Scambio elettorale politico–mafioso. Una prima lettura dell'art. 416-ter c.p. come modificato dalla legge 43/2019Fonte: L. 21 maggio 2019 n. 43
10 Giugno 2019
Abstract
La norma previgente, introdotta dalla legge di conversione 7 agosto 1992 n.356 e poi modificata dalla legge 17 aprile 2014 n.62, punisce chi accetta la promessa di chi s'impegna a procurare voti mediante il ricorso alle modalità di cui al terzo comma dell'art. 416-bis c.p., e tanto fa“in cambio dell'erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità; punisce, altresì, la condotta di chi effettua la promessa di procurare i voti con le modalità di cui al primo comma, vale a dire facendo ricorso al c.d. “metodo mafioso”, ampiamente descritto nel comma 3 dell'art. 416-bisc.p. La norma, introdotta dalla legge 21 maggio 2019, n. 43, fermo restando quanto già previsto dal previgente art. 416-terc.p., apporta importanti modifiche alla complessiva disciplina dello scambio elettorale politico-mafioso, prevedendo nuove modalità dell'azione, introducendo una specifica aggravante e mutando sensibilmente il regime punitivo. Residuano alcuni importanti problemi interpretativi che, parzialmente risolti nella vigenza della norma di modifica introdotta nel 2014, oggi si ripresentano nella loro originaria complessità, aggravata dalla non facile lettura del testo normativo. I precedenti normativi
L'esigenza di prevedere una norma, capace di descrivere il fenomeno della contiguità tra la politica e la mafia, trova la sua prima disciplina nel decreto Scotti-Martelli, convertito nella legge 7 agosto 1992. Oltre a introdurre l'art. 416-ter, intitolato scambio elettorale politico mafioso, la legge del 1992 apportò una significativa integrazione dell'art. 416-bis, comma 3, che definisce il c.d. “metodo mafioso”, il cui utilizzo qualifica l'attività di coloro che operano all'interno dell'associazione di tipo mafioso. Nella parte conclusiva del terzo comma, dopo aver detto che «l'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo», tra le finalità dell'azione, oggi rileva anche quella «di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali». In piena coerenza con tale scelta normativa, l'art. 416-terr, nella sua originaria formulazione, si limitava a dire che «la pena stabilita dal primo comma dell'art. 416-bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416-bis in cambio dell'erogazione di denaro». Restava priva di autonoma definizione normativa il comportamento di chi effettuava la promessa di voti, facendo ricorso all'utilizzo del “metodo mafioso”; tuttavia, ben presto, si giunse alla convinzione che utilizzare il metodo mafioso, nei termini indicati dall'art. 416-bis, terzo comma, qualificava di per sé l'adesione all'accordo criminoso, offrendo la prova dell'appartenenza al sodalizio criminale di chi a tale metodo faceva ricorso. Un semplice richiamo va fatto, in questa sede, all'intervento legislativo del 2009, che ha inserito il delitto ex art. 416-ter tra quelli indicati nella normativa che disciplina la responsabilità amministrativa degli enti. In conseguenza di tanto, l'art. 24-ter del decreto legislativo 231/2001, oggi, prevede la responsabilità dell'ente anche con riferimento alla commissione del delitto di scambio elettorale politico mafioso. Il che, sul piano della prevenzione, appare di non trascurabile significato. La modifica introdotta dalla legge 17 aprile 2014 n. 62
