L'abuso del processo: un «matrimonio» tra legislatore, principi costituzionali e clausola generale di buona fede
02 Luglio 2019
Premessa
Da tempo la dottrina processualistica ha dedicato attente riflessioni al fenomeno dell'abuso del processo e alle sue ripercussioni sulla funzionalità dell'amministrazione della giustizia. Basti pensare, in proposito, a De Stefano che, in un articolo pubblicato nel 1964 sulla Rivista di diritto processuale, aveva anticipato gli sviluppi che questo fenomeno avrebbe avuto sotto il profilo normativo e giurisprudenziale negli anni successivi. Tra i rilevanti contributi forniti al tema, va menzionata una monografia di Ghirga la quale, muovendo dal presupposto che non tutti i processi servono alla giustizia e che deve tenersi conto delle finalità pubblicistiche e superindividuali degli stessi, ha proposto di inserire nel sistema un vaglio, da parte del giudice, di «meritevolezza della tutela richiesta», quale condizione processuale di accesso al giudizio. In una prospettiva critica si colloca il contributo di Taruffo, il quale ha evidenziato come la nozione di abuso del processo sia «vaga e sfuggente al punto che rimane lecito il dubbio intorno a se essa esista davvero in qualche area dell'ordinamento», rappresentando un fenomeno preoccupante, che rischia di colpire al cuore i diritti soggettivi che le parti intendono tutelare nel processo civile. Nel 2007 sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, affermando il principio per cui è contrario alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., e si risolve in abuso del processo (ostativo all'esame della domanda), il frazionamento di un credito unitario in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo (Cass. civ., Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726 , in Gius. Civ. 2008, 12, 2807, s.m., nota di Fico, v. infra). Circa un anno e mezzo dopo è intervenuto il Legislatore (l. 18 giugno 2009, n. 69), aggiungendo un terzo comma all'art. 96 c.p.c., per razionalizzare e accelerare il processo, sanzionando i comportamenti che ne rallentino il rapido e regolare svolgimento: laddove ricorrano i presupposti il giudice, anche d'ufficio, può condannare il soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata. Soprattutto a seguito dei ricordati sviluppi normativi e giurisprudenziali, sono molti gli articoli e le monografie ad occuparsi del fenomeno dell'abuso del processo, mettendo particolarmente in luce il ruolo svolto dalla giurisprudenza nel delinearne la nozione. Non può, quindi, trascurarsi l'evoluzione registratasi, negli ultimi venti anni, nel nostro ordinamento sull'applicazione dei principi costituzionali e delle clausole generali nell'ambito del diritto delle obbligazioni, nei rapporti contrattuali e, per quanto che qui maggiormente rileva, nelle modalità di utilizzo della giurisdizione. Come è noto, secondo il movimento giuridico e filosofico, conosciuto con il nome di «neocostituzionalismo», il potere giurisdizionale ha un ruolo fondamentale nel processo di attuazione e garanzia dei valori di cui sono espressione i principi e i diritti positivizzati nel Testo costituzionale, e l'interprete, nell'applicare tali principi (tra i quali, la solidarietà e il «giusto processo»), deve effettuare un bilanciamento o ponderazione tra diritti o principi confliggenti, scegliendo di volta in volta quello più pertinente al caso concreto, in abbinamento frequentemente con le clausole generali (buona fede, correttezza, equità, ecc). Il risultato cui si perviene da questo «matrimonio» tra principi costituzionali e clausole generali è il divieto dell'abuso del diritto, pur riconosciuto dalla legge o dal contratto, se l'esercizio di tale diritto si pone in contrasto con i principi sanciti dalla Costituzione (il più applicato è quello di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost. ), anche attraverso il richiamo alla clausola di correttezza e buona fede. Pur non essendo questa la sede per approfondire il tema dell'abuso del diritto, non può dimenticarsi che l'abuso del processo ne è una sua derivazione e spesso il ragionamento seguito dalla giurisprudenza per affermare che la proposizione di una domanda giudiziale costituisca un abuso processuale ricalca lo schema utilizzato per dichiarare l'esistenza dell'istituto dell'abuso del diritto. In proposito, possono risultare utili alcuni esempi. La sentenza di legittimità più importante sull'abuso del diritto, che ha coniugato il principio di solidarietà