Inadempimento al contratto di somministrazione telefonica: valutazione equitativa del danno e divieto di non liquet
14 Maggio 2019
Massima
Qualora l'accertamento dell'esistenza del pregiudizio abbia esito favorevole, la determinazione della misura della liquidazione del danno, ai sensi dell'art. 1226 c.c., può conseguire anche ad una valutazione equitativa dello stesso. L'esercizio di tale potere discrezionale attribuito al giudice è subordinato soltanto alla circostanza dell'impossibilità o estrema difficoltà della prova dell'ammontare del risarcimento. Non è quindi ammissibile che il giudice rigetti la pretesa risarcitoria, lamentando l'inidoneità dei criteri offerti dal danneggiato per il giudizio di equità. Il caso
La società Alfa conveniva in giudizio la società Beta al fine di accertarne il relativo inadempimento del contratto di somministrazione telefonica, nonché di ottenere la condanna di quest'ultima al risarcimento dei danni patiti, in conseguenza dell'illegittima disattivazione dell'utenza. Dalla ricostruzione processuale risulterebbe che in primo grado la domanda venne integralmente accolta, mentre, la Corte d'Appello, in parziale riforma della precedente statuizione, ha riconosciuto l'inadempimento, ma ha rigettato la richiesta risarcitoria. In particolare, è stato sostenuto che il danneggiato, pur richiedendo una liquidazione in via equitativa, non avesse fornito elementi tali da permettere una determinazione precisa e adeguatamente argomentata dell'ammontare del danno risarcibile. La Società Alfa ricorre quindi in Cassazione affinché vengano accolte le censure avverso la sentenza di secondo grado. La questione
È ammissibile la decisione di non liquet suffragata dalla ritenuta inidoneità degli elementi offerti ai fini della valutazione equitativa del danno? Le soluzioni giuridiche
I) La Suprema Corte, in accoglimento delle ragioni del danneggiato circa l'ammissibilità nel caso di specie della determinazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 1226 c.c., ricostruisce preliminarmente lo stato dell'arte di quest'ultimo istituto. In primo luogo, viene sottolineato come la valutazione equitativa si traduca, come sostenuto da autorevolissima dottrina (C.M. Bianca, Diritto Civile, La Responsabilità, Giuffrè, 1994, p. 184), in una «compensazione economica socialmente adeguata», ovvero quella che l'«ambiente sociale accetta come compensazione equa». Con tale espressione dovendosi intendere una liquidazione del risarcimento che si rappresenti adeguata rispetto al caso concreto e proporzionata rispetto ad altri casi simili, giusta il richiamo alla pronuncia di legittimità Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011, n. 12408, contenente una profusa elaborazione del concetto di equità rispetto allo strumento di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c. L'esame dei giudici di legittimità prende poi in considerazione i presupposti applicativi delle anzidette disposizioni. Invero, come ormai pacifico, ai fini dell'esercizio del potere di determinazione equitativa del danno occorre preliminarmente che questo venga accertato nella sua sussistenza. Sul punto, viene sottolineato in motivazione come il limite ontologico all'utilizzo di tale strumento di agevolazione probatoria consista nel «non potere surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità̀ del debitore o la mancata individuazione della prova del danno», così da non eludere l'onere probatorio espresso dall'art. 2697 c.c. Il danneggiato, cioè, non è esonerato dal fornire la prova dell'esistenza delle conseguenze negative del fatto illecito altrui, che nel presente caso consistono nella perdita patrimoniale da lucro cessante a seguito di inadempimento. Infatti, viene precisato nella decisione in commento come la valutazione equitativa attenga «alla qualificazione e non già̀ all'individuazione del danno». Inoltre, l'esercizio del potere giudiziale di liquidare equitativamente il danno risarcibile è sottoposto all'ulteriore condizione che il danneggiato venga a trovarsi nell'impossibilità, anche relativa, o nell'estrema difficoltà di una determinazione puntuale della consistenza del decremento patrimoniale subito. Da tale requisito deriva un duplice corollario. Da un lato, il ricorso all'equità non sarà legittimo qualora sussista una «semplice difficoltà, che renda necessaria l'ammissione di una consulenza tecnica o il ricorso a valutazioni di tipo presuntivo» (Cass. civ., sez. lav., 14 maggio 1998, n. 4894). Il ricorso al vaglio equitativo del giudice si presenta, infatti, come «rimedio sussidiario con funzione integratrice, che si legittima