Un'importante modifica della disciplina previgente interviene nel 2014, quando la norma di cui all'art. 416-ter muta sensibilmente in alcuni suoi fondamentali elementi. Nell'ottica della riforma, rileva l'accettazione, da parte del candidato alla competizione elettorale, della promessa di procurare (procurargli) voti, a condizione che tale attività di raccolta venga effettuata mediante le modalità di cui al terzo comma dell'art. 416-bis; rileva, quale controprestazione offerta dal candidato, la sua disponibilità all'erogazione di denaro o di altra utilità. Si aggiunge, nel secondo comma, che la stessa pena (da sei a dodici anni) sarà applicabile anche a chi promette di procurare voti, facendo ricorso alle modalità di cui al citato terzo comma dell'art. 416-bis. Come si vede, la nuova norma, ferma restando la struttura del reato di scambio elettorale politico mafioso, voluto dalla legge del 1992 (di conversione del decreto Scotti-Martelli), con riferimento all'oggetto della controprestazione, erogata o solo promessa da chi ottiene la promessa di voti, indica l'erogazione o la promessa di erogazione di altra utilità in aggiunta alla dazione o alla promessa di denaro che, in origine, costituiva l'unico vantaggio, dato o promesso in cambio dei voti. Con riferimento alle modalità dell'azione di chi effettuata la promessa di procurare voti, la nuova norma aggiunge l'espresso richiamo alle modalità di cui al terzo comma dell'art. 416-bis e, al secondo comma, prevede la medesima pena per chi, utilizzando le modalità di cui sopra, ha promesso di procurare i voti. Trattasi di modifiche sostanziali, che tengono conto dell'evoluzione giurisprudenziale che si era avuta sulla base della previgente normativa. Ma restavano irrisolti vari problemi interpretativi. Ben presto, infatti, la Corte di cassazione fu chiamata a pronunziarsi sull'oggetto dell'accordo intervenuto tra il politico, o aspirante tale, e il soggetto che s'impegnava a procurare voti, utilizzando il metodo mafioso. Si disse che, stante la lettera della nuova norma, anche l'impegno «a operare, nella raccolta dei voti, secondo le modalità intimidatorie previste dal terzo comma dell'art. 416-bisc.p., dovesse rientrare nel patto elettorale, intervenuto tra il politico e il mafioso» (così Cass. pen., Sez. VI, 28 agosto 2014, n. 36382). Fu anche chiarito, in via generale, che la fattispecie in esame costituisce un mero reato di pericolo, punibile anche «a prescindere dall'effettiva acquisizione dei suffragi», essendo «irrilevante, ai fini dell'integrazione del reato, che i voti siano stati conseguiti con metodo mafioso, ovvero con il compimento di singoli atti di intimidazione e sopraffazione in danno degli elettori, che costituiscono, quindi, un post factum estraneo alla condotta tipica» (così Cass. pen., Sez. VI, 9 settembre 2014, n. 37374). Ferma questa interpretazione, la Cassazione dovette ancora operare un necessario distinguo tra le ipotesi in cui il candidato risulti essersi direttamente rivolto all'associazione mafiosa, e le ipotesi in cui egli ha preso contatti con un soggetto intermediario che, a sua volta, risulti essersi rivolto all'associazione. In conseguenza di tale attività interpretativa, si escluse la necessità della prova dell'esistenza di un «accordo, concernente lo scambio tra voto e denaro o altra utilità, che contempli l'attuazione, o l'esplicita programmazione, di una campagna attuata mediante intimidazioni, solo quando il soggetto, che si impegna a reclutare i suffragi, è persona intranea a una consorteria di tipo mafioso ed agisce per conto e nell'interesse di quest'ultima». Diversamente, nel caso in cui sarà stata fornita la prova che il candidato ha concluso «il patto con un soggetto intermediario ed extraneus all'associazione», risultando evidente la mancanza di contatto diretto del medesimo con l'ambiente malavitoso, si renderà necessario «dimostrare, oltre all'esistenza dell'organizzazione operante e stabile sul territorio, anche le modalità di coartazione del voto previste dall'art. 416-bisc.p.» (così Cass. pen., Sez. VI, 16 giugno 2015, n. 25302). È stato ancora sottolineato in altra e successiva decisione che, nel fatto di essersi rivolto a soggetto intraneus all'associazione, rileva «la scelta di quello specifico