garantito dall'art. 2 Cost. con la clausola generale di buona fede, è senz'altro la n. 20106 del 18 settembre 2009 ). Si espone, in breve, la vicenda che fa da contesto alla pronuncia della Terza sezione civile della Cassazione. Una casa automobilistica aveva esercitato la facoltà di recesso ad nutum da tutti i contratti di concessione di vendita di autoveicoli sulla base di una clausola contrattuale chiara e precisa. L'Associazione Concessionari Revocati, appositamente fondata, e i concessionari convenivano in giudizio l'azienda, chiedendo che fosse accertata la nullità della clausola contrattuale in questione, con condanna della convenuta a risarcire i danni subiti dagli stessi per effetto dell'abusivo recesso. In primo grado, la domanda attorea era respinta, non ravvisando il giudice alcun esercizio abusivo del diritto di recesso da parte della causa automobilistica (Trib. Roma, 11 giugno 2001, n. 22540 ). La Corte d'appello, adita dai soccombenti, rigettava il gravame, confermando la sentenza impugnata, escludendo che l'atto di esercizio del diritto di recesso potesse essere sottoposto a sindacato da parte del giudice in forza del principio dell'autonomia contrattuale (App. Roma, 13 gennaio 2005, n. 136 ). Avverso la predetta sentenza era interposto ricorso per cassazione. La Corte di legittimità ha cassato la sentenza, affermando che l'esercizio del diritto di recesso va sindacato dal giudice se abusivo e che le parti di un contratto sono tenute a rispettare l'obbligo di buona fede e correttezza, che costituisce «un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica». Il principio, collocato nel quadro dei valori costituzionali, deve intendersi – precisano i Giudici di Piazza Cavour – come una specificazione dei doveri inderogabili di solidarietà sociale ex art. 2 Cost. , imponendo alle parti del rapporto obbligatorio «il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge». È in questa prospettiva – prosegue la sentenza – che si giunge all'affermazione che «il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi». L'istituto dell'abuso del diritto, attraverso il più volte citato principio di solidarietà sancito dall'art. 2 Cost. , entra così direttamente nel contratto, attribuendo vis normativa alla clausola generale di buona fede, funzionalizzando il rapporto negoziale anche nell'interesse della controparte. Esiste, quindi, un divieto di abuso del diritto perché esiste, per ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di comportarsi secondo buona fede oggettiva. Una buona fede che non è più solo una regola di comportamento con effetti risarcitori, ma che diviene regola di validità del contratto o di singole pattuizioni contrattuali qualora esse siano – come nella vicenda in esame – inique e squilibrate. Altro esempio dell'applicazione dell'istituto dell'abuso del diritto si rinviene in due note ordinanze della Corte Costituzionale in materia di caparra confirmatoria (Corte Cost., ord. 24 ottobre 2013, n. 248 e 2 aprile 2014, n. 77). Il Tribunale di Tivoli rimetteva alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1385, comma 2 c.c., censurato in riferimento all'art. 3Cost., nella parte in cui, nel disciplinare la caparra confirmatoria, non prevede che in caso di inadempimento il giudice possa ridurre equamente la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o qualora sussistano giustificati motivi. Entrambe le ordinanze hanno dichiarato la questione manifestamente inammissibile per difetto di motivazione in punto di non manifesta infondatezza e di rilevanza, non avendo il rimettente considerato che nel recesso, disciplinato dall'art. 1385 c.c. , viene in rilievo un inadempimento gravemente colpevole, vale a dire imputabile (ex art. 1218 e 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456 c.c.), omettendo, inoltre, di indagare la reale portata dei patti conclusi nella fattispecie dalle parti contrattuali, non tenendo conto «dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta […] un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte». Il Tribunale rimettente – secondo i Giudici delle leggi – avrebbe potuto e dovuto risolvere la questione facendo applicazione diretta del precetto dell'art. 2 Cost. (per il profilo dell'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), insieme al canone della buona fede, «cui attribuisce vis normativa», rilevando la nullità della clausola contrattuale che preveda una caparra confirmatoria eccessiva, anche se l'art. 1385 c.c. non contempla