Responsabilità nelle attività sportive agonistiche e non

Giovanni Gea
22 Luglio 2019

La responsabilità civile è la conseguenza giuridica che l'ordinamento statale fa discendere dalla violazione del principio generale ed inderogabile del “neminem laedere”, codificato dall'art. 2043 c.c., che impone a tutti i soggetti dell'ordinamento giuridico di informare la propria condotta ai “normali” canoni di diligenza, prudenza e perizia al fine di non cagionare ad altri un danno ingiusto.
Inquadramento

La responsabilità civile è la conseguenza giuridica che l'ordinamento statale fa discendere dalla violazione del principio generale ed inderogabile del “neminem laedere”, codificato dall'art. 2043 c.c., che impone a tutti i soggetti dell'ordinamento giuridico di informare la propria condotta ai “normali” canoni di diligenza, prudenza e perizia al fine di non cagionare ad altri un danno ingiusto.

Presupposto dell'ingiustizia del danno, fonte di responsabilità extra-contrattuale e di conseguente obbligo risarcitorio, è la condotta antigiuridica ossia la condotta non giustificata (non iure) e lesiva di un interesse soggettivo meritevole di tutela per l'ordinamento (contra ius).

Posto che l'ordinamento statale legittima ed incoraggia l'attività sportiva - anche quella “a violenza necessaria” come il pugilato ovvero “a violenza eventuale” come il calcio sul presupposto della sua utilità sociale per il miglioramento della salute - scriminando, entro determinati limiti, le condotte degli atleti che, in violazione delle regole del gioco, cagionano lesioni all'avversario, è evidente che i criteri per individuare in quali ipotesi queste siano antigiuridiche e, dunque, fonte di responsabilità risarcitoria, non potranno essere né i “normali” canoni di diligenza, prudenza e perizia né le sole “regole tecniche e cautelari” di settore, essendo contraddittorio che un medesimo fatto sia, allo stesso tempo, consentito e vietato.

Si pone, allora, la questione di quale debba essere il criterio sulla base del quale il giudice ordinario accerta, nel caso concreto, se l'atleta possa essere ritenuto responsabile ex art. 2043 c.c. per i danni cagionati all'avversario essendo evidente che i tradizionali profili di responsabilità civile subiscono un'attenuazione nell'ambito del fenomeno sportivo.

L'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ritiene che il metro di valutazione della condotta dell'atleta debba tener conto sia delle “regole tecniche e cautelari” di settore - quali meri parametri di riferimento per individuare i modelli di condotta che normalmente è lecito attendersi dall'atleta - che della causa di giustificazione atipica del c.d. “rischio sportivo consentito” - inteso come tale quello che ogni atleta può legittimamente attendersi perché normalmente connesso alla fisiologica alea dello sport praticato secondo gli schemi tipici della disciplina - in relazione al “contesto”, alle “caratteristiche” ed al “rilievo” della gara o della competizione (Cass. pen., sez. V, 13 marzo 2017, n. 11991; Cass. pen., sez. V, 29 aprile 2009, n. 17923; Cass. pen., sez. V, 23 maggio 2005, n. 19473).

Alla luce di detti criteri è, infatti, possibile accertare se condotte che “normalmente” sono considerate antigiuridiche (ad esempio, un pugno in pieno volto in ambito cittadino) trovino la loro causa di giustificazione in un determinato contesto (ad esempio, un regolare incontro di pugilato) escludendo, così, l'obbligo di risarcire il danno eventualmente cagionato.

Ordinamento sportivo ed ordinamento statale: rapporti

Prima di esaminare gli aspetti peculiari della responsabilità civile dell'atleta, è opportuno definire natura ed ambito di competenza dell'ordinamento sportivo nonché i suoi rapporti con l'ordinamento statale per meglio comprendere in quali casi una controversia insorta nell'ordinamento sportivo sia riservata alla “giustizia sportiva” ovvero alla “giustizia ordinaria”.

Anzitutto, occorre osservare come il “formale” e “definitivo” riconoscimento dell'autonomia dell'ordinamento sportivo rispetto a quello statale è avvenuto solo con d.l. 19 agosto 2003 n. 220, convertito con l. 17 ottobre 2003 n. 280.

