Aspetti sostanziali e processuali delle principali eccezioni nel contenzioso originato dai contratti assicurativi

Gianluca Cascella
20 Giugno 2019

Il contenzioso originato dai contratti assicurativi, per le diverse ipotesi di responsabilità civile e/o di rischi avverso i quali viene apprestata la copertura si caratterizza per il riscontro, con estrema frequenza, nelle difese degli assicuratori, di eccezioni, aventi fonte legislativa ovvero contrattuale, attraverso cui le imprese intendono o sottrarsi del tutto all'adempimento degli obblighi di garanzia/risarcitori che discendono a loro carico dalle polizze, o quantomeno ottenere una limitazione dei loro obblighi risarcitori attraverso pattuizioni che mirano a porre a carico dell'assicurato/danneggiato una quota del danno ed il relativo carico risarcitorio, sia prevedendo la risarcibilità del danno solo oltre un determinato limite, sia prevedendo un limite complessivo all'esposizione economica dell'assicuratore.
Finalità dell'assicurazione della responsabilità civile

Per quanto di interesse di queste righe, occorre una breve premessa sulla funzione e finalità dell'assicurazione contro i danni, e degli obiettivi che le parti perseguono con la conclusione di tale tipologia di contratto.

La definizione normativa del contratto in questione si rinviene, come noto, nell'art. 1882 c.c., secondo cui, attraverso la conclusione di un contratto di assicurazione, l'assicuratore, dietro il corrispettivo del pagamento di un premio, assume l'obbligo di rivalere l'assicurato, entro precisi limiti, che sono quelli pattuiti in contratto, i danni che egli ha subito a seguito di un sinistro.

Come afferma la dottrina, il concetto che si pone alla base del contratto di assicurazione è il rischio, cui vanno incontro i beni e/o il patrimonio di un soggetto, come anche la vita del medesimo, e pertanto la funzione di tale tipologia contrattuale si individua nel trasferimento del rischio in esame, dal soggetto su cui grava ad un altro soggetto, appunto l'assicuratore (F. GALGANO, Il contratto di assicurazione, in Trattato di Diritto Civile, 2 Ed., Vol. II, Milano, 2010, p. 785). Attività, quella dell'assicuratore, che, come da altri si afferma, si sostanzia nel compimento di una operazione economica il cui fulcro può individuarsi nel porre in comune, tra una molteplicità di soggetti accomunati dall'identità del rischio cui vanno incontro, il carico derivante dalle conseguenze economiche negative del verificarsi di tale evento, che invece di gravare su ognuno e nella sua interessa, grava su di essi solo in parte, attraverso il pagamento del premio (G. ROJAS ELGUETA, Il contratto di assicurazione, in Diritto Civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, Vol. III, Milano, 2009,p. 968 e ss.), come avviene, a mero titolo di esempio, nel caso dell'assicurazione r.c.a.; in particolare, per la richiamata opinione l'esistenza di un rischio, anzi, la sua preesistenza è indispensabile perché possa parlarsi di assicurazione (G.ROJAS ELGUETA, op. cit., p. 970) poiché in assenza di esso, inteso, in linea generale, come evento futuro ed incerto, che può riguardare sia il patrimonio di un soggetto, sia la sua vita sia perché mai esistito, a seconda che si tratti di assicurazione contro i danni ovvero sulla vita - sia perché venuto meno anteriormente alla stipula del contratto - l'art. 1895 c.c. sanziona con la nullità il contratto assicurativo con la conseguenza che non è consentita, ai contraenti, la creazione del rischio (G. ROJAS ELGUETA, op. cit., p. 972-973); tanto, come afferma altro autore, vale anche nell'ipotesi in cui, invece, i contraenti erano convinti dell'esistenza di un rischio, ovvero nella ipotesi del c.d. rischio putativo (F. GAZZONI, Manuale di Diritto Privato, XIV Ed., Napoli, 2009, p. 1245); inoltre, si osserva come il rischio che si verifichi un evento negativo per l'assicurato costituisce l'elemento che giustifica la collocazione del contratto di assicurazione nel novero dei contratti aleatori (P.V. PACILEO, Responsabilità e contratto di assicurazione, in Trattato della Responsabilità Civile, diretto da P. Stanzione, Vol. II, Padova, 2012, p.1201), la cui entità è suscettibile di incidere sul processo di formazione della volontà dei contraenti (P.V. PACILEO, op. loc. cit.).

In particolare nell'assicurazione contro i danni (una delle due ipotesi previste dall'art. 1882 c.c., come noto) l'operazione economica si realizza in tre momenti, tra loro concatenati e temporalmente conseguenti, ovvero la conclusione del contratto, cui tiene dietro, da parte dell'assicurato, il pagamento del premio, come suo obbligo contrattuale (uno di essi) e, per converso, il pagamento dell'indennità da parte dell'assicuratore, specularmente, quale adempimento dell'obbligo indennitario dal medesimo contrattualmente assunto ed, infine, il surrogarsi, a seguito del pagamento in questione (ipotesi di surrogazione per pagamento) dell'assicuratore nei diritti dell'assicurato (F. GAZZONI, op. cit., p. 1248).

In giurisprudenza, il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo, nell'assicurazione contro i danni, è rappresentato da un sinistro, verificatosi in dipendenza di un rischio assicurato e nell'ambito spaziale e temporale in relazione al quale le parti hanno previsto l'operatività della polizza e quindi delle garanzie con essa prestate (Trib. Brescia, sez. II, 6 febbraio 2019, n. 1134); in particolare, secondo l'interpretazione data dalla giurisprudenza di legittimità alla nozione di sinistro, per “sinistro” deve intendersi un evento dannoso avverso e non voluto dall'assicurato, di guisa che «il sinistro (o rischio in concreto/avverato) di cui all'art. 1882 c.c. è l'avveramento del rischio di cui all'art. 1895 c.c. (rischio in astratto) e il rischio assicurabile, nell'assicurazione contro i danni, è quello che ha ad oggetto un evento futuro, possibile, incerto, oggettivamente esistente e non artificialmente creato, derivante da causa non voluta pregiudizievole per l'assicurato»(Sez. Un., 24 settembre 2018, n. 22437, in Responsabilità civile e previdenza, 2019, 1,163); occorre allora tenere presente che la nozione accolta dalle Sezioni Unite del termine “sinistro” risulta così esplicitata «Non si dubita, infatti, che nell'assicurazione contro i danni (art. 1882 c.c.) la garanzia riguardi il danno "prodotto da un sinistro" e che, quest'ultimo, alla stregua del linguaggio giuridico fatto proprio dal "diritto vivente" (a prescindere, quindi, dalla anfibologia del linguaggio della prassi assicurativa), è da ravvisarsi nel fatto, materiale e storico (o come, si esprime l'art. 1917 c.c. il "fatto accaduto"), idoneo a provocare il danno»(Cass. civ., Sez. Un., 24 settembre 2018, n. 22437, cit.).

