Espressioni offensive nei confronti del giudice contenute in scritti difensivi: è ammessa la domanda di risarcimento del danno in separato giudizio
01 Luglio 2019
Massima
La domanda di risarcimento dei danni conseguenti ad affermazioni asseritamente offensive contenute in scritti difensivi e rivolte nei confronti del giudice che sta trattando la causa deve essere proposta in un separato giudizio, ai sensi dell'art. 89 c.p.c., che può essere intrapreso direttamente sia nei confronti del difensore che della parte rappresentata, dovendosi ritenere la parte civilmente responsabile di quanto il difensore scrive nello svolgimento dell'attività di patrocinio legale. Il caso
Il sig. M. V., conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Lucera (sezione distaccata di Apricena) la società N.T. SpA, per ottenere il risarcimento dei danni per diffamazione derivante da espressioni offensive utilizzate dall'avvocato della medesima in scritti difensivi nell'ambito di un altro procedimento nel quale l'odierno ricorrente sig. M. V. svolgeva le funzioni di Giudice di pace. Nello specifico la società N.T. SpA, dopo aver presentato in detto giudizio otto istanze di ricusazione, aveva inserito in comparsa conclusionale delle considerazioni volte ad intaccare il prestigio professionale del giudice di pace assegnatario sig. M. V. In primo grado il Tribunale ha respinto le domande del ricorrente, accogliendo l'eccezione di difetto di legittimazione passiva proposta dalla convenuta e ritenendo che, in caso di responsabilità per il risarcimento del danno derivante da reato, del medesimo possa rispondere solo l'autore e quindi il difensore che materialmente aveva redatto la comparsa conclusionale. Anche in secondo grado la Corte d'Appello di Bari ha respinto il gravame, osservando che, in primo luogo, in virtù del principio costituzionale di cui all'art. 27, la responsabilità penale è di carattere personale e in secondo luogo che la tutela di cui all'art. 598 c.p. contro gli eccessi del diritto di difesa ha valenza solamente endoprocessuale e non può essere azionato esternamente rispetto al giudizio in cui gli eccessi offensivi si sono verificati. Da ultimo è stato ritenuto inapplicabile l'art. 89 c.p.c. in quanto il sistema sanzionatorio delineato sarebbe applicabile solamente in caso di offese nei confronti delle parti e non quando la persona offesa sia il giudice. Avverso tale decisione il sig. M. V. ha proposto ricorso in Cassazione, basato su due motivi: 1) Violazione degli artt. 83 e 89 c.p.c. con riferimento all'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.; 2) Violazione e falsa applicazione degli artt. 185, 594, 595 c.p., art. 2059 c.c. e art. 89 c.p.c. con riferimento all'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.
La Suprema Corte, Sez. III, con sua sentenza n. 4733/2019 ha accolto il ricorso cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte d'Appello di Bari per la decisione nel merito della domanda risarcitoria. La questione
La questione giuridica sottesa alla decisione in esame è diretta a stabilire con quali modalità debba essere svolta la domanda di risarcimento del danno conseguente all'utilizzo di espressioni offensive in atti processuali qualora il soggetto che abbia patito tale danno sia il giudice assegnato a tale procedimento e quale soggetto debba essere considerato civilmente responsabile per le espressioni asseritamente offensive utilizzate dall'avvocato durante l'attività di patrocinio legale. Le soluzioni giuridiche
Con la sentenza in esame, la Suprema Corte, ha trattato i due motivi proposti congiuntamente ritenendoli entrambi fondati e meritevoli di accoglimento. In merito alla circostanza per cui l'art. 89 c.p.c. integrerebbe una tutela solamente di tipo endoprocessuale, la Cassazione ha evidenziato chiaramente che qualora le espressioni asseritamente offensive siano rivolte direttamente al giudice della causa in cui vengono depositati gli scritti difensivi contenenti tali espressioni, non si può certo procedere nel medesimo procedimento all'esame di un'eventuale pretesa risarcitoria in favore del giudice stesso, proprio in virtù di quel ruolo di terzietà svolto tale per cui non è una parte