Socio lavoratore con rapporto di lavoro subordinato: computo ai fini della tutela reale e decorso della prescrizione in costanza di rapporto

Luigi Santini
17 Giugno 2019

A seguito della disciplina introdotta dalla l. 3 aprile 2001, n. 142, in una società cooperativa anche i soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato devono essere computati ai fini del requisito dimensionale per l'applicazione del regime di stabilità del rapporto di lavoro, con la conseguenza della fruibilità anche dai lavoratori dipendenti non soci della tutela prevista dall'art. 18, l. n. 300 del 1970, nel testo novellato dall'art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012
Massima

A seguito della disciplina introdotta dalla l. 3 aprile 2001, n. 142, in una società cooperativa anche i soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato devono essere computati ai fini del requisito dimensionale per l'applicazione del regime di stabilità del rapporto di lavoro, con la conseguenza della fruibilità anche dai lavoratori dipendenti non soci della tutela prevista dall'art. 18, l. n. 300 del 1970, nel testo novellato dall'art. 1, comma 42, l. n. 92 del 2012.

Il caso

La controversia trae origine da una impugnativa di licenziamento per giustificato motivo oggettivo da parte di un socio lavoratore di una cooperativa di autotrasporti con rapporto di lavoro subordinato, al cui accoglimento è conseguita, in primo grado, l'applicazione del regime di tutela reale “attenuata” ex comma 4 dell'art.18, l. n.300 del 1970, nel testo novellato dal comma 42 dell'art. 1, l. n. 92 del 2012, e, in secondo grado, l'applicazione del regime di tutela “obbligatoria”, ex art.8,l. n. 604 del 1966. Secondo la Corte d'appello, in particolare, non sussisterebbe il requisito dimensionale utile per il raggiungimento della soglia per l'applicazione della tutela reale prevista dall'art. 18, l. n. 300 del 1970, non potendosi a tal fine computare i soci lavoratori della cooperativa con rapporto di lavoro subordinato. Il dipendente, vistasi applicare la tutela “obbligatoria” dalla Corte territoriale, ha quindi proposto ricorso per Cassazione, lamentando l'erronea esclusione dal computo del requisito dimensionale dei soci lavoratori della cooperativa con rapporto di lavoro subordinato (che nella fattispecie sarebbe stato invece con essi raggiunto), in funzione dell'applicazione della tutela reale.

La questione

Pur nello stato di perenne incertezza interpretativa che contraddistingue questa materia, la sentenza in commento si propone di accertare se l'evoluzione normativa e l'elaborazione giurisprudenziale consentano di stabilire se i soci lavoratori di cooperativacon rapporto di lavoro subordinato debbano essere computati o meno ai fini del calcolo del requisito dimensionaleper l'applicazione del regime di stabilità reale del rapporto di lavoro.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in disamina procede ad una sintetica descrizione dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale in subiecta materia, avente ad oggetto una disciplina di legge di accentuata specialità, sia rispetto al versante lavoristico che con riguardo al diritto societario, e quindi caratterizzata da incertezze e dubbi interpretativi di oggettiva controvertibilità e di non facile soluzione.

La Cassazione dichiara preliminarmente di voler superare l'orientamento seguito dalla Corte territoriale, secondo cui i soci di una cooperativa di produzione e lavoro non potrebbero considerarsi dipendenti della medesima per le prestazioni rivolte a consentire ad essa il conseguimento dei suoi fini istituzionali, con conseguente loro non computabilità nel numero dei dipendenti utili ai fini della applicabilità della tutela reale (trattandosi di prestatori il cui posto di lavoro è tutelato non dalla stabilità del rapporto ma dallo stesso patto sociale, sicché la relativa perdita può avvenire non per licenziamento ma per esclusione dalla società). Tale risalente indirizzo trovava la sua ragion d'essere nella c.d. teoria monista, secondo cui la prestazione di lavoro (pur necessaria ai fini della fattispecie) trovava titolo nel contratto di società, nella cui causa giuridica veniva quindi a confluire anche la prestazione lavorativa.