interlocutore, da parte del candidato»; scelta che è stata ragionevolmente «determinata proprio dalla sua fama criminale e dalle modalità con cui sarà attuato il reclutamento elettorale» (così Cass. pen., Sez. I, 9 maggio 2016 n. 19230). Mentre si ricava che, viceversa, nel caso in cui il candidato si sia rivolto a persona estranea all'associazione, si porrà non solo la necessità della prova del programmato utilizzo del metodo mafioso, ma anche e soprattutto s'imporrà la prova rigorosa del dolo del candidato, inteso come conoscenza e volontà di beneficiare di voti acquisiti illecitamente, a fronte della promessa, fatta dall'intermediario e non da lui, di versare all'associazione denaro o altra utilità (così Cass. pen., Sez. I, 9 maggio 2016, n. 19230, e altre, successive, di simile contenuto). Emerge dai lavori preparatori il serrato dibattito parlamentare che ha portato alla definizione del nuovo art.416-terc.p., dettato in materia di voto di scambio politico-mafioso. Si rileva che l'intento, comune ai due Rami del Parlamento, era principalmente quello di inserire nella norma la previsione della possibilità che l'accettazione della promessa di sostegno elettorale avvenisse anche a opera di “intermediari”. Una precisazione normativa di questo tipo s'imponeva anche alla luce delle decisioni giurisprudenziali che, ormai, davano per acquisita l'ipotesi, assai frequente, dell'intervento nel “patto elettorale” di intermediari. Il Senato, in aggiunta a tanto, aveva proposto di modificare la vecchia norma, quella in vigore dal 2014, nel senso di prevedere che la promessa di procurare voti, per rilevare ai fini della punibilità, provenisse da un soggetto appartenente a un'associazione mafiosa e che tale “qualità personale” fosse nota a chi tale promessa accettava. La modifica appariva utile anche per chiarire la previgente disposizione, che prevedeva la punibilità di chi aveva accettato la promessa di procurare voti, proveniente da chi, a tal fine, avrebbe fatto ricorso alle modalità di cui al terzo comma dell'art. 416-bis, ma soprattutto s'imponeva alla luce della previsione secondo cui lo scambio poteva avvenire anche facendo ricorso ad intermediari. Erano stati sollevati dubbi sul significato di quella formulazione normativa; e restavano le perplessità avanzate da molti commentatori; ci si chiedeva: ma come si può agire utilizzando il c.d. “metodo mafioso”, adeguatamente descritto nel citato terzo comma, se non si fa parte dell'associazione mafiosa? Ecco il significato della modifica voluta dal Senato. La Camera dei Deputati ha preferito inserire nella norma entrambi i riferimenti: sia quello, proposto dal Senato, secondo cui la promessa di procurare voti dovesse provenire da un appartenente ad un'associazione mafiosa; sia quello, che si rifaceva alla vecchia formulazione dell'art. 416-ter, secondo cui rilevava l'impegno, per chi avrebbe procurato i voti, di far ricorso al metodo mafioso. Il Senato ha definitivamente recepito le indicazioni date dalla Camera, rinunziando anche alla sua proposta, quella secondo cui, correttamente sul piano della previsione dell'elemento soggettivo, si prevedeva che la qualità di mafioso fosse nota a chi avesse accettato la promessa di voti. In conclusione, sul piano dell'interpretazione, può dirsi che l'intento della nuova norma è quello di punire chiunque, direttamente o per interposta persona, accetti la promessa di sostegno elettorale, proveniente da soggetti appartenenti ad associazioni mafiose o che facciano ricorso all'utilizzo del metodo mafioso; ciò «in cambio dell'erogazione, o della promessa di erogazione, di denaro o di qualunque altra utilità», oppure in cambio «della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell'associazione criminale». Anche la promessa di procurare voti, per essere rilevante ai fini della punibilità a norma