alcun potere del giudice di riduzione di detta caparra. Anche il concetto di abuso del processo è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità applicando i principi costituzionali in combinato disposto con la clausola generale di buona fede. Con il già citato arresto del 2007, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che il creditore di una somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, non può frazionare il credito in plurime domande giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, poiché la scissione del contenuto dell'obbligazione, «operata dal creditore, per esclusiva propria utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del suo debitore», si pone in contrasto con il generale dovere di correttezza e buona fede, cui deve ispirarsi il rapporto tra le parti sia durante l'esecuzione del contratto sia nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, nonché con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e con il canone del «giusto processo» di cui all'art. 111 Cost., risolvendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali offerti dall'ordinamento alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (Cass. civ.,Sez. Un., 15 novembre 2007, n.23726, in Gius. Civ. Mass. 2007, 11 ). La grande novità di questa sentenza è l'elaborazione della nozione di abuso del processo non solo in una prospettiva privatistica e, quindi, nel rapporto tra debitore e creditore, ma in una dimensione più ampia, che è quella pubblicistica. E dunque, la parcellizzazione del credito – secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite – non incide, in senso pregiudizievole, solo sulla posizione del debitore, ma sottrae la disponibilità dei Giudici alla risoluzione di altre controversie, allungando così i tempi di queste ultime. In pratica il creditore abusa del sistema giustizia, da considerarsi come una risorsa preziosa e limitata della collettività, che va tutelata soprattutto in forza del richiamato art. 111 Cost. sul «giusto processo» e sulla ragionevole durata dello stesso. La prospettiva pubblicistica, tra l'altro, giustifica anche la sanzione processuale dell'inammissibilità della domanda. I principi enunciati dalle Sezioni Unite, seppur con qualche discostamento, hanno trovato conferma nella successiva giurisprudenza di legittimità e di merito (tra le più recenti, Trib. Napoli, sez. II, 17 maggio 2019, n. 5140, Cass. civ., sez. III, 15 febbraio 2018 n. 3738; Cass. civ., sez. III, 6 luglio 2018, n. 17893 ), e sono stati evocati anche in relazione al processo esecutivo. Il creditore, dopo aver ottenuto con un primo precetto il pagamento spontaneo della somma intimata, accettata senza riserve, non può successivamente notificare un nuovo precetto, fondato sul medesimo titolo giudiziale, per il pagamento di un'ulteriore somma, poiché tale condotta si configura come abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, la quale ben avrebbe potuto tutelare il proprio interesse sostanziale mediante la notifica di un solo atto di precetto per tutte le voci di credito ritenute dovute (Cass. civ., sez. lav., 15 marzo 2013, n. 6664, in Gius. civ. Mass. 2013 ). Anche in queste sentenze viene fatto riferimento al profilo pubblicistico, ovvero all'abuso del sistema giustizia, da tutelarsi alla luce dei principio costituzionale del «giusto processo», collegato alla clausola generale di buona fede. Altre pronunce di legittimità hanno avuto per oggetto l'equa riparazione del danno per irragionevole durata del processo, ai sensi della l. n. 89 del 2001 . In particolare, si configura come abusiva la condotta di coloro che, mentre nel processo presupposto hanno agito unitariamente, così dimostrando la carenza di interesse alla diversificazione delle rispettive posizioni, hanno poi proposto contemporaneamente distinti ricorsi per equa riparazione, con il medesimo patrocinio legale, dando luogo, in tal modo, a cause necessariamente destinate alla riunione, giacché connesse per l'oggetto e il titolo. Siffatta condotta contrasta «con l'inderogabile dovere di solidarietà, che impedisce di far gravare sullo Stato debitore il danno derivante dall'aumento degli oneri processuali, e con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, avuto riguardo all'allungamento dei tempi processuali derivante dalla proliferazione non necessaria dei procedimenti» (Cass. civ., sez. VI, 8 ottobre 2014, n.21284; in senso conforme, Cass. civ., sez. I, ord. 3 maggio 2010, n. 10634). Sono