Natura delle eccezioni

Al riguardo è indispensabile tenere presente che le difese del convenuto si suddividono in eccezioni vere e proprie (di rito e di merito) e mere difese.

Quanto alle mere difese, con la loro proposizione il convenuto si limita a contestare l'esistenza del diritto preteso dall'attore, chiedendo in sostanza che ne venga accertata l'insussistenza (C. MANDRIOLI, A. CARRATTA, Diritto Processuale Civile, vol. I, Milano, 2015, p. 145) in quanto, come ritiene la S.C., la difesa del convenuto, se volta a negare il fatto costitutivo della domanda proposta nei suoi confronti, possiede natura di mera difesa (Cass. civ., sez. III, 3 ottobre 2016, n. 19631, in Giust. Civ., Mass., 2017): è il caso, ad esempio, della contestazione della titolarità, in capo all'attore, del diritto azionato, ipotesi in relazione alla quale la S.C., con decisione delle Sezioni Unite, ha affermato come, alle contestazioni sollevate dal convenuto riguardo alla titolarità del rapporto controverso, affermata dall'attore, deve riconoscersi natura di mera difesa, come tale proponibile in ogni fase del giudizio (Cass. civ., Sez. Un., 16 febbraio 2016, n. 2951, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2017, 2, 517) con la conseguenza, non meno rilevante, che all'eventuale contumacia o tardiva costituzione del convenuto non può attribuirsi valenza di non contestazione ovvero idoneità ad alterare la ripartizione degli oneri probatori, ferme le eventuali preclusioni maturate per l'allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti (Sez. Un., 16 febbraio 2016, n. 2951, cit.); in definitiva, per i giudici di legittimità «La titolarità della situazione sostanziale dedotta in giudizio è un elemento costitutivo della domanda, rientrante nell'onere deduttivo e probatorio dell'attore, salvo che il convenuto la riconosca oppure svolga difese incompatibili con la sua negazione» e tale criterio appare pacificamente estensibile a ciascuna ipotesi in cui oggetto di contestazione, da parte del convenuto, sono i fatti costitutivi dell'avversa pretesa (Sez. Un., 16 febbraio 2016, n. 2951, cit.).

Il principio appena richiamato è stato di recente ulteriormente precisato dai giudici di legittimità, con l'affermare che «Chi fa valere un diritto in giudizio, non può limitarsi ad allegare che quel diritto gli appartiene, ma, deve dimostrare che vi sono ragioni giuridiche che collegano il diritto alla sua persona. Deriva da quanto precede, pertanto, che sul piano dell'onere probatorio - in base alla ripartizione fissata dall'articolo 2697 del c.c.- la titolarità del diritto è un fatto appartenente alla categoria di fatti-diritto, che della domanda costituisce il fondamento, sicché esso forma oggetto di una mera difesa e non di una eccezione, con la quale si contrappone un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, né tantomeno, una eccezione in senso stretto, proponibile solo in sede di costituzione in giudizio e non rilevabile d'ufficio. Pure il giudice, quindi, può rilevare dagli atti la carenza di titolarità del diritto anche d'ufficio» (Cass. civ., sez. III, 10 gennaio 2019, n. 453, in Guida al Diritto, 2019, 16, 56).

Analoga natura, tanto per restare in tema di mere difese, è stata dalla S.C. riconosciuta alla contestazione relativa alla legitimatio ad causam, con l'affermarsi infatti «La "legitimatio ad causam" si ricollega al principio dettato dall'art. 81 c.p.c., secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, e, trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza "inutiliter data", comporta la verifica, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo (col solo limite della formazione del giudicato interno), in via preliminare al merito, della coincidenza dell'attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta» (Cass. civ., sez. VI, 6 dicembre 2018, n. 31574, in Giust. Civ., Mass., 2019); infine, tra le eccezioni in senso lato, per la giurisprudenza rientra il disconoscimento di un documento, affermandosi infatti come, per la sua valida formulazione, debba ritenersi necessario, ma anche – al tempo stesso - sufficiente che il disconoscimento venga effettuato nella prima difesa utile, successiva alla produzione in giudizio del documento (Trib. Lecce, sez. II, 29 marzo 2019, n. 1151, in banca dati Juris Data) in coerenza, quindi, con quell'orientamento di legittimità che consente al contumace in primo grado di disconoscere, in appello, una scrittura privata che, prodotta in tale grado dalla sua controparte, il giudice ha preso in considerazione ai fini della decisione oggetto di appello (Cass. civ., sez. II, 29 marzo 1999, n. 2965, in Giust. Civ., Mass., 1999, 697).

In ordine al loro regime processuale, la Cassazione riconosce come il loro rilievo d'ufficio delle eccezioni non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte, ammettendolo anche in appello, purché i fatti risultino ex actis, sul rilievo che il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe sviato ove pure le questioni rilevabili d'ufficio fossero soggette ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (Cass. civ., Sez. Un., 7 maggio 2013, n. 10531, in Foro it., 2013, 12, I, 3500; conforme, Cass. civ., sez. II, 31 ottobre 2018, n. 27998, in Giust. Civ., Mass., 2018).

Quanto alle eccezioni in senso proprio, secondo la giurisprudenza di legittimità si definiscono tali quelle eccezioni la cui formulazione è riservata in via esclusiva alla parte e ne risulta, conseguentemente, precluso il rilievo d'ufficio da parte del giudice (Cass. civ., sez. VI, 6 dicembre 2018, n. 31574, cit.); in particolare, si afferma che, nel nostro ordinamento le eccezioni in senso stretto si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto integratore dell'eccezione corrisponde all'esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e, quindi, per svolgere l'efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico suppone il tramite di una manifestazione di volontà della parte, da sola o realizzabile attraverso un accertamento giudiziale (Cass. civ., sez. III, 5 agosto 2013, n. 18602, in Giust. Civ., Mass., 2013): in tale ottica, pertanto, si colloca la distinzione tra l'eccezione di prescrizione, che costituisce eccezione in senso proprio o stretto, assoggettata al regime previsto da tali eccezioni, e l'eccezione di interruzione della prescrizione, che invece può essere rilevata d'ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti, ritenendo la Corte come sia da escludere cha una sua rilevabilità esclusivamente ad istanza di parte trovi giustificazione in ragione del fatto che l'eccezione di prescrizione è rilevabile solo ad istanza, in quanto si tratta, per quanto riguarda la prima, di una eccezione in senso stretto e, quanto alla seconda, ed invece, di una controeccezione, per cui non vi è alcuna base di diritto che consenta di accomunarle quanto al loro regime di rilevazione (Cass. civ., sez. III, 5 agosto 2013, n. 18602, cit).