Fino ad allora, tuttavia, la giurisprudenza aveva già avuto modo di affermare che, in virtù della l. 16 febbraio 1942, n. 426, istitutiva del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI), doveva ritenersi che «l'ordinamento statale non si limita a riconoscere l'ordinamento sportivo, ma gli attribuisce anche la propria funzione amministrativa nel settore sportivo; l'attribuzione della potestà normativa si concreta nell'emanazione di norme attinenti all'ordinamento ed al funzionamento delle strutture organiche (regolamenti di organizzazione), alla regolamentazione dell'esercizio e dello svolgimento dell'attività sportiva (regolamenti indipendenti)» (Cass. civ., 11 febbraio 1978, n. 625; Cass. civ., Sez. Un., sent. 26 ottobre 1989, n. 4399; Trib. Ravenna, 14 settembre 1994).

L'art. 1, comma 1, del d.l. 19 agosto 2003 n. 220 stabilisce che «la Repubblica riconosce e favorisce l'autonomia dell'ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell'ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Nazionale».

Tuttavia, nonostante questo riconoscimento, l'autonomia dell'ordinamento sportivo, al pari di altri ordinamenti settoriali (ad esempio, religioso, militare, forense, ecc.), non è impermeabile all'ordinamento statale quando un fatto, benché verificatosi nello svolgimento dell'attività sportiva, riguarda situazioni soggettive.

Infatti, al comma 2 del predetto articolo, è stabilito che «I rapporti tra l'ordinamento sportivo e l'ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo».

Ciò significa che, anche in relazione a fatti accaduti nello svolgimento di un'attività sportiva, l'ordinamento statale continua ad esercitare la propria sovranità ed il proprio potere autoritativo per la tutela di norme sostanziali funzionali al perseguimento di interessi rilevanti per il proprio ordinamento.

Del resto, l'ordinamento sportivo, che può emanare solo atti di normazione secondaria, è riconosciuto dall'ordinamento statale per la meritevolezza dei fini perseguiti dai propri soggetti che, tuttavia, sono anche soggetti dell'ordinamento statale e, pertanto, comunque sottoposti alla giurisdizione dello Stato innanzi la cui Autorità Giudiziaria possono chiedere la tutela delle proprie posizioni soggettive laddove coinvolgenti interessi “extra-sportivi” di natura patrimoniale e non.

Infatti, l'ordinamento sportivo ha potere “giurisdizionale” solo all'interno del proprio ambito e relativamente a questioni aventi ad oggetto regole “tecniche” e “di settore” alle quali i propri membri devono attenersi.

Così dispone, del resto, l'art. 2, comma 1, d.l. 19 agosto 2003 n. 220, convertito con l. 17 ottobre 2003 n. 280, ove si precisa che «In applicazione dei principi di cui all'articolo 1, è riservata all'ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto: a) l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività' sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive.

Pertanto, laddove le questioni non hanno ad oggetto decisioni squisitamente “tecniche” ma coinvolgono posizioni soggettive giuridicamente rilevanti per l'ordinamento statale, la competenza è certamente dell'Autorità Giudiziaria Ordinaria ovvero Amministrativa (art. 24 Cost.).

Con particolare riferimento alle lesioni cagionate dall'atleta nell'esercizio di un'attività sportiva, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che «le controversie aventi ad oggetto una richiesta di risarcimento del danno extracontrattuale devono essere ricondotte alla giurisdizione ordinaria, in quanto concernenti un diritto che trova la sua unica tutela nell'ordinamento giuridico positivo» (Cass. civ., 26 ottobre 1989, n. 4399; Trib. Trento 14 marzo 1980).

Sport violenti, a violenza eventuale e non violenti

Preliminarmente all'esame dell'evoluzione giurisprudenziale circa il fondamento giuridico ed il limite della scriminante sportiva, occorre evidenziare che, solo nel caso di attività sportive “a violenza necessaria” o “a violenza eventuale”, sussiste il problema di individuare, caso per caso, se l'atleta possa essere ritenuto civilmente o penalmente responsabile dei danni cagionati all'avversario poiché, nel caso di lesioni provocate in occasione dell'esercizio di attività sportive non violente, non troverà certamente applicazione la scriminante sportiva.

