Torna a far discutere un tema da tempo caratterizzato da orientamenti contrastanti in giurisprudenza e in dottrina, ossia la possibilità di utilizzare, nel processo tributario, prove acquisite secondo procedure irrituali.Una recente sentenza della Corte di Cassazione torna sull'argomento e offre l'occasione per fare il punto sulla giurisprudenza di legittimità e anche sulle prospettive di tutela recentemente espresse dalla Corte di giustizia europea.
Inutilizzabilità prevista dalla legge
La Corte di Cassazione, con la recente sentenza 12 aprile 2019, n. 10275, in accoglimento del ricorso proposto dal contribuente nei confronti dell'Agenzia delle Entrate, annulla una pronuncia della Commissione tributaria regionale della Campania, sul tema dell'utilizzabilità, nel processo tributario, di documenti acquisiti illegittimamente.
Com'è noto, i poteri di acquisizione delle prove sono oggetto di una disciplina contenuta nelle singole leggi d'imposta. In particolare, l'art. 52, c. 1 e 2, DPR 633/1972 e l'art. 33, DPR 600/1973 dispongono le modalitàattraverso le quali devono avvenire gli accessi, le ispezioni e le verifiche presso gli operatori da parte degli impiegati dell'Amministrazione finanziaria e quali sono le autorizzazioni necessarie, differenti a seconda che si tratti di locale destinato ad attività commerciale, ad abitazione o a uso promiscuo.
La tutela è rafforzata dalla necessità di specifiche autorizzazioni, in caso di indagini che riguardano la sfera privata: l'art. 52, c. 3, DPR 633/1972, precisa che, per procedere a perquisizioni personali, all'apertura di pacchi sigillati, borse e casseforti, è necessaria l'autorizzazione del P.M. o dell'autorità giudiziaria più vicina. Il secondo comma dispone, inoltre, che per l'accesso presso l'abitazione privata è necessaria l'autorizzazione preventiva del procuratore della Repubblica, da concedersi soltanto in caso di gravi indizi di violazione delle norme tributarie.
Nel caso esaminato dalla Cassazione, il contribuente ha contestato le modalità con cui è avvenuta l'ispezione, effettuata presso l'abitazione e in alcuni locali utilizzati per uso promiscuo, in assenza delle necessarie autorizzazioni. Nello specifico, l'accertamento era fondato su documenti acquisiti in violazione delle norme richiamate, mediante l'apertura di una borsa chiusa - senza la previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria - e all'interno di una scatola di cartone rinvenuta presso l'abitazione del contribuente.
Come si è rilevato, per l'acquisizione presso la casa, la norma impone due condizioni legittimanti:
è necessaria la specifica autorizzazione dalla Procura della Repubblica;
occorre che essa indichi i “gravi indizi di violazione della norma tributaria” (art. 52, c. 2, DPR 633 del 1972).
La norma di legge rappresenta un bilanciamento tra l'interesse pubblico al contrasto all'evasione e il diritto, costituzionalmente tutelato dall'art. 14 Cost., all'inviolabilità del domicilio.
L'autorizzazione del P.M. all'accesso domiciliare costituisce pertanto un provvedimento indispensabile per la legittimità dell'accertamento e il giudice tributario, davanti al quale è contestata la pretesa impositiva avanzata sui risultati dell'accesso domiciliare, può essere chiamato a controllare l'esistenza del decreto del P.M. e la presenza in esso dei requisiti indispensabili atti a fondare l'accesso (Cass., sez. V, 11 ottobre 2017, n. 23824)
Tale contestazione deve, ovviamente, avvenire nel ricorso introduttivo del giudizio, essendo esclusa una verifica d'ufficio, sulla questione, da parte della Commissione tributaria.
E' importante ricordare che, secondo il più recente indirizzo della Cassazione (Cass., 15 gennaio 2019, n. 673; Cass., 30 luglio 2018, n. 20096; Cass., 30 maggio 2018, n. 13711; Cass., 11 maggio 2016, n. 9542; Cass., 22 aprile 2016, n. 8112; Cass., 17 febbraio 2016, n. 3095; Cass., 29 maggio 2013, n. 13319; Cass., 15 maggio 2013, n. 11672) l'illegittimità o la mancanza del provvedimento di autorizzazione del Procuratore della Repubblica comporta, come conseguenza, l'inutilizzabilità delle prove acquisite in seguito a un accesso domiciliare, anche nell'ipotesi in cui lo stesso contribuente abbia consegnato spontaneamente la documentazione. In altri termini, la scelta del contribuente di non avvalersi delle tutele previste dalla legge in tali ipotesi non fa venir meno la necessità di rispettare il paradigma legale da parte dei verificatori.