A proposito di tali eccezioni, come autorevolmente si afferma, con le stesse il convenuto introduce del processo, sottoponendoli all'esame del giudice, fatti nuovi che, pur senza ampliarne l'oggetto originario per come determinato dall'atto (diversamente da quanto si verifica nell'ipotesi di proposizione di una domanda riconvenzionale) possiedono rilevanza ai sensi e per gli effetti del secondo domma dell'art. 2697 c.c. (A. PROTO PISANI, Lezioni di Diritto Processuale Civile, Napoli, 1994, p. 62-63); in sostanza, sollevando un'eccezione in senso proprio, il convenuto esercita un potere processuale che l'ordinamento gli riconosce quale strumento di reazione all'avversa pretesa, al fine di paralizzarla (R. ORIANI, (voce) Eccezione, in Digesto disc. priv., sez. civ., Torino, 1991, p. 262 e ss.): quale esempio di eccezione in senso proprio può farsi, oltre a quella di inadempimento, ex art. 1460 c.c., su cui ci si soffermerà in seguito, anche quella di annullabilità del contratto nel caso in cui la relativa azione, ai sensi del primo comma dell'art. 1442 c.c., sia prescritta per decorso del previsto termine quinquennale, in quanto a tale difesa del convenuto la dottrina attribuisce efficacia paralizzante di una pretesa attorea di adempimento contrattuale (G. VERDE, Profili del processo civile, vol. I, Napoli, 2008, p. 115 e ss.); ancora, per la S.C. integra eccezione in senso proprio la prescrizione per non uso della servitù, ex art. 1073 c.c., richiedendosi pertanto che la stessa venga espressamente sollevata dalla parte che intende avvantaggiarsi dei relativi effetti, pur non essendo necessario, per la sua deduzione, l'utilizzo di formule sacramentali (Cass. civ., sez. II, 18 marzo 2019, n. 7562, in Giust. Civ., Mass., 2019); quale esempio, poi, di eccezione in senso proprio ma stavolta in rito, si pensi innanzitutto a quella di incompetenza dell'arbitro per essere non arbitrabile la relativa questione, con la conseguente sua soggezione alla preclusione temporale, per la sua tempestiva formulazione, dettata dall'art. 817, comma 3 c.p.c., che tuttavia non grava sulla parte che, non avendo partecipato all'arbitrato, impugnando il lodo contesti a monte la compromettibilità in arbitri della controversia (Cass. civ., sez. III, 28 febbraio 2019, n. 5824, in Guida al diritto, 2019, 16, 51).

Le principali eccezioni

Tra le principali eccezioni di cui si riscontra la formulazione nell'ambito del contenzioso assicurativo, si pensi a quella opposta dall'assicuratore convenuto per l'adempimento, ai sensi dell'art. 1892 c.c., allorquando cioè l'assicuratore contesta all'assicurato di aver reso, in sede di stipula del contratto, con dolo e/o colpa grave, dichiarazioni inesatte e/o reticenti, in quanto, come afferma autorevole dottrina, la possibilità riconosciuta all'assicuratore di richiedere l'annullamento del contratto assicurativo risponde di riequilibrio tra le posizioni delle parti, permettendo all'assicuratore di valutare correttamente il rischio in vista della determinazione del premio che poi l'assicurato deve corrispondere (F. GAZZONI, Manuale di Diritto Privato, XVI ed., Napoli, 2013, p. 1251); eccezione che trova il suo fondamento, secondo altra opinione, nei doveri di collaborazione nonché di informazione che la norma innanzi richiamata fa discendere a carico dell'assicurato, al fine di consentire all'assicuratore una corretta valutazione del rischio ad assumere (P.V. PACILEO, op. loc. cit.)

Perché possa dirsi integrata la fattispecie prevista dall'art. 1892 c.c., occorre ricordare che, come recentemente affermato dalla S.C., “In tema di assicurazione, l'art. 1892 c.c. presuppone il verificarsi di tre condizioni: la dichiarazione inesatta o reticente, il dolo o la colpa grave da parte dell'assicurato e il fatto che la detta reticenza sia stata determinante nella formazione del consenso da parte dell'assicuratore” (Cass. civ., sez. lav., 20 ottobre 2016, n. 21312, in Diritto&Giustizia, 24 ottobre 2016); prova che indiscutibilmente deve fornire l'assicuratore convenuto per l'adempimento, avendo la giurisprudenza al riguardo affermato che «l'onere probatorio in ordine alla sussistenza di tali condizioni, che costituiscono il presupposto di fatto e di diritto dell'inoperatività della garanzia assicurativa, è a carico dell'assicuratore» (Trib. Roma, sez. XIII, 22 febbraio 2012, n. 3742, in Guida al diritto, 2012, 17, 42 (s.m); infine, sempre a tale riguardo occorre tenere presente che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che «Le inesattezze e le reticenze dell'assicurato su circostanze che l'assicuratore conosce o avrebbe dovuto conoscere, perché notorie, non comportano una violazione dell'obbligo di collaborazione previsto dagli art. 1892 e 1893 c.c. a carico dell'assicurato bensì vanno imputate all'assicuratore con la conseguenza che non possono giustificare la riduzione dell'indennizzo in proporzione della differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se si fosse conosciuto il vero stato delle cose» (Cass. civ., sez. III, 19 dicembre 2000, n. 15939, in Giur.it., Mass., 2000).

In definitiva, per aversi aggravamento del rischio, rilevante ai sensi e per gli effetti dell'art. 1898 c.c., con conseguente obbligo di sua comunicazione da parte dell'assicurato, come afferma la giurisprudenza secondo cui «occorre che la nuova situazione presenti i requisiti della novità, nel senso che essa non sia stata prevista e non fosse, quanto meno, prevedibile dai contraenti» (App. Bologna, sez. lav., 20 maggio 2010, in banca dati Pluris-cedam.utetgiuridica.it, voce Assicurazione (contratto di) sottovoce Rischio (aggravamento): a tale conclusione si perviene sulla scorta della interpretazione data dalla S.C. all'art. 1898 c.c., avendo infatti i giudici di legittimità in proposito affermato «La previsione dell'art. 1898 c.c. non considera qualsiasi mutamento delle circostanze, ma solo "quei mutamenti che aggravano il rischio in modo tale che, se il nuovo stato di cose fosse esistito e fosse stato conosciuto dall'assicuratore al momento della conclusione del contratto, l'assicuratore non avrebbe consentito l'assicurazione o l'avrebbe consentita per un premio più elevato", deve ritenersi che l'esclusione dell'indennizzo (prevista dal 5 co. dell'art. 1898 c.c.) non possa operare in difetto del positivo accertamento - da compiere in concreto e in relazione alle specifiche circostanze del caso - circa il fatto che, conosciuto il nuovo stato delle cose, l'assicuratore non avrebbe concluso il contratto» (Cass. civ., sez. lav., 20 ottobre 2016, n. 20011, in Diritto&Giustizia, 2016, 7).