Con la l. 3 aprile 2001, n. 142 ("Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore") il legislatore ha dato vita ad una incisiva riforma della cooperazione di lavoro, introducendo un compiuto sistema di diritti e di garanzie per il socio lavoratore ed attribuendo a tale rapporto una espressa qualificazione giuridica, idonea a far configurare il lavoro cooperativo come rapporto speciale, distinto tanto dal lavoro puramente associativo quanto dal lavoro solo subordinato. In particolare, il testo originario dell'art. 1,l. 3 aprile 2001, n.142 aveva previsto che "il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all'instaurazione del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali". Nella prospettiva della irriducibilità del lavoro cooperativo ad una dimensione puramente societaria, è stato quindi previsto che lo scambio mutualistico avente ad oggetto la prestazione di attività lavorativa da parte del socio avviene sulla base di un “ulteriore e distinto rapporto di lavoro” (le parole “e distinto” sono state poi soppresse dalla l.n. 30 del 2003), tramite il quale il socio di cooperativa “contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali”(v. il comma 3 dell'art.1, l. n. 30 del 2003). In base alla l. n.142 del 2001 la posizione del socio lavoratore è dunque costituita dal collegamento necessario di due rapporti giuridici (c.d. teoria dualistica), in quanto il contratto di lavoro presuppone logicamente e giuridicamente quello di società, e la sua stipula rappresenta un passaggio obbligato sia per la società che per il socio, con la conseguenza che il lavoro cooperativo si viene a configurare come rapporto qualificato dal concorso di una molteplicità di cause negoziali collegate.

Secondo l'originario impianto normativo di cui alla l. 3 aprile 2001, n.142, si era ritenuto che “non può essere fondatamente contestata la cessazione del rapporto di lavoro del socio – invocando la tutela contro il licenziamento – ogni volta che venga a cessare contestualmente anche il rapporto associativo tra le medesime parti atteso l'inscindibile nesso – non solo genetico ma anche funzionale – tra i due istituti”. Secondo tale impostazione, quindi, in caso di legittima esclusione dalla cooperativa il socio lavoratore subordinato sarebbe privo di tutela in caso di licenziamento illegittimo.

A tale indirizzo si era contrapposto un altro orientamento, secondo cui, ove fosse intimato al socio lavoratore un provvedimento formale di licenziamento (accanto alla delibera di esclusione da socio), a detto licenziamento potevano applicarsi tutte le norme sostanziali, procedurali e processuali tipiche dell'istituto. Per quanto riguarda l'art.18,st. lav., inoltre, la cui applicabilità era espressamente esclusa nell'ipotesi in cui “venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo” (art.2, comma 1, l. n. 142 del 2001), si è ritenuto, a contrario, che in caso di permanenza del vincolo sociale tale norma avrebbe potuto trovare applicazione nei confronti del socio lavoratore.

Con la novella avvenuta per opera dell'art. 9, l. n. 30 del 2003, è stata poi disposta l'eliminazione delle parole “e distinto” dall'art.1,l.n. 142 del 2001, con l'effetto di evidenziare la dipendenza genetica e funzionale del rapporto di lavoro dal rapporto sociale, e si è previsto che il rapporto di lavoro del socio di cooperativa si estingua ex lege, automaticamente, con il venir meno del rapporto sociale: il rapporto di lavoro cessa quindi con il recesso o l'esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli artt. 2526 e 2527 del codice civile (oggi artt.2532 e 2533, c.c.). Pur se la permanenza dell'aggettivo “ulteriore” conferma la duplicità dei rapporti giuridici riconducibili al socio lavoratore, la soppressione dell'aggettivo “distinto” va letta come sottolineatura della subalternità giuridica del rapporto lavorativo rispetto a quello societario. Ciò in linea con quanto stabilito dall'ultimo comma dell'art.2533,c.c., ai sensi del quale “Qualora l'atto costitutivo non preveda diversamente, lo scioglimento del rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti”. Ne consegue che, a norma dell'art. 9,l.n.30 del 2003, lo scioglimento del vincolo sociale determina automaticamente ope legis l'estinzione del rapporto lavorativo, quale che sia la natura di quest'ultimo (subordinata, parasubordinata, autonoma), senza che sia richiesto alcun ulteriore atto risolutivo (simul stabunt, simul cadent). La l.n. 30 del 2003 ha reso chiara e non più contestabile l'inscindibilità del legame tra le due vicende estintive, rendendo automatico l'effetto risolutivo che la cessazione del rapporto associativo proietta sul rapporto di lavoro, determinando l'estinzione ipso iure di quest'ultimo a prescindere dall'adozione di un autonomo atto risolutorio (in tal senso, R. Riverso, La competenza in materia di socio lavoratore tra delibera di esclusione e licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 34, 2, 2015, p. 606).