riconducibili al tema dell'abuso del processo anche alcune riforme in materia di impugnazione, susseguitesi nel tempo con lo scopo di rafforzare la funzione nomofilattica della Cassazione. Così l'art. 360-bis c.p.c. (introdotto dall'art. 47, comma 1, lett. a) della l. n. 69/2009 ) prevede l'inammissibilità del ricorso quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto conformemente alla giurisprudenza della Suprema Corte «e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della stessa», nonché in caso di manifesta infondatezza della censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del «giusto processo». E ancora, l'art. 348-bis c.p.c. (aggiunto dall'art. 54 del d.l. n. 83/2012, convertito con l. n. 134/2012) ha introdotto una sorta di udienza filtro, prevedendo la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione quando essa non ha una ragionevole probabilità di essere accolta, ciò che si verifica, in particolare, allorché la sentenza appellata richiami i principi consolidati della giurisprudenza di legittimità. Si tratta di norme importanti perché, oltre a incrementare il valore del precedente e la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, come ha rilevato Curzio, si riflettono sul sistema giustizia, evitando inutili appesantimenti e, conseguentemente, impattano positivamente sulle altre cause, che potranno essere trattate con maggiore rapidità. In pratica, vi è un forte nesso tra le suddette disposizioni e il principio costituzionale del «giusto processo». Può, in tal senso, affermarsi che queste norme abbiano lo scopo di evitare abusi processuali. La giurisprudenza di legittimità e la dottrina maggioritaria (Lucchini Guastalla, Dalla Massara, Carratta) attribuiscono al terzo comma dell'art. 96 c.p.c. natura sanzionatoria. Scopo di questa condanna, secondo la Corte di cassazione, è quello di scoraggiare l'abuso dello strumento processuale a tutela dell'interesse pubblicistico al «giusto processo» (tra le tante, Cass. civ., sez. VI, 11 febbraio 2014, n. 3003 ; v., inoltre, Corte Cost., 23 giugno 2016, n. 152). Anche diverse pronunce di merito hanno confermato la natura sanzionatoria / punitiva della norma, richiamando i principi costituzionali. Ecco qualche esempio. Il Tribunale di Varese ha affermato la natura sanzionatoria della norma in parola, che prende le distanze dalla struttura tipica dell'illecito civile per confluire nelle cd. condanne punitive, con le quali il giudice «può (e, invero, deve) responsabilizzare la parte che abbia proposto una domanda giudiziale senza sperimentare alcuna seria soluzione conciliativa ed adducendo - a sostegno delle proprie richieste - argomenti dai quali è possibile evincere un contegno tradottosi in un abuso dello strumento processuale». È, in tal modo, salvaguardato «l'interesse pubblico ad una Giustizia sana e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a sé stesso che, aggravando il ruolo del magistrato e concorrendo a rallentare i tempi di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause» (Trib. Varese, Sez. distaccata di Luino, 23 gennaio 2010 ) Anche il Tribunale di Foggia ha individuato nella previsione di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c. una fattispecie di danno punitivo, prima sconosciuta alla tradizione giuridica italiana, più esattamente «una sanzione pecuniaria irrogabile anche in assenza della prova di un pregiudizio effettivamente subito dalla parte a favore della quale è pronunciata la relativa condanna» (Trib. Foggia, 28 gennaio 2011). Del pari, il Tribunale di Rovigo ha attribuito alla disposizione in esame «natura di sanzione di natura pubblicistica, perché mira a punire il comportamento processuale della parte che viola il principio costituzionale della durata del giusto processo (poiché incide non solo sulla durata del singolo processo ma anche su tutti gli altri a catena) integrando un abuso del processo ovvero una distorsione delle finalità riconosciute dall'articolo 24 della Costituzione» (Trib. Rovigo, sez. distaccata di Andria, 7 dicembre 2010 ) Anche il Tribunale di Siena ha ritenuto che detta condanna rivesta carattere sanzionatorio, richiamando il principio del diritto di azione (di cui è evidenziata «la sacralità costituzionale») (Trib. Siena, 9 giugno 2011, n. 338 ). Nell'interpretare questo articolo, dunque, come in tutti gli altri casi di abuso del processo sopra esaminati, la giurisprudenza ha utilizzato i principi costituzionali, in particolare quello del «giusto processo».