Secondo il consolidato orientamento della S.C., il rifiuto dell'assicuratore di eseguire la propria prestazione costituisce eccezione ai sensi dell'art. 1460 c.c. (Cass. civ., sez. III, 13 luglio 2010, n. 16406, in Giust. Civ., 2011, 10, I, 2367; Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2003, n. 3165, in Giust. Civ., Mass. 2003, 441).

Del resto, a dimostrazione del fatto che il rifiuto dell'assicuratore di eseguire la propria prestazione costituisce ipotesi esercizio dello strumento di autotutela previsto dall'art. 1460 c.c., il codice civile, con specifico riguardo al contratto di assicurazione, ne ha previsto anche una ipotesi specifica, cioè una peculiare applicazione dell'istituto disciplinato dalla norma innanzi richiamata, contenuta nell'art. 1901 c.c., come del resto riconosciuto dalla S.C. (Cass. civ., sez. III, 14 febbraio 2013, n. 3654, in www.iusexplorer.it); già in precedenza la giurisprudenza di legittimità, cui si è poi conformata quella di merito, aveva chiaramente affermato che il rifiuto dell'assicuratore di pagare la somma assicurata costituisce eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (Cass. civ., sez. III, 24 marzo 1997, n. 2596, in Giust. Civ., Mass. 1997, 445; Trib. Roma, sez. XII, 10 luglio 2002, in www.iusexplorer.it).

Ed invero, come afferma la giurisprudenza, le dichiarazioni dell'assicurato, alla luce del combinato disposto degli artt. 1892 e 1893 c.c., rispondono alla specifica finalità di porre l'assicuratore a conoscenza, prima della conclusione del contratto, di tutte le circostanze che possano influire sulla determinazione concreta del rischio assicurato e che difficilmente l'assicuratore medesimo può desumere aliunde, di talché le stesse assumono valore essenziale in quanto la corrispondenza tra rischio reale e rischio rappresentato dal contraente costituisce presupposto per la validità del contratto, stabilito a tutela e nell'interesse dell'assicuratore (Trib. Ascoli Piceno, sez. I, 28 gennaio 2019, n. 42, in banca dati Juris Data); ben si comprende, allora, perché, quale logico corollario di tale approdo, le corti di merito traggono la conseguenza per la quale sia da ritenersi legittimo l'operato dell'impresa di assicurazioni che, venuta a conoscenza, dopo la denuncia del sinistro, di precedenti sinistri occorsi all'assicurato e dal medesimo non dichiarati all'atto della stipula del contratto di assicurativo, nonostante espressa richiesta in tal senso da parte dell'assicuratore, rifiuti il pagamento dell'indennizzo dichiarando di voler annullare il contratto di assicurazione ai sensi e per gli effetti dell'art. 1892 c.c. (Trib. Ascoli Piceno, sez. I, 28 gennaio 2019, n. 42, cit.).

Sempre nell'ambito del contenzioso assicurativo, si pensi inoltre all'eccezione di massimale, che assume rilevanza fondamentale nell'ambito del settore dell'assicurazione per la responsabilità civile.

Come noto, con tale tipologia di contratto si intende assicurare non un bene determinato (come ad esempio un autoveicolo per il rischio furto/incendio, o un immobile per il rischio incendio, o ancora dei gioielli per il rischio furto) bensì, come afferma la dottrina, tutto il patrimonio di un soggetto che, con il compimento di una determinata attività, che può essere quella che egli svolge per professione, o comunque a lui riconducibile, come nel caso della circolazione di un veicolo a motore di sua proprietà, si espone a rischi potenzialmente impossibili da predeterminare nella loro effettiva entità, il massimale costituisce la predeterminazione massima, in termini di corrispettivo economico, dell'obbligo indennitario assunto dall'assicuratore (F. GAZZONI, op. cit., p. 1249), limite oltre il quale l'assicurato, invece, sarà chiamato a rispondere in proprio, ovvero direttamente con il suo patrimonio; il massimale, dunque, proprio perché il rischio cui l'assicurato viene ad essere esposto è potenzialmente illimitato, rappresenta il tetto massimo della copertura assicurativa che l'assicuratore si obbliga a fornire (G. ROJAS ELGUETA, op. cit., p. 989).

In pratica, la clausola integrante la pattuizione del c.d. massimale costituisce, come affermato da alcuni, una di quelle tecniche elaborate dalla prassi dei contratti di assicurazione per circoscrivere il risarcimento, rappresentando la concretizzazione di quanto prevede l'art. 1905 c.c. a proposito dei c.d. limiti al risarcimento (G. VOLPE PUTZOLU, Commentario breve al diritto delle assicurazioni, Padova, 2010, p. 115): in proposito, poi, altro autorevole studioso ha affermato come, risultando impossibile, nell'assicurazione contro i danni, stabilire a priori un valore da assicurare, il massimale, come indicato in contratto, individua e delimita l'impegno economico dell'assicuratore (M. ROSSETTI, L'assicurazione obbligatoria della r.c.a., Torino, 2010, p. 152).

Altra eccezione frequentemente sollevata è quella relativa alla c.d. franchigia, nelle varianti di franchigia semplice (o relativa) ovvero di franchigia assoluta; con la franchigia, l'assicuratore viene esonerato dal sopportare una quota di danno, che nel caso della franchigia semplice, o relativa, prevede che, fino ad un determinato importo del danno, una quota di esso resta a carico dell'assicurato, mentre in quella assoluta una determinata quota del danno graverà sempre e comunque sull'assicurato, qualunque sia l'ammontare del danno sofferto (F. GAZZONI, op. loc. ult. cit.); in particolare, per la dottrina la clausola integrante una franchigia semplice o relativa non possiede carattere vessatorio in ragione del fatto che non introduce limitazioni alla responsabilità che l'assicuratore assume con la conclusione del contratto, ma produce solo l'effetto di delimitare l'oggetto del contratto medesimo (G. ROJAS ELGUETA, op. loc. ult. cit.).

Ecco perché, secondo la giurisprudenza, la clausola di un contratto assicurativo che preveda una franchigia il cui importo debba essere sempre decurtato, dall'ammontare del danno, gravando ad esclusivo carico dell'assicurato, è indiscutibilmente vessatoria, poiché limita la responsabilità dell'assicuratore (art. 1341, co. 2, c.c.) attraverso la previsione della decurtazione, dall'ammontare che l'assicuratore è tenuto a corrispondere, di una percentuale dell'indennizzo, indipendentemente dall'ammontare del danno (Trib. Benevento, sez. I, 12 gennaio 2018, n. 86, in Il Caso.it, 2018, I). Anche la dottrina è concorde sul punto, affermando come detta franchigia svolge l'importante funzione di limitare, a vantaggio dell'assicuratore, il numero delle liquidazioni, ottenendo così un considerevole risparmio nell'attività di gestione, oltre che ovviamente una riduzione del rischio, lasciando una parte di danno in capo all'assicurato (LOCATELLI L., Assicurazione obbligatoria degli avvocati: le condizioni minime di garanzia, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2016, 6, p. 2097B e ss.).