La giurisprudenza, in base a quanto previsto dai singoli regolamenti sportivi in merito al fine da raggiungere, ai mezzi ed alle modalità consentiti a tale scopo, individua, generalmente, tre categorie di attività sportive:

a) attività sportive “a violenza necessaria” in cui il contatto fisico e l'applicazione di forza muscolare contro l'avversario costituisce l'essenza stessa della disciplina (pugilato, judo, football americano);

b) attività sportive “a violenza eventuale” in cui il contatto fisico è possibile ma non necessario con conseguente rischio per l'incolumità degli atleti (calcio, hockey, rugby, pallacanestro);

c) attività sportive “non violente” le cui modalità di svolgimento non presuppongono alcun contatto fisico tra gli atleti (nuoto, tennis, atletica leggera).

Il “rischio consentito” come fondamento e limite della scriminante sportiva

Come già accennato, l'ordinamento statale legittima ed incoraggia ogni tipo di attività sportiva poiché ritenuta socialmente utile per il miglioramento delle condizioni fisiche, scriminando, entro determinati limiti, le condotte degli atleti che, in violazione delle regole di gioco, cagionano lesioni all'avversario.

La scriminante sportiva ha la funzione di rendere lecite condotte lesive che, “normalmente”, sarebbero fonte di responsabilità civile operando, dunque, come causa di giustificazione dell'illecito compiuto dall'atleta nell'esercizio dell'attività sportiva.

La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, solo di recente pare essersi uniformata su quale sia il fondamento giuridico ed il limite della scriminante il comportamento dell'atleta che, durante lo svolgimento dell'attività sportiva, provoca danni ad altri atleti.

Infatti, un primo orientamento interpretativo fondava il criterio scriminante sul “consenso dell'avente diritto” previsto dall'art. 50 c.p. per cui l'atleta che partecipava ad un'attività sportiva accettava il rischio di subire i danni che normalmente rientravano nel tipo di attività praticata e, dunque, “autorizzava”, seppur implicitamente, il danneggiante a ledere un proprio diritto rimuovendone, così, l'antigiuridicità della condotta (Cass. pen., sez. V, 30 aprile 1992, n. 9627; Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 1997, n. 1564; Cass. pen., sez. I, 20 novembre 1973; Trib. Brindisi, 9 dicembre 1999).

Secondo tale impostazione, il comportamento dell'atleta era considerato antigiuridico e, conseguentemente, fonte di responsabilità risarcitoria, solo laddove le regole del gioco erano state violate attraverso un comportamento gravemente colposo oppure doloso, poiché il consenso riguardava, implicitamente, anche quelle condotte scorrette che erano, purtuttavia, da considerare rientranti nello sviluppo della competizione sportiva.

Tale orientamento, è stato, successivamente, abbandonato in quanto il “consenso dell'avente diritto” riguardava diritti indisponibili, quale quello alla vita ed all'integrità fisica, e, pertanto, in contrasto con le disposizioni codicistiche (art. 579 c.p. ed art. 5 c.c.) per cui, qualsiasi forma di consenso dell'atleta ad una lesione o messa in pericolo della vita o dell'integrità fisica era da considerarsi inefficace.

Un secondo orientamento interpretativo fondava, invece, il criterio scriminante sull'”esercizio del diritto” previsto dall'art. 51 c.c. (rectius, “esercizio dell'attività sportiva”) per cui l'atleta non era responsabile delle lesioni cagionate in quanto si avvaleva della legittima facoltà di conseguire un risultato sportivo il cui valore sociale prevaleva sugli interessi di altri atleti eventualmente in conflitto (Trib. Genova, 23 ottobre 1952; Trib. Bari, 22 maggio 1963).

Tale orientamento si fondava sull'assunto che tutte le disposizioni legislative (a partire dalla l. 16 febbraio 1942, n. 426 che aveva riconosciuto il CONI come Ente di diritto pubblico con personalità giuridica) favorivano ed incoraggiavano l'attività sportiva cosicché la pratica dello sport doveva ritenersi autorizzata e, quindi, legittimata dall'ordinamento giuridico, anche quando determinava condotte aggressive o violente previste, comunque, dalle regole del gioco.