dell'art. 416-ter, dovrà provenire da soggetti appartenenti alle associazioni di cui all'art. 416-bis, oppure dovrà risultare la promessa che i voti, nell'ottica dello scambio o dell'impegno reciproco allo scambio, dovranno essere acquisiti mediante le modalità di cui al terzo comma dell'art. 416-bis. La legge, dunque, assimila la posizione di chi accetta “la promessa di procurare voti”, da parte di soggetti mafiosi, alla posizione di chi accetta “la promessa di procurare voti”, mediante il ricorso al metodo mafioso. È evidente che lo status di mafioso, così come anche l'utilizzo del metodo mafioso, costituiscono nell'ottica del legislatore condizioni e caratteristiche che qualificano l'attività di procurare voti, rendendola particolarmente fruttuosa. La lettura della nuova norma non è del tutto agevole ma il suo significato dovrebbe essere quello di porre in alternativa due distinte possibilità di procurare voti, anche se, a prima vista, potrebbe apparire difficile operare una netta distinzione tra l'azione di chi è stato riconosciuto mafioso e quella di chi, pur non essendo tale, tuttavia, faccia ugualmente ricorso al metodo mafioso; tanto nella sua attività di procurare voti da girare a chi ne ha accettato la promessa. Nella certezza, tuttavia, che il legislatore abbia inteso prevedere due modalità diverse di gestione dell'unica azione, siamo portati a pensare che la Camera abbia colto le perplessità, evidenziate in dottrina e giurisprudenza che, nel vigore della vecchia normativa, avevano manifestato dubbi in relazione all'applicabilità della norma ogni qual volta il procacciatore di voti non risultasse, definitivamente, condannato per reati di mafia. In tal caso, l'evoluzione giurisprudenziale potrebbe portare a riscontrare l'ipotesi dell'acquisto di voti da chi è stato definitivamente condannato per reati di cui all'art. 416-bisc.p. e differenziarla dall'ipotesi dell'acquisto da chi, pur non essendo stato definitivamente riconosciuto mafioso, tuttavia, fa uso del metodo descritto dal comma 3 dell'art. 416-bisc.p. Staremo a vedere! Il comma 2 dell'articolo in commento, questa volta riferito all'azione di chi promette di procurare voti, impone la medesima punibilità, prevista per chi accetta la promessa di voti. Anche in questo caso, la promessa di che trattasi potrà avvenire direttamente o a mezzo di intermediari. L'azione di chi fa la promessa e di chi l'accetta, assimilate sul piano della punibilità, per quanto differenziabile a norma dell'art. 133 c.p., diviene assai complessa allorché risulterà la presenza di intermediari. In tali casi, si porrà il necessario problema della prova dell'esistenza della necessaria conoscenza, da parte di chi accetta, della provenienza mafiosa di quei voti. In genere, ogni candidato ha i suoi attivisti, quelli che cercano voti, frugando all'interno dei vari strati sociali; la responsabilità per una promessa di voti, proveniente da un soggetto che in qualche modo si sa essere legato alla mafia locale, che sia stata accettata dall'intermediario, come potrà ricadere sul candidato, in mancanza della prova - assai difficile da acquisire - della sua conoscenza della provenienza illecita dei voti e/o dell'utilizzo del metodo mafioso, finalizzato a procurarli? Il rischio potrà essere quello di individuare forme di responsabilità oggettiva, generalmente legate alla presunzione del “cui prodest”: non poteva non sapere, visto che il vantaggio è il suo! E questo, ovviamente, è da evitare. Una volta condivisa la su indicata ricostruzione della norma, sarà agevole tracciare alcune ipotesi; ci limitiamo a quella più comune; essa potrebbe integrare una fattispecie di questo tipo: Tizio, candidato alle elezioni comunali, si rivolge a Caio, suo sostenitore politico, che è particolarmente introdotto nei vari ambienti della città; gli chiede di procurargli