Con la predisposizione di una simile clausola, non si intende produrre l'effetto di definire l'oggetto del contratto, bensì, ed al contrario, l'assicuratore mira a limitare la propria responsabilità, poiché con essa si va a toccare la misura dell'indennizzo che, a tutto vantaggio dell'assicuratore e contestuale pregiudizio per l'assicurato, risulterà limitato sotto due profili, tra loro conseguenziali: 1) innanzitutto, per la sola parte del danno eccedente la franchigia; 2) inoltre, per la sola differenza tra l'ammontare totale del danno subito e l'ammontare della franchigia. Allora, in presenza di tali caratteristiche, non si dubita della vessatorietà di tale clausola, che la S.C. ha riconosciuto sussistere nel caso in cui una clausola restringa l'ambito della responsabilità del soggetto che la ha predisposta (Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2015, n. 22891, in www.iusexplorer.it); anche i giudici di merito hanno condiviso tale orientamento della giurisprudenza di legittimità, affermando «In tema di contratto di assicurazione sono da considerare clausole limitative della responsabilità, per gli effetti dell'art. 1341 c.c., quelle clausole che limitano le conseguenza della colpa o dell'inadempimento o che escludono il rischio garantito» (Trib. Ascoli Piceno, 31 gennaio 2017, n. 88, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2017, 3, 931).

Molto di frequente, poi, gli assicuratori allegano la non esistenza e/o non operatività della garanzia, sulla scorta delle pattuizioni contenute nel contratto come interpretate secondo i canoni di ermeneutica contrattuale, ed in tal caso, per i giudici di merito non si è in presenza di una eccezione in senso proprio, bensì di una c.d. mera difesa, che si estrinseca attraverso la contestazione dell'inesistenza di prova di quello che rappresenta un fatto costitutivo della domanda, che in simili casi costituisce una domanda di adempimento contrattuale (Trib. Roma, sez. XII, 3 ottobre 2018, n. 18764).

In tale prospettiva, merita un accenno la questione relativa alla clausola c.d. claims made che, come è noto, è stato oggetto di un acceso dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, che ha visto anche diverse decisioni delle Sezioni Unite, con evidenti quanto problematici cambi di orientamento al riguardo. Senza pretesa di esaustività, si ricorda che, per un verso, la claims made c.d. mista o impura, che si caratterizza per subordinare l'operatività della copertura assicurativa alla circostanza che, tanto il fatto illecito, quanto la richiesta risarcitoria, intervengano entro il periodo di efficacia del contratto, o comunque entro determinati periodi di tempo preventivamente individuati, è stata ritenuta dalla S.C. non vessatoria, ma nel contempo (in un'ottica di doveroso bilanciamento) si è riconosciuta la possibilità che la stessa, ricorrendo determinate condizioni, ben può essere dichiarata nulla o perché immeritevole di tutela, ovvero perché, nel caso in cui trovi applicazione la disciplina del Codice del Consumo, si riscontri che la stessa determina, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali; rimettendo la relativa valutazione al giudice di merito, con conseguente sua insindacabilità in cassazione, ove assistita da congrua motivazione (Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2016, n. 9140, in Giust. Civ., Mass., 2016; conforme, Cass. civ., Sez. Un., 2 dicembre 2016, n. 24645, in Guida al Diritto, 2017, 8, 74); in successiva decisione si è poi affermato come una clausola "claims made" collocata in un contratto di assicurazione della responsabilità civile stipulato da un'azienda ospedaliera, che produce l'effetto di prestare la copertura assicurativa esclusivamente nel caso in cui sia il danno provocato dall'assicurato, sia la richiesta risarcitoria del danneggiato intervengano nella vigenza dell'assicurazione, integra un patto atipico immeritevole di tutela ex art. 1322, comma 2, c.c., determinando un ingiusto e sproporzionato vantaggio a favore dell'assicuratore, mentre pone l'assicurato in una condizione di indeterminata e non controllabile soggezione.(Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2017, n. 10506,Foro it., 2017, 9, I, 2721); per quella c.d. pura, per la quale, invece, l'operatività della copertura assicurativa è direttamente collegata alla circostanza che la richiesta risarcitoria intervenga entro il periodo di efficacia del contratto, risultando invece irrilevante (a differenza di quella impura o mista) il momento di verificazione del fatto illecito, si ritiene la stessa non vessatoria, in quanto realizza una migliore descrizione dell'oggetto del contratto, attuata, nello specifico, attraverso l'individuazione del rischio assicurato (Cass. civ., sez. III, 23 novembre 2017, n. 27867, in Ridare.it); una recentissima decisione delle Sezioni Unite, poi, ha sostanzialmente affermato la validità, liceità e tipicità della clausola in questione, pur con la indispensabilità di sottoporre la stessa ad un esame sotto diversi profili, al fine di assicurare la migliore tutela possibile per l'assicurato; hanno infatti stabilito i giudici di legittimità «Il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole "on claims made basis", quale deroga convenzionale all'art. 1917, comma 1, c.c., consentita dall'art. 1932 c.c., è riconducibile al tipo dell'assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all'art. 1322, comma 2, c.c., ma alla verifica, ai sensi dell'art. 1322, comma 1, c.c., della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l'adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l'ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto – sotto il profilo della liceità e dell'adeguatezza dell'assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti -, ma non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo anche la fase precontrattuale (in cui occorre verificare l'osservanza, da parte dell'impresa assicurativa, degli obblighi di informazione sul contenuto delle "claims made") e quella dell'attuazione del rapporto (come nel caso in cui nel regolamento contrattuale "on claims made basis" vengano inserite clausole abusive) con la conseguenza che la tutela invocabile dall'assicurato può esplicarsi, in termini di effettività, su diversi piani, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili di volta in volta implicati» (Cass. civ., Sez. Un., 24 settembre 2018, n. 22437, cit.).