sulla base dell'art. 1226 c.c., solo quando la prova sia impossibile, incompleta, oppure non sia idonea ad orientare il giudice tra un minimo e un massimo in modo preciso» (M. Franzoni, Il danno risarcibile, Milano, Giuffrè, 2010, p. 186) D'altra parte, a fronte di «una difficoltà solo di un certo livello, ritenuta tale dal giudice del merito nell'esercizio delle sua facoltà discrezionali» (Cass. civ., sez. III, 12 ottobre 2011, n. 20990), quest'ultimo non potrà non dare seguito alla richiesta ripristinatoria del contraente il cui patrimonio è stato ingiustamente leso dall'altrui inadempimento, altrimenti negando la giustizia del caso concreto. Tale considerazione è stata, infatti, condivisa dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha osservato che: «non è più consentita al giudice del merito una decisione di “non liquet” e quindi la negazione dell'obbligazione risarcitoria dovendosi, per converso, ritenere contraria a diritto un'eventuale decisione di siffatto contenuto, risolvendosi tale pronuncia nella negazione di quanto, invece, già definitivamente accertato in termini di esistenza di una condotta generatrice di danno ingiusto e di conseguente legittimità della relativa richiesta risarcitoria riguardante un danno subito, accertato sotto il profilo dell'"an debeatur”» (Cass. civ., sez. III, 12 ottobre 2011, n. 20990). Procedendo nell'analisi della pronuncia in esame, la Corte di Cassazione rileva, in ossequio ad un indirizzo pretorio granitico, che la quantificazione del risarcimento rientra nel più ampio potere discrezionale del giudice di porre a fondamento della decisione, a mente dell'art. 115 c.p.c., le risultanze probatorie e i fatti non specificatamente contestati, nonché le massime di esperienza. Tale facoltà risulta, quindi, esercitabile ex officio, come viene ribadito dall'ordinanza in commento, che ne ammette l'utilizzo «senza la necessità della richiesta di parte». Si aggiunge, inoltre, che il richiamo all'equità non deve destare dubbi circa la natura del potere riconosciuto dall'art. 1226 c.c., in quanto questo rimane «un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità̀ giudiziale correttiva od integrativa». In ciò senz'altro distinguendosi dal giudizio che le parti possono richiedere in forza dell'art. 114 c.p.c., sostituendo alla disciplina di diritto positivo una soluzione della questione secondo un principio morale. Il giudice, in altri termini, è tenuto ad effettuare una restaurazione dello squilibrio economico che una parte ha subito in seguito al comportamento dell'altra, attraverso un'estimazione del danno che tenga conto anche di «interessi diversi rispetto ai singoli fattori incidenti sul danno» (M. Franzoni, Il danno risarcibile, Milano, Giuffrè, 2010, p. 178). Secondo le parole dell'ordinanza in parola, infatti, il giudice sarebbe deputato ad un «prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, e in particolare della rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e dei vari fattori incidenti sulla gravità della lesione». Tuttavia, la Corte di legittimità delimita il potere giudiziale di determinazione secondo equità del quantum, rilevando l'esigenza di un controllo «di relativa logicità̀, coerenza e congruità̀», come sostenuto nella parte motiva dell'ordinanza, in quanto altrimenti ne conseguirebbe il riconoscimento di una facoltà totalmente arbitraria. Il rimedio equitativo, infatti, seppur discrezionale, deve essere orientato al rispetto della funzione primaria del risarcimento, consistente nel ripristino della situazione giuridico-patrimoniale del soggetto leso, riportandolo nella medesima curva di indifferenza nella quale si sarebbe trovato se non fosse stato pregiudicato dall'altrui condotta. La determinazione assunta dal giudice deve quindi necessariamente essere sorretta da una motivazione che, sebbene non puntuale rispetto a tutti gli elementi dedotti in giudizio, deve dare contezza delle ragioni giustificative del percorso valutativo seguito. Nonostante il procedimento estimatorio sia un giudizio di merito, il limite alla discrezionalità del potere equitativo che la legge rimette al giudice, quindi, si rintraccia nella sindacabilità del medesimo in sede di legittimità qualora il ragionamento compiuto sia affetto da vizi logici o procedimentali. In particolare, la giurisprudenza ritiene censurabili quelle decisioni in cui «non sia stato dato conto del criterio utilizzato, la relativa valutazione risulti incongrua rispetto al caso concreto e la determinazione del danno sia palesemente sproporzionata per difetto o per eccesso» (Cass. civ., sez. III, 8 novembre 2007, n. 23304).