Con sentenza 23 gennaio 2015,n.1259, la Suprema Corte ha tuttavia sostenuto che debba comunque essere accertata la ragione dell'estinzione, ovvero la natura lavoristica o societaria della causale che ha condotto alla cessazione dei rapporti. Secondo tale decisione - qualora l'esclusione del socio lavoratore subordinato si fondi esclusivamente sul suo licenziamento - deve trovare applicazione l'art.18,l. n.300 del 1970 (in forza del rinvio di cui all'art. 2, l. n.142 del 2001, che esclude l'applicabilità dell'art. 18 solo “ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”), né ricorrerebbe l'ipotesi di cui al secondo comma dell'art.5,l. n.142 del 2001, come modificato dalla l.n.30 del 2003 (che prevede l'automatica caducazione del rapporto di lavoro alla cessazione del rapporto associativo), con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria prevista dall'art. 18, st. lav., in ipotesi di illegittimità del licenziamento ed in presenza del necessario requisito dimensionale (cfr. anche Cass. n. 17868 del 2014). In altri termini, se il licenziamento precede l'esclusione dalla cooperativa oppure, se anche non la precede, la determina sul piano delle ragioni sostanziali, l'annullamento della esclusione del socio comporterebbe l'applicazione della disciplina ordinaria sulla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato.

Successivamente, le Sezioni Unite, con sentenza 20 novembre 2017, n. 27436, ritenendo che il precedente orientamento non cogliesse la specificità della posizione del socio lavoratore (che non si limita a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie capacità professionali, ma concorre alla gestione dell'impresa), hanno fornito una differente interpretazione della disciplina di cui alla l. n. 142 del 2001, evidenziando la sussistenza di un collegamento negoziale necessario tra il rapporto associativo e quello di lavoro, collegamento che, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 30 del 2003, ha assunto, nella fase estintiva del rapporto, una connotazione unidirezionale. La cessazione del rapporto di lavoro, non soltanto per recesso datoriale, ma anche per dimissioni del socio lavoratore, non implica necessariamente il venir meno di quello associativo. La cessazione del rapporto associativo, tuttavia, trascina con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro, sicché il socio, qualora sia estromesso dal rapporto associativo, non può più essere lavoratore.

Sulla base di tale premessa, le Sezioni Unite hanno affermato che non rilevano le ragioni in base alle quali è stato escluso il socio, né risulta rilevante indagare se l'esclusione si sia fondata su ragioni disciplinari (e dunque sul licenziamento), oppure, al contrario, se sia stato il licenziamento a cagionare l'estromissione, dovendosi invece valutare in senso oggettivo, senza analizzarne le ragioni, la vicenda dell'estromissione del socio: se vi è delibera di esclusione del socio lavoratore subordinato, indipendentemente dalla ragione peculiare, tale vicenda estintiva determina l'estinzione del rapporto di lavoro, in virtù del carattere unidirezionale del collegamento dei due rapporti.

Osservazioni

Nella cornice ermeneutica sopra descritta, sul presupposto che in costanza del vincolo sociale, ed in presenza del necessario requisito dimensionale, il rapporto di lavoro del socio lavoratore di cooperativa deve ritenersi assistito dalla garanzia di stabilità reale (Cass. 9 luglio 2018, n.17989), la sentenza in commento ha sottolineato che l'art.18,st. lav., anche a seguito delle novelle di cui alla l. n.108 del 1990, prima, e l. n.92 del 2012, poi, non ha indicato i soci lavoratori di cooperativa nella disposizione che ha specificamente elencato le categorie di soggetti esclusi dal computo dei dipendenti utili per il calcolo del requisito dimensionale. A ciò si aggiunga che il legislatore ha altresì espressamente previsto al comma 1 dell'art.2, l.n. 142 del 2001, che “Ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la legge 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell'articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”, dovendosene desumere, a contrario, che in costanza del rapporto associativo, l'art.18,st. lav., trova integrale applicazione anche nei confronti dei soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato, i quali devono essere dunque computati ai fini del calcolo del requisito dimensionale.