Profili sostanziali e processuali delle eccezioni

La principale questione che, dal punto di vista sostanziale, nasce dalla ricostruzione di ogni singola eccezione appare certo quella relativa alla vessatorietà o meno della clausola su cui la difesa si fonda; vessatorietà che la S.C. esclude allorquando con la clausola viene ad essere delimitato l'oggetto del contratto, e quindi il rischio con esso assunto dall'assicuratore, ogni qualvolta che una clausola definisca il contenuto ed i limiti della garanzia assicurativa, specificando il rischio garantito (Cass. civ., sez. III, 15 febbraio 2018, n. 3694, in Guida al Diritto, 2018, 26, 64) mentre la medesima clausola non evita il giudizio di vessatorietà, e come tale ricade nel perimetro applicativo dell'art. 1341 c.c., con conseguente indispensabilità della doppia approvazione per iscritto – allorquando produca l'effetto di limitare le conseguenze della colpa o dell'inadempimento ovvero di escludere il rischio garantito, rivelandosi quindi una clausola limitativa della responsabilità (Cass. civ., sez. III, 15 febbraio 2018, n. 3694, cit.); principio, questo, che i giudici di legittimità hanno ribadito con successiva decisione, che si segnala altresì per la interessante precisazione secondo cui quelle clausole che stabiliscono che la garanzia sia operante solo se l'assicurato abbia adottato determinate misure di sicurezza oppure abbia osservato determinati oneri, la cui omissione, agevolando la produzione dell'evento oggetto della garanzia (furto, danneggiamento, incendio etc.), inciderebbero sulle probabilità di verificazione del rischio; non realizzano una limitazione di responsabilità dell'assicuratore, ma individuano e delimitano l'oggetto stesso del contratto e il rischio dell'assicuratore, da cui consegue fra l'altro la non necessità della specifica approvazione per iscritto ai sensi dell'art. 1341, comma 2, del c.c.; tale problematica, poi, come appare intuibile, assume una valenza ancora diversa allorquando – come pure spesso accade – il contraente rivesta la qualità soggettiva di “consumatore”, dovendo trovare applicazione, in tal caso, le norme dettate dal Codice del Consumo a tutela del predetto contraente debole, in virtù della previsione di cui all'art. 33 del citato d.lgs. 206/2005; norma, quest'ultima, che come noto, detta la disciplina delle clausole vessatorie in relazione ai contratti conclusi tra il consumatore ed il professionista, stabilendo che sono da ritenersi vessatorie quelle clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, predisponendo il relativo elenco; l'importanza della tutela apprestata alla parte debole di un rapporto contrattuale appare con evidenza ove si tenga presente che la S.C. ammette l'applicabilità della normativa in tema di tutela del consumatore anche in favore della persona fisica che, pur se svolge attività imprenditoriale o professionale, con la sottoscrizione del contratto abbia inteso soddisfare esigenze della sua vita quotidiana, personale o familiare estranea all'esercizio della sua attività (Cass. civ., sez. III, 30 novembre 2018, n. 3110); si pensi all'ipotesi, molto frequente (e certo non l'unica) dell'imprenditore o del professionista che abbiano stipulato polizza assicurativa per i rischi di furto, incendio e danni a terzi per la propria abitazione privata.

Fermo questo, guardando le varie eccezioni, innanzitutto con riguardo a quella di inadempimento ex art. 1460 c.c., di cui l'eccezione ex art. 1892 c.c., come si è visto, costituisce una species, la S.C. è consolidata nel ritenere che l'eccezione ex art. 1460 c.c. costituisca una eccezione in senso stretto, il cui rilievo officioso non è consentito al giudice (Cass. civ., sez. III, 29 settembre 1999, n. 10764, in Giust. Civ., Mass. 1999, 2028).

Ancora, in presenza della contestazione della esistenza o comunque della operatività della stessa (in quanto gli assicuratori, in determinate ipotesi, pur non negando che una data garanzia sia stata prevista dalle parti, ne contestano l'operatività in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto) proprio alla luce della giurisprudenza di cui si è detto in precedenza, devono ritenersi esentati dall'onere di provare l'oggetto della copertura assicurativa apprestata con la polizza per il cui adempimento sono stati convenuti, il relativo oggetto necessariamente deve essere provato dalla parte che agisce per l'adempimento, siccome fatto costitutivo della relativa domanda (Trib. Roma, sez. XII, 3 ottobre 2018, n. 18764, cit.): in tal prospettiva, come insegna, con consolidato orientamento, la giurisprudenza di legittimità, detto onere consiste nel dimostrare, per un verso, che si è verificato un evento coperto dalla garanzia assicurativa e, per altro verso (ma logicamente conseguente) che esso ha causato il danno di cui si reclama il ristoro o di cui si chiede la copertura ai fini della responsabilità civile (Cass. civ., sez. III, 17 maggio 1997, n. 4426, in Giust. Civ., Mass., 1997, n. 783).

Con riguardo all'eccezione di massimale, la S.C., con recenti decisioni, ha assunto prima una posizione che potrebbe definirsi “intermedia” tra la sua qualificazione come mera difesa ovvero come eccezione in senso stretto, affermando infatti che la deduzione dell'incapienza del massimale, da parte dell'assicuratore, a fronte della richiesta di indennizzo avanzata in giudizio dall'assicuratore, in quanto eccezione in senso lato, è aperta anche al rilievo officioso da parte del giudice, ma con un limite (o condizione, che dir si voglia), essendo la rilevabilità d'ufficio subordinata alla tempestiva allegazione e prova, da parte dell'assicuratore, dell'esistenza e del contenuto della relativa pattuizione (Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537, in Foro it., 2014, I, 9, 2470), il che impone, come meglio si proverà ad evidenziare in seguito, specifici doveri di condotta difensiva all'assicuratore; successivamente, poi, si è espressa invece a favore di una ricostruzione della predetta eccezione in termini di eccezione in senso proprio, con l'affermare infatti «In tema di assicurazione per responsabilità civile, il massimale non è elemento essenziale del contratto di assicurazione, che può essere validamente stipulato senza la relativa pattuizione, e neppure costituisce fatto generatore del credito assicurato, configurandosi piuttosto come elemento limitativo dell'obbligo dell'assicuratore, sicché grava su quest'ultimo l'onere di provare l'esistenza e la misura del massimale, dovendosi altrimenti accogliere la domanda di garanzia proposta dall'assicurato a prescindere da qualsiasi limite di massimale» (Cass. civ., sez. III, 18 febbraio 2016, n. 3173, in Giust. Civ., Mass., 2016).

Con riguardo all'eccezione di franchigia, giurisprudenza di legittimità e merito ricostruiscono la distinzione tra le due citate varianti nel senso che la franchigia relativa costituisce sostanzialmente lo spartiacque tra il riconoscimento all'assicurato della prestazione contrattualmente prevista (risarcitoria o indennitaria che sia) ovvero la totale negazione di essa.

In particolare, si afferma, con riguardo alla franchigia relativa o semplice, che intanto l'assicuratore è tenuto ad eseguire in forma integrale la sua prestazione, e quindi a corrispondere il risarcimento in toto, in quanto l'ammontare del danno riportato dall'assicurato risulta superiore al valore contrattualmente stabilito quale franchigia mentre, se è inferiore, o corrispondente ad esso, l'assicuratore è esentato dalla sua obbligazione risarcitoria/indennitaria (Cass. civ., sez. III, 4 febbraio 2002, n. 1430, in Giust. Civ., 2002, I, 1896; Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2005, n. 5158, in Giust. Civ., Mass., 2005, 4; App. Napoli, 12 febbraio 2019, n. 730, inedita); con riguardo, invece, alla franchigia assoluta, la stessa, proprio in quanto stabilisce che l'assicurato, indipendentemente da quello che, in concreto, risulta essere l'ammontare del danno subito, dovrà farsi carico di una quota predefinita di esso, mentre l'assicuratore sarà chiamato ad adempiere solo per l'eventuale quota di esubero del danno concretamente riportato, rispetto alla franchigia stabilita in contratto, con conseguente limitazione di responsabilità, per l'assicuratore (Cass. civ., sez. III, 4 febbraio 2002, n. 1430, in Giust. Civ., 2002, I, 1896; Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2005, n. 5158, in Giust. Civ., Mass., 2005, 4; App. Napoli, 12 febbraio 2019, n. 730, inedita).