Anche tale orientamento, tuttavia, è stato abbandonato in quanto, da un lato, riteneva responsabile l'atleta solo laddove il danno cagionato fosse conseguenza di una condotta violativa delle norme regolamentari e, dall'altro, scriminava solo i fatti verificatisi nello svolgimento di gare o competizioni ufficiali nell'ambito dell'organizzazione del CONI e delle sue Federazioni e non anche quelli avvenuti in competizioni libere o, comunque, non rientranti nella sfera organizzativa dell'ordinamento sportivo.

A partire dagli anni 2000, la giurisprudenza ha iniziato a fare riferimento, alla luce del fatto che la competizione sportiva è, da un lato, ammessa ed incoraggiata dallo Stato per gli effetti positivi che svolge sulle condizioni fisiche delle persone e, dall'altro, ritenuta dalla coscienza sociale positiva per l'armonico sviluppo dell'intera comunità, attraverso un procedimento analogico in bonam partem con le cause di giustificazione codificate, all'esistenza di una causa di giustificazione “atipica” o “non codificata”, la cui ratio era rappresentata dal fatto che, entro l'area del c.d. “rischio consentito”, era esclusa l'antigiuridicità della lesione sportiva per mancanza di danno sociale (Cass. pen., sez. V, 21 febbraio 2000, n. 1951; Cass. pen., sez. IV, 27 marzo 2001, n. 24942; Cass. pen., sez. V, 20 giugno 2001, n. 24942; Trib. Rieti, 12 gennaio 2001; Trib. Trento, 2 gennaio 2001; Cass. pen., sez. IV, 25 settembre 2003, n. 39204; Cass. pen., sez. V, 23 maggio 2005, n. 19473; Cass. pen., Sez. V, 4 luglio 2008, n. 44306).

Ciò, al fine di consentire lo svolgimento dell'attività sportiva, ritenuta socialmente utile, mantenendo, tuttavia, il livello di pericolosità entro limiti accettabili per l'ordinamento.

In tal modo, la responsabilità sussisterebbe soltanto nel caso in cui l'evento dannoso si sia verificato non tanto per la violazione delle regole del gioco quanto, piuttosto, per il superamento del limite del "rischio consentito" ossia del rischio che ogni atleta può legittimamente attendersi dall'avversario perché normalmente connesso alla fisiologica alea dello sport praticato secondo gli schemi tipici della disciplina, tenuto conto, però, delle circostanze del “caso concreto, quali il “contesto”, le “caratteristiche” ed il “rilievo” della gara o della competizione.

Orientamenti a confronto (sotto paragrafo con titolo fisso e obbligatorio)

FONDAMENTO SCRIMINANTE: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

La scriminante trova fondamento nel “consenso dell'avente diritto” di cui all'art. 50 c.p. il quale prevede non essere punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con il consenso della persona che può validamente disporne.

Cass. pen., sez. V, 30 aprile 1992, n. 9627

Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 1997, n. 1564

Cass. pen., sez. I, 20 novembre 1973;

Trib. Brindisi, 9 dicembre 1999

La scriminante trova fondamento nell'”esercizio del diritto” di cui all'art. 51 c.c. il quale prevede che l'esercizio di un diritto, o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica, esclude la punibilità

Trib. Genova, 23 ottobre 1952

Trib. Bari, 22 maggio 1963

La scriminante trova fondamento in una causa di giustificazione “atipica” o “non codificata” del “rischio consentito”

Cass. pen., sez. V, 21 febbraio 2000, n. 1951

Cass. pen., sez. IV, 27 marzo 2001, n. 24942

Trib. Rieti, 12 gennaio 2001

Trib. Trento, 2 gennaio 2001

Cass. pen., sez. IV, 25 settembre 2003, n. 39204

Cass. pen., sez. V, 23 maggio 2005, n. 19473

Cass. pen., sez. V, 4 luglio 2008, n. 44306

Cass. pen., sez. IV, 25 novembre 2015, n. 9559

Attività sportiva agonistica ed amatoriale

Come accennato nel paragrafo precedente, aspetto imprescindibile che il giudice ordinario considera per graduare il limite del “rischio consentito” scriminante la condotta dell'atleta che cagiona danni all'avversario, è certamente il “contesto” in cui l'attività sportiva è praticata (Cass. pen., sez. V, 30 aprile 1992, n. 1002).