voti, dichiarandosi disposto ad elargire denaro o altra utilità, nonché disponibile, una volta eletto, a soddisfare gli interessi dell'associazione mafiosa, che è presente in quella città, e che vanta una notevole “credibilità” sugli abitanti di quel territorio. Caio, pur non conoscendo di persona i partecipi a quell'associazione mafiosa che, in città - così come si usa dire - fa il bello e il cattivo tempo - si rivolge a un suo conoscente, Gaio, il quale si rende portavoce presso gli affiliati alla società mafiosa delle necessità di Tizio e della sua dichiarata disponibilità a restituire il favore. Il contratto si perfeziona con una stretta di mano (senza lasciare traccia alcuna) tra Gaio e Mevio, che agisce per conto dell'associazione mafiosa; residuano le due obbligazioni contrapposte: Mevio, infatti, si è impegnato a procurare voti; Tizio, il candidato che, per interposta persona (ma qui le interposizioni sono almeno 2), si è impegnato, nella peggiore delle ipotesi, a “soddisfare gli interessi o le esigenze dell'associazione mafiosa”. Rileva sia per chi accetta la promessa, sia per chi quella promessa fa, solo l'impegno; rileva, in entrambi i casi, anche l'opera dell'intermediario. Non rileva ai fini della punibilità se il candidato, destinatario di quei voti, risulterà eletto; tuttavia, il comma 3 della norma in commento, prevede l'applicazione di un'aggravante da applicare solo a chi ha accettato la promessa di voti, nel caso in cui egli sarà risultato eletto. La norma impone un sensibile aumento di pena «se colui che ha accettato la promessa di voti, a seguito dell'accordo di cui al primo comma, è risultato eletto nella relativa consultazione elettorale». La pena, prevista dal primo comma dell'art. 416-bisc.p. (da 10 a 15 anni), dovrà essere aumentata della metà. Trattasi di un'aggravante di evento, che fa dipendere da un fatto, estraneo al diretto controllo del responsabile, la quantità di pena allo stesso irrogabile. La circostanza è prevista per il solo candidato, che ha accettato la promessa di voti, provenienti dall'associazione mafiosa e che sarà risultato eletto a seguito della competizione elettorale, in occasione della quale ha ricevuto la promessa di voti. Ora, a parte il fatto, che accettare la promessa di voti, da parte del mafioso o della società mafiosa, è cosa ben diversa dall'aver effettivamente avuto quei voti, acquisiti illecitamente attraverso l'utilizzo del metodo mafioso, quel che ancora di più desta preoccupazioni è il fatto che la norma non consente di valutare l'utilità del contributo mafioso in relazione al risultato elettorale conseguito. Se, in ipotesi fosse possibile accertare che il budget elettorale di quel candidato è pari a mille voti, gli stessi che ha riportato in altre competizioni elettorali (e i politici sono in grado di fare questi conti!) e che, questa volta, con l'aiuto del mafioso, ha riportato cento voti in più. Nell'ipotesi che quel candidato sarebbe comunque stato eletto con i suoi originari mille voti, e anche con meno, si determinerebbe l'irrilevanza dell'apporto mafioso, ma quel candidato sarà ugualmente punibile con una pena pari, nel massimo, a 22 anni e sei mesi di reclusione! La norma, sia per la tecnica legislativa usata, sia per l'evidente ingiustizia che essa rappresenta, non appare di facile inserimento nel contesto del nostro sistema penale. Sarà facile che essa, sin dalle prime sue applicazioni, sarà sottoposta al vaglio della Corte costituzionale. La normativa residuale, prevista dal d.P.R. 361/1957, che disciplina i reati di corruzione e di coercizione elettorale