del procedimento. Da ciò ne consegue che, non potendosi azionare nell'ambito del medesimo giudizio la domanda risarcitoria derivante dall'utilizzo di espressioni offensive nei confronti del giudice, il medesimo dovrà proporre domanda risarcitoria in un giudizio separato. In merito alla questione relativa al difetto di legittimazione passiva basata sul principio della natura personale della responsabilità penale tale per cui la domanda proposta dal sig. M. V. doveva essere svolta nei confronti del difensore e non della parte, la Suprema Corte ha rilevato che trattandosi di responsabilità civile, la parte è comunque responsabile di ciò che viene detto o scritto dal difensore nell'esercizio del patrocinio non essendo quest'ultimo parte in proprio del procedimento. Viene altresì precisato che, come emerso in altre pronunce, se è vero che la domanda risarcitoria poteva essere proposta direttamente contro il difensore tuttavia ciò non significa che doveva essere proposta solamente contro il difensore e non nei confronti della parte, con la conseguenza che quest'ultima dovrà essere considerata responsabile civilmente delle affermazioni offensive utilizzate dal proprio difensore. Per tali ragioni, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, rinviando alla Corte d'Appello di Bari per la decisione nel merito della domanda risarcitoria formulando il seguente principio di diritto a cui il giudice di secondo grado dovrà uniformarsi: «La domanda di risarcimento dei danni conseguenti ad affermazioni asseritamente offensive contenute in scritti difensivi e rivolte nei confronti del giudice che sta trattando la causa deve essere proposta in un separato giudizio, ai sensi dell'art. 89 c.p.c.; tale giudizio può essere intrapreso sia direttamente nei confronti del difensore sia della parte che questi rappresentava, posto che il difensore non è parte nel giudizio in cui gli scritti sono stati presentati e la parte è comunque civilmente responsabile di quanto il difensore scrive o afferma nello svolgimento dell'attività di patrocinio legale». Osservazioni
Come è noto, l'utilizzo di espressioni sconvenienti ed offensive da parte dell'avvocato è vietato dall'art. 52 del Codice Deontologico Forense, che attribuisce rilevanza disciplinare proprio all'utilizzo di espressioni offensive o sconvenienti negli scritti depositati in giudizio e dirette sia nei confronti di colleghi, controparti o terzi che nei confronti dei magistrati, tanto che il successivo art. 53 del Codice Deontologico stabilisce che i rapporti tra avvocati e magistrati devono essere improntati a dignità e reciproco rispetto. In ottica di risarcimento del danno derivante da tale condotta, l'art. 598 c.p. stabilisce la possibilità per il magistrato di assegnare alla persona offesa dall'utilizzo di espressioni offensive avanti l'autorità giudiziaria, una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. mentre nel processo civile, l'art. 89 c.p.c. stabilisce espressamente un divieto di utilizzare, negli scritti difensivi o nei discorsi pronunciati davanti al giudice, espressioni sconvenienti od offensive, dando la possibilità al giudice “in ogni stato dell'istruzione o con la sentenza che decide la causa” di ordinarne la cancellazione e di assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale di cui all'art. 2059 c.c. Posto che in giurisprudenza si è già pacificamente accertata la possibilità di promuovere in separato giudizio domanda di risarcimento del danno non patrimoniale per l'utilizzo di espressioni offensive in scritti difensivi, è evidente che tale principio debba valere ancor più se la persona offesa è il giudice stesso che tratta la causa. Infatti, in tale circostanza, il giudice non potrebbe certo assegnare a se stesso una somma a titolo di risarcimento del danno, sia in ragione del fatto che, in quello stesso procedimento, non rappresenta certo una parte del processo in cui tali espressioni vengono utilizzate, e sia perché, rivestendo la funzione di giudice designato a giudicare la vertenza, ha il dovere di rimanere, rispetto alla stessa vertenza, terzo ed imparziale secondo quel principio di neutralità su cui si basa la funzione stessa della magistratura. |