In conclusione

Si rende opportuno formulare alcune osservazioni al riguardo della gestione del contenzioso originato dai contratti di assicurazione e dalle richieste di adempimento rivolte all'assicuratore.

Innanzitutto, con riguardo all'eccezione di inadempimento, proprio in ragione della sua riconosciuta natura di eccezione in senso proprio (quale eccezione di merito non rilevabile ex officio) per la valida introduzione nel processo la stessa richiede, al soggetto che la solleva (e quindi anche all'assicuratore convenuto per l'adempimento), non solo la sua formulazione nella comparsa di costituzione e risposta (il che sarebbe il meno) quanto e soprattutto la sua indispensabile costituzione in giudizio almeno venti giorni prima dell'udienza di prima comparizione, come richiesto dall'art. 167 c.p.c., e tanto per i suo evidenti riflessi sul contraddittorio e sul diritto alla difesa della controparte (nel caso, l'assicurato che abbia agito per l'adempimento contrattuale). Infatti, per la giurisprudenza, l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., poiché costituisce un'eccezione in senso stretto, non rilevabile d'ufficio, è evidentemente inammissibile ai sensi dell'art. 167 comma 2 cpc, con conseguente decadenza, ai sensi della norma innanzi menzionata, ove il convenuto che la sollevi non rispetti il termine in questione, costituendosi direttamente in udienza o anche qualche giorno prima (Trib. Milano, sez. V, 14 febbraio 2019, n. 1456, in banca dati Juris Data); invero, non si dubita in giurisprudenza, ed in dottrina, che tale eccezione, perché sia tempestiva, debba essere sollevata dal convenuto costituendosi nel rispetto del termine previsto dall'art. 167 c.p.c. (Trib. Monza, 11 marzo 2008, in www.lexform.it; in dottrina, cfr. B. SASSANI, Lineamenti del processo civile italiano. Tutela giurisdizionale, procedimenti di cognizione, cautele. Milano, 2017, p. 168 e ss.), essendosi in particolare affermato “Ai sensi dell'art. 167 c.p.c., coordinato con il successivo art. 171, comma 2, c.p.c., il convenuto che non si costituisce nel termine assegnatogli dall'art. 166 c.p.c. (bensì tardivamente), decade sia dalla facoltà di proporre domande riconvenzionali sia dalla facoltà di proporre eventuali eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio. La tempestiva costituzione in giudizio tramite comparsa di risposta rappresenta, pertanto, per il convenuto il primo ed ultimo momento utile per far valere qualsiasi difesa qualificabile come “eccezione processuale e/o di merito non rilevabile d'ufficio” (Trib. Torino, 6 novembre 2008, in IlCaso.it, 2008, I, 1411).

Allora, nello specifico settore assicurativo, essendo – per quanto visto in precedenza – l'eccezione di inoperatività della polizza ex art. 1892, comma 3 c.c., per asserite dichiarazioni inesatte e/o reticenti dell'assicurato, un'ipotesi di eccezione ex art. 1460 c.c. (difese che, all'evidenza, alla luce dell'orientamento giurisprudenziale di legittimità in precedenza richiamato, si pongono tra loro in rapporto di genus a species) la stessa – come recentemente rilevato da una decisione di merito, con convincente ed argomentata motivazione - produce l'effetto di ampliare il thema decidendum del relativo giudizio, comportando una inversione dell'onere della prova, in quanto fa gravare sull'assicurato/attore, l'onere di dimostrare di aver adempiuto a quanto posto a suo carico da quel medesimo contratto di cui invoca l'adempimento (App. Napoli, 12 febbraio 2019, n. 730, inedita): da tale presupposto, allora, i giudici traggono, quale logico corollario (altrettanto condivisibile) che l'attore “per vincere l'indicata eccezione, deve dimostrare di avere effettivamente adempiuto ai propri obblighi contrattuali”(App. Napoli, 12 febbraio 2019, n. 730, inedita).

Inoltre, con riguardo all'eccezione di massimale, la stessa, per poter essere utilmente introdotta nel processo, richiede, oltre alla relativa specifica deduzione non potendosi ritenere sufficiente, a tal fine, la mera produzione della polizza, in quanto, come affermato di recente dalle corti di merito, la mera produzione della polizza contrattuale non può considerarsi né quale deduzione di esistenza del massimale, né tantomeno quale allegazione del suo ammontare (Corte di Appello Napoli, 3 marzo 2016, n.880, inedita), il compimento di ulteriore attività della parte che la solleva. Posizione, questa, di chiara adesione a quell'orientamento della S.C. che nega come, alla produzione documentale, possa essere attuata una funzione di eterointegrazione di domande ed eccezioni, avendo affermato “Là dove l'impianto allegatorio a fondamento della domanda originaria sia tale da non consentire, in radice, di includere taluni fatti tra quelli costitutivi della domanda stessa, documenti prodotti non possono, di per sé, ampliare il "thema decidendum", in assenza di allegazioni congruenti che ne assumano il contenuto rappresentativo nell'alveo degli elementi fattuali già posti a fondamento della pretesa spiegata con l'atto a ciò deputato. I documenti (da indicarsi ai sensi del n. 5 del comma 3 dell'art. 163 c.p.c.) infatti, rivestono eminentemente una funzione probatoria che, come tale, non può surrogare quella dell'allegazione dei fatti, imposta - a pena di nullità ex art. 164 c.p.c. - dal n. 4 del comma 3 deIl'art. 163 c.p.c., potendo essi, nel contesto di un impianto allegatorio già delineato, essere semmai di chiarimento della portata e dei termini dei fatti addotti“ (Cass. civ., sez. III, 21 marzo 2013, n. 7135, in Guida al Diritto, 2013, 22, 63).

Attività consistente nella costituzione in giudizio nel rispetto del termine previsto dall'art. 167 c.p.c., in quanto, come affermato dalla S.C. con una nota decisione, proprio nell'ambito dell'assicurazione obbligatoria per la circolazione dei veicoli a motore, l'eccezione di massimale assume i connotati dell'eccezione in senso stretto, in ragione delle peculiari caratteristiche del settore in questione (Cass. civ., sez. III, 17 maggio 2011, n. 10811, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2012, 2, 551) condividendo così quanto espresso dalla S.C. sul punto specifico in altre precedenti decisioni, ovvero che la richiesta dell'assicuratore di contenere il risarcimento nei limiti, in quanto impeditiva del maggior risarcimento richiesto dal danneggiato, costituisce una eccezione in senso proprio (Cass. civ., sez. III, 14 giugno 2006, n. 13754, in Giust. Civ., Mass., 2006, 6; Cass. civ., sez. III, 8 giugno 2004, n. 10817, in Assicurazioni, 2005, II, 48).