Peraltro, nel caso esaminato, l'Ufficio ha fondato la rettifica dei corrispettivi dichiarati dal ricorrente utilizzando esclusivamente le risultanze della documentazione extracontabile reperita, senza compiere alcun riscontro con ulteriori elementi gravi, precisi e concordanti.
La documentazione acquisita con queste modalità illegittime è quindi inutilizzabile, per cui l'avviso di accertamento che si è basato su tali elementi probatori è a sua volta affetto da illegittimità.
La pronuncia si colloca nel solco della giurisprudenza di legittimità, la quale ha riconosciuto che le regole procedurali, in particolare quelle poste dalla legge a tutela di diritti costituzionalmente garantiti, comporta l'inutilizzabilità del risultato dell'attività istruttoria illegittima.
Principio di inutilizzabilità generale della prova illegittima nel processo tributario: orientamenti giurisprudenziali
Al di fuori dei casi esaminati, in cui è lo stesso legislatore a stabilire precise regole procedurali di acquisizione, la giurisprudenza della Corte di Cassazione segnala indirizzi contrastanti.
Con riguardo alla possibilità di utilizzazione della prova illegittimamente acquisita, in dottrina e giurisprudenza si sono formati due orientamenti: 1. secondo il principio del male captum bene retentum, il vizio di acquisizione di una prova non ne comporterebbe la successiva inutilizzabilità; 2. secondo la teoria dei “frutti dell'albero avvelenato”, varrebbe la regola della generale inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita.
Appartiene a questo secondo indirizzo la famosa sentenza (Cass., SS.UU., 21 novembre 2002, n. 16424) con cui la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha dichiarato inammissibili le prove acquisite irritualmente, sottolineando che “detta inutilizzabilità non abbisogna di un'espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l'assenza, del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola”.
In linea con questa pronuncia, una parte della giurisprudenza (Cass., 2 dicembre 2015 n. 24492; Cass., 20 febbraio 2013, n. 4140; Cass., 19 ottobre 2012, n. 17957; Cass., 28 luglio 2011, n. 16570) ritiene che vi sia un limite all'utilizzo di tali prove, come riflesso dei principi di imparzialità e buona fede della Pubblica Amministrazione, che impongono il rispetto della legge e determinano l'illegittimità derivata dell'atto impositivo, anche in considerazione della garanzia difensiva accordata dall'art. 24 Cost. Questi principi porrebbero un argine all'utilizzo, in ambito tributario, delle prove acquisite mediante metodi irrituali, in violazione delle norme che disciplinano il procedimento amministrativo e la formazione dell'atto impositivo.
Secondo un altro indirizzo della giurisprudenza (Cass., 28 dicembre 2018, n. 33572; Cass., 13 novembre 2018, n. 29132; Cass., 17 gennaio 2018, n. 959; Cass., 31 maggio 2016, n. 11324; Cass., 25 febbraio 2015, n. 3756), al contrario, non sussiste, in ambito tributario, un limite all'utilizzo di informazioni e documenti illegittimamente acquisiti, al di fuori delle specifiche ipotesi sanzionate dalla legge.
Un ambito in cui la Corte di Cassazione è recentemente intervenuta riguarda lo scambio di informazioni tra Stati: i casi relativi alle liste Falciani e Vaduz, caratterizzati dalla diffusione di elenchi di evasori, hanno risollevato il tema dei documenti acquisiti irritualmente e della loro valenza probatoria.
I giudici di legittimità, con le pronunce 28 aprile 2015, nn. 8605 e 8606 sul caso Falciani, hanno stabilito che i dati contenuti nella lista, benchè sottratti illegalmente da un istituto bancario a Ginevra, rappresentano comunque “indizi”, utilizzabili dall'Agenzia delle Entrate e nei giudizi tributari, reputando non rilevante l'illegittimità dell'acquisizione delle prove, se non comporta la violazione di valori costituzionalmente garantiti. Nel caso in esame, la Suprema Corte ha operato secondo la regola del bilanciamento di interessi, per concludere che l'evasione fiscale, in quanto atto lesivo dell'obbligo generale di contribuzione (art. 53 Cost.), è meritevole di maggiore tutela dei diritti costituzionali dei singoli, quali il diritto alla riservatezza della corrispondenza e del domicilio.
Ad avviso della Corte (Cass., 3 aprile 2019, n. 9259; Cass., 13 novembre 2018, n. 29132; Cass., 28 maggio 2018, n. 13353; Cass., 26 maggio 2017, nn. 13421 e 13422; Cass., 27 febbraio 2015, n. 4066; Cass., 25 febbraio 2015, n. 3756; Cass., 21 ottobre 2013, n. 23839; Cass., 16 dicembre 2011, n. 27149) “le irritualità nell'acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell'accertamento non comportano, di per sé e in assenza di specifica previsione, la loro inutilizzabilità, salva solo l'ipotesi in cui venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale”.