Stante la medesima oggettività dell'azione che qualifica lo scambio elettorale politico mafioso, con quella descritta nelle norme penali previste dalla legge elettorale, si era anche pensato di ravvisare nel fatto, compiutamente, descritto dal reato di cui all'art. 416-terc.p. la violazione di più norme penali e, in conseguenza di tanto, di ravvisare il concorso formale tra il reato di scambio elettorale politico mafioso e i reati elettorali, previsti dal d.P.R. 361 del 1957, recante le norme che disciplinano l'elezione alla Camera dei Deputati. Il riferimento è agli artt. 96 e 97 di tale legge, che descrivono, rispettivamente, il delitto di corruzione elettorale e quello di coercizione elettorale. La condotta è molto simile a quella fatta oggetto della disciplina che prevede il delitto di scambio elettorale politico mafioso; si sanziona chi ottiene vantaggi elettorali, promettendo o somministrando denaro, ovvero chi costringe l'elettore a dare il suo voto, utilizzando nei suoi confronti violenza o minaccia. Pressoché uguale è anche la finalità che contraddistingue la medesima condotta; del tutto diverse, invece, sono le modalità dell'azione. Nel caso di scambio elettorale politico mafioso, é proprio l'utilizzo del metodo mafioso che qualifica il comportamento, aggravandone la punibilità. Nel raffronto tra le norme penali previste in tema di elezioni, e quella che attiene, più da vicino, ai reati di mafia, prevale quest'ultima, perché contiene elementi ulteriori che ne specificano la condotta. La norma elettorale, tuttavia, conserva il suo carattere residuale, restando applicabile ogni qual volta non sarà stato adeguatamente dimostrato l'utilizzo del “metodo mafioso” o, con riferimento all'art. 416-ter, così come impone la recente modifica legislativa, l'appartenenza dell'autore all'associazione a delinquere di stampo mafioso. In conclusione
L'intento perseguito dal Parlamento nel prevedere la legge 43 del 21 maggio 2019 è sicuramente pregevole. Bisognava tutelare il funzionamento del meccanismo democratico del voto e sottrarlo il più possibile alle influenze della criminalità organizzata, e il legislatore ci ha quanto meno provato e lo ha fatto utilizzando, quale base di avvio, la norma del 2014 che, tutto sommato, aveva retto bene nella pratica, per quanto utilizzando i correttivi che la Cassazione aveva prontamente dispensato sul piano dell'interpretazione. Sarebbe bastato recepire quelle indicazioni e il lavoro si sarebbe concluso egregiamente. La nuova legge, per quel che abbiamo già annotato, si presta a nuovi problemi interpretativi; altri sicuramente emergeranno in sede di applicazione. Si nota un sostanziale quanto inutile innalzamento delle pene, che raggiunge livelli di palese iniquità; basti pensare che il candidato, che accetta la promessa di voti dalla mafia, sarà punito con la stessa pena prevista per chi appartiene alla mafia e, per conto di essa, commette crimini ben più gravi. Se poi avrà la sfortuna si essere eletto (perché di “sfortuna”, in questo caso, deve parlarsi), sarà assoggettato a pene più gravi di quelle previste per i capi, promotori e organizzatori dell'associazione mafiosa, quella che magari ha fornito una manciata di voti al predetto candidato, poi risultato eletto. Ciò senza che sia possibile per il giudice valutare la rilevanza, in relazione all'elezione, dell'apporto dei voti acquisiti illecitamente. Ancora più grave è la nuova disciplina del voto di scambio politico mafioso, se rapportata all'esplicita previsione della presenza di soggetti intermediari: ce ne possono essere almeno uno, che fa gli interessi di chi accetta la promessa, e almeno un altro, che fa gli interessi del sodalizio mafioso. Ma diamo per scontato che i quattro soggetti, tra i quali viene concordato “lo scambio”, si muovano nel pieno rispetto dei mandati ricevuti? Cosa accade nel caso in cui uno degli intermediari risulterà aver ecceduto i limiti della delega, assumendo ad esempio iniziative non concordate in precedenza? Come al solito, sarà la giurisprudenza a individuare adeguate soluzioni interpretative |