Impugnazione del testamento per incapacità di intendere e di volere del testatore

01 Luglio 2019

In assenza di una pronuncia di interdizione, la grave malattia psichica da cui risulti essere stato affetto il testatore non è di per sé sola sufficiente ad inficiare la validità del testamento ai sensi dell'art. 591, comma 2, n. 3, c.c.
Massima

Laddove nonostante la malattia il testatore non abbia perduta la capacità di autodeterminarsi ovvero la capacità di porre in essere atti di ordinaria e/o straordinaria amministrazione, la prova di un eventuale stato di incapacità naturale del testatore ai sensi dell'art. 428 c.c. è a carico della parte che chiede l'annullamento del testamento e non, invece, a carico del convenuto.

Il caso

Tizia agiva in giudizio per far dichiarare la nullità di due testamenti olografi di Tizione, redatti nel 2002 e nel 2005, per sentir dichiarare nulla la successione testamentaria in favore dell'apertura della successione legittima. A fondamento della sua pretesa, Tizia deduceva l'incapacità di intendere e di volere di Tizione derivante da una grave malattia psichica, il c.d. disturbo bipolare, da cui era affetto sin dagli anni novanta, malattia che non avrebbe consentito al testatore di poter attendere scientemente ai propri interessi morali e materiali.

Il Tribunale, nel 2010, rigettava la domanda dell'attrice, rilevando che Tizione, ancorché affetto da tale grave malattia, non era mai stato interdetto, essendosi il procedimento di interdizione chiuso per sopravvenuta morte dell'interdicendo: in particolare, veniva sottolineato che dalla CTU disposta sulla persona del defunto a meno di tre giorni prima della redazione del secondo testamento, era emersa una grave compromissione della capacità di autodeterminazione del soggetto ma non tale da far ritenere sussistente un vero e proprio stato di incapacità permanente e/o abituale.

Anche l'appello proposto da Tizia veniva rigettato nel 2016, in quanto, dall'esame degli atti di causa, non risultava fornita la prova dell'incapacità di intendere e di volere del testatore al momento della redazione dei testamenti.

Tizia proponeva quindi ricorso in Cassazione, sostenendo, con il secondo motivo di ricorso, che l'onere di provare la capacità di intendere e di volere del testatore, al momento della redazione dei testamenti, dovesse essere a carico dell'appellato, poiché era emerso il carattere permanente ed assoluto del disturbo.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, rilevando tra l'altro che «(…) è dunque incontrovertibile che in nessun passo della citata relazione peritale il dottor P. abbia affermato che il disturbo bipolare di grado secondo abbia determinato l'assoluto stato di incoscienza del testatore nel particolare momento della visita peritale, così come è incontestato che appena tre giorni prima della scrittura della scheda testamentaria in esame, il de cuius non versava in una situazione di parziale capacità di intendere e di volere nel compiere atti di autonomia gestionale».

Dall'esame degli atti della causa e della documentazione medica conseguita, la Corte di Cassazione rilevava come fosse stata esclusa l'esistenza di stati di alterazione tali da inficiare la capacità di intendere e di volere.

Conseguentemente, l'onere della prova dello stato di incapacità naturale ex art. 428 c.c. deve essere a carico di chi chiede l'annullamento del testamento, ovvero nel caso specifico della ricorrente Tizia, e non a carico del convenuto, come dalla stessa sostenuto; ciò anche in considerazione che il convenuto avrebbe dovuto provare una capacità positiva specifica, senza che fosse stata in alcun modo dimostrata la sua incapacità generale.

La questione

La questione in esame è la seguente: in assenza di una precisa definizione normativa, quale è il grado di incapacità di intendere e di volere tale da privare il soggetto, ai sensi dell'art. 591, comma 2, n. 3, c.c., della capacità di testare? In particolare, la grave malattia psichica (c.d. disturbo bipolare) dalla quale risulti affetto il testatore è di per sé sola sufficiente ed idonea a fondare una presunzione di assoluto stato di incoscienza che privi il soggetto della testamenti factio activa?