Come si vede, con la già citata decisione del 2016, i giudici di legittimità hanno dato forza all'orientamento che ricostruisce detta eccezione come eccezione in senso proprio, e tanto appare sostanzialmente da condividere, in ragione del fatto che, con essa, l'assicuratore tende a paralizzare la pretesa dell'assicurato (e per certi versi a contenere quella del danneggiato) per cui appare corretto sussumere la stessa nel perimetro applicativo del secondo comma dell'art. 2697 c.c., e del riparto dell'onere probatorio che esso introduce.

Ancora, con riferimento all'eccezione di franchigia, possono così individuarsi alcuni rimedi a disposizione delle parti processuali, a seconda delle rispettive posizioni, o per far valere la relativa clausola, e conseguire gli effetti, ovvero – specularmente - per inibirne l'operatività.

Dal punto di vista dell'assicuratore, visto quanto osservato in precedenza dalla giurisprudenza, nell'ipotesi di franchigia c.d. assoluta (mentre per quella relativa non è a parlarsi di vessatorietà), come di recente affermato dalla giurisprudenza, l'unica strada a disposizione risulta quella di provare che quella pattuizione è stata il frutto di una specifica trattativa individuale proprio con quell'assicurato, secondo quanto previsto dal combinato disposto degli artt. 1341 c.c., nonché art. 33 Codice del Consumo (App. Napoli, 12 febbraio 2019, n. 730, inedita); a tale ultimo proposito, appare importante ricordare che, come osservato molto di recente dalla giurisprudenza, la disciplina di tutela del Codice del Consumo può essere validamente derogata dalle parti soltanto con clausole oggetto di idonea trattativa, caratterizzata dai requisiti della individualità, serietà ed effettività, con la precisazione che incombe sul professionista il relativo onere probatorio e la mera approvazione per iscritto della clausola derogatoria del foro del consumatore è inidonea ai fini della prova positiva della trattativa (Trib. Milano, sez. VI, 18 febbraio 2019, n. 1529, in banca dati Juris Data).

Dal punto di vista dell'assicurato, pur in presenza di una franchigia validamente pattuita, il soggetto in questione non rimane senza difesa dinanzi all'eccezione dell'assicuratore che, per negare il risarcimento, gli oppone l'esistenza della clausola che la prevede: infatti, come affermato di recente dalla S.C., la strada da seguire per invocare l'adempimento da parte dell'assicuratore, ed ottenere il risarcimento come pattuito in polizza, è quella di dedurre la non operatività della clausola in questione, per superamento del relativo importo, e per farlo risulterà indispensabile che l'assicurato provi che il danno effettivamente subito, e di cui chiede il ristoro, risulta di ammontare superiore rispetto a quanto stimato dal perito nominato dall'assicuratore (Cass. civ., sez. VI, 30 gennaio 2018, n. 2297, in banca dati Juris Data).

Infine, occorre segnare che – e tanto va, ad avviso di chi scrive, doverosamente tenuto in considerazione dagli assicuratori – che la proposizione di tali eccezioni, se avvenuta in primo grado nel rispetto di quanto stabilito dalle richiamate decisioni di legittimità, pur consentendone la riproposizione in appello, se espressamente disattese con l'appello incidentale, come statuisce la S.C., ove invece non esaminate e/o assorbite, pur essendone consentita la riproposizione ex art. 346 c.p.c., richiede tuttavia che ciò avvenga con la costituzione entro la prima del giudizio di appello, non essendo consentito (nonostante l'eventuale tempestiva proposizione in primo grado) riproporle in caso di costituzione avvenuta dopo la prima udienza del giudizio di appello (e quindi, tanto per fare un esempio, in cancelleria ovvero all'udienza di precisazione delle conclusioni).

Tale possibilità, infatti, risulta radicalmente preclusa alla luce di una recentissima decisione delle Sezioni Unite che, in proposito, ha avuto modo di affermare come, nel processo ordinario di cognizione risultante dalla novella di cui alla l. n. 353 del 1990, e dalle successive modifiche, sulle parti del giudizio di appello - del cui oggetto se ne è riaffermata la natura di revisio prioris istantiae- in applicazione dei principi di autoresponsabilità e di affidamento processuale, grava l'onere, al fine di evitare, a loro carico, il maturarsi delle conseguenze della presunzione di rinuncia (tranne che in relazione a quelle domande ed eccezioni che il primo giudice abbia esaminato e rigettato, anche implicitamente, residuando per le stesse l'inderogabile necessità dell'appello incidentale) di specifica riproposizione, in applicazione di quanto dispone l'art. 346 c.p.c., di ogni domande ed eccezione non accolta in primo grado, poiché assorbite dalla statuizione (Cass. civ., Sez. Un., 21 marzo 2019, n. 7040, in Guida al Diritto, 2019, 19, 26).

Assorbimento, il cui effetto è quello di escludere l'omissione di pronuncia, che può aversi in senso proprio ovvero improprio (o anche implicito), e che la S.C. ricostruisce nel senso che si verifica la prima ipotesi nel caso in cui, avendo una parte conseguito, con la decisione sulla domanda definita assorbente, la tutela richiesta nel modo per lei più satisfattivo, tanto rende superflua la decisione sulla domanda c.d. assorbita (si pensi all'ipotesi in cui avendo una parte proposto una domanda principale ed una o più subordinate, la prima venga accolta), perde interesse alla decisione sulla seconda domanda (Cass. civ., sez. III, 14 maggio 2013, n. 11547, in Guida al Diritto, 2013, 34-35, 50 (s.m) mentre si parla di assorbimento in senso improprio nella diversa ipotesi in cui la decisione definita assorbente fa venir meno ogni necessità o, anche solo possibilità, di provvedere sulle altre questioni (Cass. civ., sez. III, 14 maggio 2013, n. 11547, cit.); è il caso, ad esempio (per restare al tema qui esaminato) delle eccezioni di non operatività della polizza, o anche di massimale, sollevate dall'assicuratore convenuto direttamente, ovvero chiamato in garanzia, nel caso di rigetto della domanda principale proposta dal danneggiato, rimaste conseguentemente assorbite.

Per i giudici di legittimità, infatti, tali eccezioni vanno categoricamente riproposte dall'assicuratore appellato mediante il primo atto difensivo di questi (quindi con la relativa comparsa di costituzione e risposta) ed entro un termine preciso, rappresentato dalla prima udienza del giudizio di appello, in quanto i fatti a sostegno delle eccezioni medesime erano già entrati a far parte del thema probandum e del thema decidendum del giudizio di primo grado.

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