L'orientamento meno rigoroso (sul tema dell'inutilizzabilità delle prove illegittime) è ribadito poi nelle successive pronunce, relative alle liste Vaduz (Cass., 19 agosto 2015, n. 16950) e Falciani (Cass., 12 febbraio 2018, n. 3276), non senza pronunce di segno opposto (CTR Milano, sez. staccata di Brescia, 9 novembre 2015, n. 4801), che sottolineano l'importanza dei principi costituzionali del giusto processo e di legalità, imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione (Cass., 28 luglio 2011, n. 16570).
Cosa dice la Corte di giustizia
Dopo una prima sentenza (Corte Giust., 22 ottobre 2013, C-276/12, Sabou) con cui ha affermato che la normativa dell'Unione sullo scambio di informazioni tra Stati (la disciplina sullo scambio di informazioni è costituita dalla normativa nazionale, da quella bilaterale e dagli accordi e convenzioni multilaterali) si limita a prevedere soltanto criteri procedurali, in una recente pronuncia (Corte Giust., 16 maggio 2017, C-682/15, Berlioz Investment Fund) la Corte di giustizia è nuovamente intervenuta, precisando alcuni importanti limiti.
Nella causa Berlioz, la Corte di giustizia ha affermato che la tutela del contribuente trova un suo riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. In particolare, l'art. 47 della Carta riconosce il “diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale” e trova applicazione ogni qualvolta i diritti e le libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati.
La fattispecie sottoposta all'attenzione della Corte concerne una richiesta di informazioni inviata dall'Amministrazione fiscale francese a quella lussemburghese, relativamente alla società Berlioz, detenuta da una società francese. L'Autorità fiscale lussemburghese ha chiesto alla società Berlioz di trasmettere tutte le informazioni richieste, pena l'emissione di una sanzione pecuniaria. La società ha proposto ricorso avverso tale ingiunzione e il giudice del Lussemburgo ha proposto una domanda pregiudiziale alla Corte di giustizia, sollevando il tema del diritto a una piena tutela giurisdizionale del contribuente, in relazione alla sanzione pecuniaria irrogata per mancata o incompleta risposta alla richiesta di informazioni (S. Armella, “Cooperazione fiscale tra Paesi UE e tutela del contribuente”, in Corr. trib., 2017, 40, pag. 3109).
Al riguardo, i giudici europei hanno affermato che un cittadino, destinatario di una richiesta di informazioni, ha diritto, ai sensi dell'art. 47 della Carta, di difendere la sua causa dinanzi a un giudice e che il potere degli Stati membri di chiedere informazionitrova alcuni precisi limiti. In particolare, non sono legittime le richieste di informazioni generiche o relative a situazioni che non hanno punti di contatto con le questioni fiscali di un contribuente. Di riflesso, lo Stato membro interpellato può sanzionare l'omessa risposta da parte del destinatario della richiesta di informazioni soltanto se risulta rispettato il requisito della prevedibile pertinenza.
I giudici europei, con tale pronuncia, hanno dunque posto dei limiti all'azione del Fisco in materia di scambio di informazioni e hanno aperto maggiori spazi alla difesa del contribuente, chiarendo che la cooperazione fiscale deve essere necessariamente conciliata con i principi fondamentali dell'Unione europea (la Direttiva 2011/16, al considerando 28, stabilisce che lo scambio di informazioni deve avvenire nel rispetto dei diritti fondamentali e dei principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea).
Conclusioni
Per il difensore è importante sollevare, in sede di ricorso introduttivo del processo tributario, il tema dell'invalidità dell'accertamento fondato su prove illegittimamente acquisite. Le modalità di acquisizione sono regolate dalle singole leggi d'imposta, che ne sanciscono anche specifiche modalità, in presenza di interessi costituzionalmente tutelati (inviolabilità del domicilio).
La giurisprudenza non ha ancora espresso un orientamento chiaro sulle conseguenze della violazione delle regole di acquisizione dei documenti, in mancanza di una specifica previsione.
Lo scambio di informazioni tra le amministrazioni fiscali degli Stati europei deve comunque essere svolto, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia, nel rispetto del diritto di difesa del contribuente.
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Sommario
Inutilizzabilità prevista dalla legge
Principio di inutilizzabilità generale della prova illegittima nel processo tributario: orientamenti giurisprudenziali