Le soluzioni giuridiche

La regola generale in materiadi capacità di disporre per testamento è sancita dal primo comma dell'art. 591 c.c., che prevede che possono testare tutti coloro che non sono stati dichiarati incapaci dalla legge, di tal che la capacità è la regola mentre l'incapacità è l'eccezione – e in quanto tale deve essere provata da chi ne afferma la sussistenza, con riguardo al tempo della redazione della scheda testamentaria. Il secondo comma dello stesso articolo contiene un elenco tassativo di ipotesi di incapacità, comprendente coloro che non hanno raggiunto la maggiore età (n. 1), gli interdetti per infermità di mente (n. 2) e quelli che, sebbene non interdetti si provi essere stati per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci d'intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento (n. 3).

Quanto alla terza fattispecie, il legislatore non ha previsto una precisa definizione della natura dell'incapacità di intendere e volere tale da inficiare la capacità di testare, di tal che si dubitava se fosse sufficiente un grado di infermità che avrebbe normalmente condotto alla pronuncia di inabilitazione, ovvero se fosse necessaria una situazione di offuscamento della volontà che, se permanente, avrebbe determinato una pronuncia di interdizione. La giurisprudenza, con un orientamento costante, ha sostenuto che l'infermità del soggetto debba avere delle caratteristiche tali da determinare, qualora abituali, la pronuncia di interdizione, considerato peraltro che gli inabilitati non sono privi per legge della testamenti factio activa.

Il principio costante affermato dalla giurisprudenza è che ai fini dell'annullabilità del testamento ai sensi dell'art. 591 c.c., secondo comma n. 3, non è sufficiente un mero turbamento del normale processo di formazione ed estrinsecazione della volontà, una semplice anomalia delle facoltà psichiche ed intellettive, risultando necessario che lo stato psico-fisico del testatore sia tale da sopprimere del tutto l'attitudine a determinarsi liberamente e coscientemente. E' necessaria la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia privo in modo assoluto, al momento della redazione dell'atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti.

L'ordinanza in esame conferma tale orientamento, rilevando come dalle risultanze delle perizie disposte nel corso del procedimento di interdizione non era affatto emerso uno stato assoluto di incoscienza del testatore, né una situazione di parziale capacità di intendere e volere: pertanto, la malattia psichica non è stata ritenuta idonea di per sé sola a menomare la capacità di testare, essendosi nel caso di specie escluso uno stato permanente e/o abituale di incapacità.

Osservazioni

L'assenza di una precisa nozione normativa del grado di incapacità richiesta ai sensi dell'art. 591, comma 2, n. 3, c.c., e la conseguente struttura libera della fattispecie hanno inevitabili riflessi sull'attività istruttoria, in quanto competerà al giudice valutare, in maniera assai oculata, in quale misura l'evento perturbatore ha inciso sul procedimento di formazione della volontà del testatore e sulla sua capacità deliberativa.

Essendo la capacità la regola, resta a carico di chi assume quello stato di incapacità naturale, l'onere di provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere; detta prova può apprestarsi con ogni mezzo, dai testimoni (dovendo vertere le testimonianze su circostanze obiettive e non già su valutazioni personali) alle presunzioni, gravi, precise e concordanti, che possono trarsi anche dal contenuto della scheda testamentaria, laddove presenti stranezze o illogicità, ovvero da altri scritti del testatore redatti al tempo del testamento.

Nel caso in esame, erano emerse circostanze che non confermavano lo stato di incapacità di intendere e di volere, come ad esempio la positiva gestione del patrimonio, l'assenza di debiti al momento della morte, la chiara volontà espressa nelle due schede testamentarie. Infatti è orientamento costante della giurisprudenza che, ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del testamento, il giudice di merito non possa ignorare il contenuto dell'atto di ultima volontà e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle disposizioni nonché ai sentimenti ed ai fini che risultano averle ispirate.

La Corte ha sottolineato che le risultanze peritali avevano attestato, nonostante la grave malattia, una buona risposta alla terapia farmacologica, una certa costanza nei controlli e una discreta integrazione nei gruppi di pazienti, «tanto da non rendere necessaria ulteriore assistenza, soprattutto, ai fini del compimento di atti di ordinaria e straordinaria amministrazione».

Soltanto nella diversa ipotesi in cui in sede di prova emerga che il testatore sia stato affetto da incapacità totale e permanente, è a carico di chi voglia avvalersi del testamento l'onere di provarne la redazione in un momento di lucido intervallo.