In conclusione
La sanzione dell'abuso del processo è stata introdotta dal Legislatore nel 2009 con lo scopo di scoraggiare l'uso distorto degli strumenti giurisdizionali per finalità diverse o deviate da quelle per le quali sono stati predisposti e, così, preservare la funzionalità dell'amministrazione della giustizia, deflazionando il contenzioso ingiustificato. L'abuso del processo costituisce, per così dire, la proiezione in ambito processuale dell'abuso del diritto. La nozione di abuso evoca il canone generale di correttezza e buona fede, la cui trasposizione nella realtà processuale attribuisce al giudice il potere di individuare e reprimere condotte che si rivelino deleterie per il corretto e celere svolgimento del processo (è il caso dell'ingiustificato frazionamento del credito). Le pronunce giurisprudenziali, a giustificazione dell'esigenza di arginare e sanzionare condotte abusive e nell'ottica di contrasto a comportamenti contrari al principio di lealtà processuale, richiamano i principi enunciati nella Carta costituzionale, primariamente quelli posti a salvaguardia del «giusto processo» e della sua ragionevole durata, dovendo contemperarsi il diritto del singolo all'utilizzo dello strumento processuale (ovvero il diritto di azione e di difesa) con quello della collettività al buon funzionamento del sistema giustizia. In forza degli interessi pubblicistici che tende a realizzare, la condanna ai sensi del terzo comma dell'art. 96 c.p.c. può intervenire ex officio, e dunque su iniziativa del giudice, senza la richiesta della parte e senza che questa dimostri di aver subito un danno in conseguenza del processo. BUFFONE G., Un grimaldello normativo in abito civile per frenare la proliferazione di liti temerarie, in Guida Dir. 2011, 3, p. 50; CARRATTA A., L'abuso del processo e la sua sanzione: sulle incertezze applicative dell'art. 96, comma 3 c.p.c., in Fam. E Dir, 2011, 814 ss.; CURZIO P., Il Giudice e il precedente, in Il vincolo giudiziale del passato, a cura di Carleo A., 2018; DALLA MASSARA T., Terzo comma dell'art. 96 cod. proc. civ.: quando, quanto e perché, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 69; DE STEFANO G., Note sull'abuso del processo, in Riv. Dir proc. 1964, 582 ss.; FICO V., La tormentata vicenda del frazionamento della tutela giudiziaria del credito, in Gius. Civ., fasc.12, 2008, pag. 2807B; GHIRGA M.F., Abuso del processo e sanzioni, Milano 2012; LUCHINI GUASTALLA E., La compatibilità dei danni punitivi con l'ordine pubblico, alla luce della funzione sanzionatoria di alcune disposizioni normative processuali civilistiche, in Resp. Civ prev., fasc. 5, 2016, p. 1474; MARIOTTI P. - CAMINITI R., La responsabilità da processo, Milano 2018; Id., Natura della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. e criteri di liquidazione proposti dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano, in Ridare.it, 23 ottobre 2018; ROMUALDI G., Dall'abuso del processo all'abuso del sistema giustizia, Torino 2013; SPERA D., Tabelle Milanesi 2018 e danno non patrimoniale, in Officina del Diritto, Giuffrè, 2018; TARUFFO M., Abuso del processo, in Contratto e impresa, 2015, 31, 4/5, 832 ss.; Id., L'abuso del processo: profili generali, Riv. Trim. Dir. E Proc. Civ., 2012, 66, 1, 117 ss. |