Logico corollario di tale conclusione è che possono fruire della tutela prevista dall'art. 18, l. n.300 del 1970, nel testo novellato dal comma 42 dell'art.1, l. n.92 del 2012, anche eventuali lavoratori dipendenti non soci.

In realtà, è proprio in favore di tale ultima categoria di soggetti che la sentenza in commento sembra poter produrre i suoi più rilevanti effetti, atteso che la posizione del socio lavoratore, escluso dal rapporto sociale e, consequenzialmente, dal rapporto mutualistico, rinviene adeguata tutela alla stregua del dettato normativo di cui all'art. 2533, c.c., che, dopo aver elencato le cause di esclusione del socio, contempla la facoltà di quest'ultimo di proporre opposizione al tribunale avverso la delibera degli amministratori o, se previsto dall'atto costitutivo, dell'assemblea dei soci. In altri termini, considerata la peculiarità della posizione del socio lavoratore (il cui rapporto di lavoro, nella fase estintiva, è regolato non dalle norme sue proprie, ma da quelle del rapporto associativo) e tenuto conto del fatto che la l. n.30 del 2003 prevede l'automatica caducazione del rapporto di lavoro alla cessazione del rapporto associativo (senza necessità di un autonomo atto di licenziamento), risulta evidente che la tutela del socio lavoratore trova fondamento nel rapporto sociale e si realizza attraverso l'impugnazione (ex comma 3 dell'art.2533,c.c.) dell'atto di esclusione, il cui annullamento, ripristinando ex tuncla posizione sociale dell'escluso, è astrattamente idoneo ad assicurare una tutela ripristinatoria piena, o quanto meno per equivalente (stante la già evidenziata inscindibilità del legame tra le due vicende estintive funzionalmente collegate) (così G. Meliadò, L'esclusione e il licenziamento del socio lavoratore nell'era del Jobs Act, in Riv. it. dir. lav., 2018, 4, p. 574).

Del resto, le Sezioni Unite hanno chiarito che “in caso di impugnazione, da parte del socio, del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria non è inibita dall'omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni, afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria” (Cass., sez. un.,20 novembre 2017, n.27436). Il che significa che il socio lavoratore, escluso dalla società cooperativa e licenziato, potrà contestare la legittimità del licenziamento anche senza impugnare la delibera di esclusione, con la conseguenza che, in caso di recesso illegittimo, potrà ottenere la tutela risarcitoria prevista dall'art. 8,l. n. 604 del 1966 (l'art.2, l. 3 aprile 2001, n. 142, preclude la tutela prevista dall'art.18,st. lav., ma viene lasciata impregiudicata “l'esperibilità di tutela diversa da questa, ossia quella risarcitoria contemplata dall'art. 8 della legge 16 luglio 1966, n. 604”), ma non potrà aspirare alla restituzione della qualità di lavoratore, a ciò ostandovi il comma 2 dell'art.5, l.n. 142 del 2001.

In conclusione, la tutela civilistica di diritto comune derivante dall'annullamento della delibera di esclusione è astrattamente in grado di produrre effetti nel complesso più favorevoli per il socio lavoratore rispetto a quelli derivanti dalla tutela giuslavoristica, che non possiede sempre una portata reintegratoria, essendo differenziata a seconda del requisito dimensionale del datore di lavoro (la tutela contro l'esclusione del socio, invece, non tiene conto del numero dei soci, applicandosi indistintamente alle grandi e alle piccole cooperative). Deve inoltre considerarsi l'attenuazione della tutela reintegratoria prevista dalla l. n.92 del 2012 (ed ancor più dal d.lgs. n. 183 del 2015), per cui l'estensione dell'ambito di applicazione dell'art.18 St. mediante il computo dei soci lavoratori ai fini del requisito dimensionale, pur condivisibile nella sua coerenza logico-giuridica, non necessariamente comporta una estensione delle garanzie in favore di questi ultimi, posto che l'applicazione della tutela di cui all'art.18,st. lav., nel testo novellato dal comma 42 dell'art. 1, l. n. 92 del 2012, potrebbe finire con il produrre effetti tutto sommato meno favorevoli rispetto a quelli discendenti dalla applicazione della tutela civilistica apprestata dal diritto societario in conseguenza dell'annullamento della delibera di esclusione del socio.

