proprio rischio con la propria organizzazione, viene considerata come oggetto della prestazione di fare. In quest'ultimo caso si verserà in ipotesi di contratto misto (di vendita e di appalto), la cui disciplina giuridica va individuata, in base alla teoria dell'assorbimento, che privilegia la disciplina dell'elemento in concreto prevalente, in quella risultante dalle norme del contratto tipico nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti, senza escludere ogni rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l'ampiezza del vincolo contrattuale, elementi ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente.

Nella medesima pronuncia le Sezioni Unite hanno anche precisato che, ai fini della qualificazione in termini di contratto di vendita di cosa futura della vendita di immobile da costruire su fondo di proprietà del cedente, il quale si assume la realizzazione dell'opera a proprio rischio e con la propria organizzazione, non costituiscono ostacolo, in favore della diversa qualificazione di contratto misto di vendita (del suolo) ed appalto (dell'opera da costruire), i seguenti elementi del contenuto contrattuale: a) la previsione del pagamento di un acconto sul prezzo finale (contrariamente, invece, alla previsione di acconti in corso d'opera in relazione a stati di avanzamento dei lavori, propri dell'appalto e, come tali, giustificabili in virtù di una parziale esecuzione dell'oggetto del contratto, mentre nella vendita di cosa futura l'adempimento dell'alienante si realizza esclusivamente con il completamento del bene); b) la previsione di un termine di ultimazione dei lavori, giacché il contratto di vendita di cosa futura prevede pur sempre come attività accessoria quella della realizzazione dell'opera da parte dell'alienante; c) la previsione dell'obbligo dell'alienante di realizzare l'opera «a perfetta regola d'arte», in quanto anche nella vendita di cosa futura devono essere preventivamente individuate le caratteristiche tecniche dell'opera medesima.

Più recentemente, la giurisprudenza, partendo dal presupposto che si ha appalto, e non contratto di vendita, quando, secondo la volontà dei contraenti, la prestazione della materia è un semplice mezzo per la produzione dell'opera, il lavoro essendo prevalente rispetto alla materia, ha ritenuto corretta la qualificazione come appalto del contratto avente ad oggetto la costruzione di un capannone di grandi dimensioni (ottomila metri cubi), trattandosi necessariamente di un'opera da realizzare «su misura» rispetto alle specifiche esigenze del committente, con prevalenza, quindi, dell'obbligazione di facere rispetto alla pattuita fornitura di elementi prefabbricati da parte dell'appaltatore (Cass. III, n. 20301/2012).

Bibliografia

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