La rinuncia alla domanda di accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza

Girolamo Lazoppina
27 Giugno 2019

Il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza disciplina espressamente l'ipotesi della cosiddetta “desistenza” dalla dichiarazione di fallimento introducendo, all'art. 43, l'ipotesi di rinuncia alla domanda di accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza di cui all'art. 40 dello stesso Codice.
Premessa

Il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza disciplina espressamente l'ipotesi della cosiddetta “desistenza” dalla dichiarazione di fallimento introducendo, all'art. 43, l'ipotesi di rinuncia alla domanda di accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza di cui all'art. 40 dello stesso Codice.

L'Autore esamina l'argomento analizzando i vari punti in cui il legislatore ha colmato – in tutto o in parte – i vuoti prima disciplinati per via giurisprudenziale e dottrinale.

L'iniziativa per la dichiarazione di fallimento

L'iniziativa per la dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 6 l.fall., modificato dal d.lgs. n. 5/2006, spetta al debitore, ad uno o più creditori o al pubblico ministero. Il legislatore del 2006 ha, dunque, escluso l'iniziativa d'ufficio prevista dalla vecchia Legge Fallimentare e che tanto aveva fatto discutere circa la prevalenza tra le varie forme di iniziativa. Parte della dottrina (Ferrara, De Semo) riteneva prevalente l'iniziativa del creditore soprattutto in considerazione del fatto che costui è reputato, insieme al curatore, legittimato passivo nel giudizio di opposizione. Secondo altra dottrina (Provinciali) le varie forme di iniziativa sarebbero invece paritarie con esclusione della sola iniziativa d'ufficio – oggi abolita - che avrebbe una sorta di naturale priorità. Dunque, il debitore insolvente non avrebbe avuto un diritto di per sé tutelabile alla dichiarazione di fallimento su ricorso dei creditori anziché su iniziativa del Pubblico Ministero o d'Ufficio (Tribunale di Roma, 25 febbraio 1985, in Dir.Fall., 86, II, 134).

La desistenza dalla richiesta di fallimento

Quid iuris, allora, in caso di rinuncia alla richiesta di fallimento, la cosiddetta “desistenza”, da parte del creditore? La “desistenza” è appunto il termine giuridico adoperato per descrivere l'ipotesi in cui il creditore che ha presentato il ricorso per ottenere la dichiarazione di fallimento del debitore (art. 6 l.fall.) vi rinuncia in modo espresso o tacito, comportando conseguentemente l'estinzione del processo. Fenomeno, questo, disciplinato per via interpretativa dai giudici di merito e di legittimità e solo oggi, con il nuovo Codice della Crisi d'impresa e dell'insolvenza, disciplinato dalla legge.

Va subito detto che prassi giurisprudenziale precedente sia al nuovo codice e sia alla riforma del 2006 ha sempre ammesso che il creditore potesse rinunciare al ricorso in quanto attore nel proprio interesse, salva la possibilità, oggi esclusa, del tribunale di dichiarare comunque il fallimento d'ufficio (Tribunale di Roma, 17 febbraio 1988, in IlFallimento, 88, 716) e che in dottrina si è ritento valido l'obbligo assunto dal creditore di rinunciare al ricorso già presentato (Tedeschi).

L'iter procedimentale comportava che l'estinzione del processo non avvenisse automaticamente perché si è sempre ritenuto necessario che il tribunale emettesse un provvedimento di archiviazione o di non luogo a provvedere. E si è ritenuto che lo stesso tribunale dovesse trasmettere copia degli atti al Pubblico Ministero affinché questi potesse richiedere il fallimento, ex art. 7 n. 2. L. fall., modificato anch'esso dal d.lgs. n. 5/2006. Tale norma infatti, nell'inserire tra le ipotesi in cui l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento spetta al Pubblico Ministero anche quella in cui l'insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile, non poteva non ricomprendere anche la segnalazione fatta dal tribunale fallimentare nell'ambito del relativo procedimento (Cass., 30 settembre 2016, n. 19597).

Rinuncia dell'unico creditore dopo la sentenza di fallimento

La giurisprudenza della S.C. di Cassazione ha dibattuto nel tempo se la rinuncia dell'unico creditore effettuata dopo la sentenza di fallimento comportasse o meno la revoca del fallimento stesso. L'orientamento prevalente è stato quello di escluderne la revoca (Cass., 5 maggio 2016, n. 8980) e, in caso di reclamo, di considerare quest'ultimo non meritevole di accoglimento (Cass., 7 agosto 2017, n. 19682).

Diverso è il caso in cui la desistenza sia stata introdotta in sede di reclamo – e quindi dopo la sentenza di fallimento – ma sia avvenuta prima della sentenza stessa. In questo caso la Suprema Corte ha ritenuto che la sentenza di fallimento andasse revocata, posto che, come già visto, non essendo prevista nel nuovo fallimento alcuna iniziativa d'ufficio, affinché il giudice di merito possa pronunziarsi è necessario che la domanda dei soggetti legittimati sia mantenuta ferma. Ne deriva che la desistenza dell'unico creditore istante, intervenuta anteriormente alla pubblicazione della sentenza di fallimento, pur se depositata solo in sede di reclamo avverso quest'ultima, determina la carenza di legittimazione di quel creditore e la conseguente revoca della menzionata sentenza (Cass., 21 dicembre 2018, n. 33116).

L'art. 43 del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza

La desistenza dalla richiesta di fallimento, sebbene molto diffusa, non era però – come già detto - disciplinata dalla legge. Oggi, il nuovo codice della Crisi d'impresa e dell'insolvenza prevede un apposito articolo, art. 43, che disciplina espressamente l'ipotesi della rinuncia alla domanda di accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza – un'unica norma che vale sia per l'accesso alla liquidazione giudiziale (il vecchio fallimento), che al concordato preventivo ed agli accordi di ristrutturazione – con previsione espressa dell'estinzione del procedimento, fatta salva la legittimazione del Pubblico Ministero intervenuto. Sull'estinzione il tribunale provvede con decreto – il quale viene trasmesso al Pubblico Ministero - e può condannare la parte che ha dato causa all'estinzione del procedimento alle spese, rispondendo così ad un'esigenza in favore della quale si era espressa la giurisprudenza più attenta rendendo applicabile in via analogica l'art. 306 c.p.c. (Tribunale di Pordenone, 16 settembre 2009).

Inoltre, quando la domanda è stata iscritta nel registro delle imprese, il cancelliere è tenuto a comunicare immediatamente il decreto di estinzione del procedimento affinché anche questo venga iscritto nel medesimo registro entro il giorno successivo.

In conclusione

Il legislatore del 2019 ha, pertanto, colmato un vuoto legislativo, al quale si era supplito per via giurisprudenziale, prevedendo espressamente che in caso di rinuncia alla domanda di liquidazione giudiziale (il vecchio fallimento) la procedura si estingue; che il decreto di estinzione emesso dal tribunale venga trasmesso al Pubblico Ministero e che il creditore rinunciante possa essere condannato alla refusione delle spese del procedimento.

Un intervento atteso ed opportuno ma, forse, non completamente esaustivo posto che demanda ancora all'interpretazione giurisprudenziale la vexata quaestio dell'efficacia della desistenza del creditore istante intervenuta antecedentemente alla sentenza che dichiara l'apertura della liquidazione giudiziale ma introdotta per la prima volta in sede di reclamo.

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