Il decorso della prescrizione in costanza di rapporto nei confronti dei soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato

Un breve notazione conclusiva va fatta in ordine alle ricadute dei principi sopra esposti sul problema della prescrizione dei diritti retributivi del socio lavoratore, atteso che nella decisione in commento si pone in evidenza il noto orientamento giurisprudenziale secondo cui, in caso di licenziamento del socio con rapporto di lavoro subordinato, “la maggiore onerosità per il conseguimento della tutela restitutoria, legata, oltre che all'impugnativa del licenziamento stesso, anche alla tempestiva opposizione alla contestuale delibera di esclusione, non può essere, di per sé, definita equivalente ad una condizione di metus caratterizzante lo svolgimento del rapporto lavorativo, tale da indurre il socio lavoratore a non esercitare i propri diritti per timore di perdere il posto di lavoro” (Cass. 9 luglio 2018, n. 17989).

Da tale assunto, dovrebbe conseguire, per il caso di sussistenza del requisito dimensionale per l'applicazione del regime di stabilità reale, il decorso della prescrizione in costanza di rapporto nei confronti dei soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato.

Tale principio, tuttavia, deve essere contemperato con il recente approdo giurisprudenziale secondo cui, a seguito della graduazione delle tutele introdotta con le modifiche all'art. 18 ad opera della l. n.92 del 2012 (con conseguente previsione di una tutela spesso di natura solo indennitaria, e solo in circoscritte ipotesi di tipo reintegratorio “pieno”), i lavoratori, pur dipendenti di un'azienda ricadente nell'area di applicazione della tutela reale, verserebbero in ogni caso — per tutta la durata del rapporto lavorativo — in una situazione di metus nel far valere le proprie ragioni nei confronti del datore di lavoro, così che la decorrenza della prescrizione dovrebbe ritenersi in ogni caso sospesa in corso di rapporto (v. Tribunale Milano, 16 dicembre 2015, n. 3460).

Con riguardo al socio lavoratore di cooperativa, tuttavia, va tenuta in debita considerazione l'operatività del già richiamato dal comma 1 dell'art. 2, l. 142 del 2001 (“Ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la l. 20 maggio 1970, n. 300, con esclusione dell'art. 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”), per cui, trovando applicazione in costanza del rapporto associativo l'art.18, st. lav., nei confronti dei soci-lavoratori subordinati, dovrebbe concludersi che con riguardo a questi ultimi il termine prescrizionale decorre anche in corso di rapporto.

Appare peraltro preferibile, allo stato, evitare soluzioni troppo formalistiche e propendere, come da consolidato orientamento giurisprudenziale, per un accertamento che privilegi il concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro, e cioè l'effettiva esistenza di una situazione psicologica di "metus" del lavoratore, e non già alla stregua della diversa normativa garantistica che avrebbe dovuto astrattamente regolare il rapporto, ove questo fosse sorto fin dall'inizio con le modalità e la disciplina che il giudice, con un giudizio necessariamente “ex post”, riconosce applicabili (cfr., Cass., sez. lav., 4 giugno 2014, n.12553; Cass., sez. lav., 13 dicembre 2004, n.23227; Corte appello Milano, 30 aprile 2019, n. 376).

In ogni caso, considerate le incertezze interpretative derivanti da una normativa assai stratificata ed in continua evoluzione, appare allo stato prudente attendere gli ulteriori sviluppi dell'elaborazione giurisprudenziale in materia, stante l'oggettiva controvertibilità delle questioni sottese.