II) Con precipuo riferimento alla fattispecie concreta oggetto del presente giudicato di legittimità, la Corte ha stigmatizzato come, in presenza dei surriferiti presupposti, non sia consentito al giudice il rigetto della richiesta risarcitoria. In particolare, la reiezione della domanda non può giustificarsi sull'assunto che la parte non avrebbe individuato adeguati criteri tali da permettere la valutazione equitativa. Va evidenziato, ai fini della presente disamina, come l'indagine relativa ai parametri sui quali fondare il giudizio di equità sia totalmente rimessa alla discrezionalità del giudice. Quest'ultimo, infatti, può anche discostarsi dai criteri forniti dalla parte, la quale non è quindi gravata di un particolare onere, ma non può, come già sottolineato, esimersi dal pronunciarsi in ordine all'ammontare del danno risarcibile. Tale affermazione trova conferma anche in una giurisprudenza anteriore che, infatti, in un caso analogo aveva sostenuto come non risulti consentita «una decisione di “non liquet” fondata sull'asserita inadeguatezza dei criteri indicati dall'attore danneggiato» (così in motivazione, Cass. civ., sez. I, 16 settembre 2002, n. 13469). Peraltro, il giudice, qualora non ravvisasse la sussistenza nel caso concreto di parametri adeguati a giustificare una determinazione del danno secondo equità, potrebbe pur sempre deferire un giuramento estimatorio. I giudici di legittimità nel presente caso, peraltro, hanno affermato che potevano già rinvenirsi, tra gli elementi fattuali dedotti, quelli idonei a sostenere una valutazione equitativa, al contrario di quanto sostenuto dalla Corte territoriale. La decisione in commento, infatti, rileva come l'inadempimento prolungato di diversi mesi del contratto di somministrazione, subspecie di interruzione dell'utenza telefonica, abbia determinato un'oggettiva riduzione della capacità lavorativa del danneggiato, trattandosi di un opificio industriale per la produzione di "conglomerati bituminosi", conseguentemente alla non reperibilità da parte dei clienti fornitori. Circostanze queste che sono state ritenute senz'altro pregnanti, in ragione dell'id quod plerumque accidit, ai fini della perimetrazione delle conseguenze economiche patite, specie se raffrontate ai «parametri medi desumibili dal mercato di quel determinato bene» e della «rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale» rispetto alla «peculiarità dell'oggetto sociale», ovvero in tal caso i conglomerati bituminosi. Osservazioni
Merita rilevare il richiamo effettuato dalla Cassazione rispetto al prudente apprezzamento giudiziale anche dei «vari fattori incidenti sulla gravità della lesione». Nel caso in esame, si sottolinea che il risarcimento attiene esclusivamente al costo patrimoniale sostenuto dal danneggiato in conseguenza dell'inadempimento altrui, rispetto al quale possono utilizzarsi ben più certi parametri economici. L'esigenza di utilizzare criteri attinenti all'intensità della lesione alla stregua del sentire sociale viene, invece, in gioco qualora la pretesa ripristinatoria riguardi danni di natura non patrimoniale, rispetto ai quali non è ontologicamente possibile far ricorso a criteri economici. In tal senso viene sostenuto che solo ai fini della determinazione del danno non patrimoniale «occorre fare riferimento agli elementi che determinano la maggiore o minore gravità personale del danno» ed «il giudice deve dunque fissare quel risarcimento che in relazione alla gravità della lesione appaia socialmente adeguato» (C.M. Bianca, Diritto Civile, La Responsabilità, Giuffrè, 2012, p. 207). Quindi, nella determinazione del danno patrimoniale non dovrebbe tenersi conto di quegli elementi che danno rilievo al dato personologico e nulla hanno a che fare col rilievo meramente economico del pregiudizio. Sicché, appare più corretto, come osservato da attenta dottrina, ritenere che rispetto al risarcimento della mera diseconomia «l'equità ha qui il significato di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno: la valutazione equitativa è, precisamente, un giudizio di mediazione tra le probabilità positive e negative del danno effettivo» (C.M. Bianca, Diritto Civile, La Responsabilità, Giuffrè, 2012, p. 187). |