Infatti, la valutazione della condotta dannosa dell'atleta è più o meno rigorosa a seconda che sia posta in essere nello svolgimento di un'attività sportiva “amatoriale” ovvero “agonistica”.

La ratio di tale differente valutazione risiede nel fatto che la carica agonistica tipica di una rilevante competizione tra atleti professionisti non può essere valutata positivamente se il contesto di gioco è amatoriale (Cass. civ., sez. III, 8 agosto 2002, n. 12012).

Ciò, in quanto, l'“attività agonistica” (dal gr. agōnists “lottatore”) è praticata sistematicamente con lo scopo di vincere le gare o i campionati organizzati dall'ordinamento sportivo cui è obbligatorio essere tesserati.

L'”attività amatoriale”, invece, è esercita occasionalmente, in un contesto amicale e per il puro divertimento o il semplice raggiungimento o mantenimento del benessere psico-fisico.

In sostanza, l'atleta agonista è animato dallo spirito della “competizione” che si inserisce in un contesto organizzato e regolamentato dall'ordinamento sportivo (CONI) mentre l'atleta non agonista è animato da spirito “ludico” che si inserisce in un contesto “amatoriale” di mero svago e di impiego del tempo libero con gli amici.

Pertanto, è evidente che l'attività sportiva “amatoriale”, proprio per l'assenza della componente “competitiva”, richiede una maggiore prudenza, un maggior controllo dell'ardore, dell'impeto, della forza muscolare, della velocità, per evitare non necessarie lesioni all'avversario essendo, per l'appunto, inserita in un contesto “amicale” e di “divertimento” in cui il risultato finale è irrilevante (Cass. pen.,sez. V, 12 aprile 2016, n. 15170; Cass. pen., sez. V, 21 febbraio 2000, n. 1951).

In tale contesto, dunque, è ovvio che il grado di “rischio consentito”, invocabile quale causa di giustificazione per escludere l'antigiuridicità della condotta, sia “lieve” trattandosi di attività non finalizzata a conseguire necessariamente la vittoria o a dominare l'avversario con ogni mezzo (Trib. Roma, 4 aprile 1996).

Negli stessi termini si è pronunciata la S.C. affermando che «Nel caso di attività sportiva esplicantesi non in un competizione, bensì in una esibizione o in un allenamento, i contendenti debbono pertanto usare particolare prudenza e diligenza per non travalicare i limiti concessi a siffatte modalità di pratica sportiva, caratterizzata da una minore carica agonistica, da un maggior controllo delle manifestazioni di violenza agonistica e della velocità dei colpi, con specifico riferimento alla capacità di esperienza dell'avversario ed ai mezzi di protezione in concreto utilizzati»(Cass. pen., sez. IV, 7 ottobre 2003, n. 39204).

Le regole del gioco

Altro aspetto che il giudice ordinario tiene in considerazione per graduare il limite del “rischio consentito” sono le regole del gioco.

Esse costituiscono uno dei parametri di riferimento per individuare i modelli di condotta che è lecito attendersi dall'atleta e sono determinanti per la valutazione della colpa.

Infatti, ogni attività sportiva ha un proprio regolamento che disciplina, attraverso regole tecniche e regole di gioco, la condotta che ogni atleta deve adottare durante il suo svolgimento.

Tali regole sono a presidio sia dell'interesse generale al corretto svolgimento dell'attività sportiva secondo gli schemi tipici che le sono propri, sia dell'incolumità dell'atleta (e, specularmente, della sua responsabilità nel caso di procurati danni, anche fortuiti, laddove siano stati travalicati i limiti dell'alea sportiva ritenuta normale per una determinata disciplina) (Cass. pen., sez. V, 30 aprile 1992, n. 9627).

Tant'è che, generalmente, le lesioni che rientrano nella normale alea della particolare attività sportiva, laddove cagionate nel rispetto delle regole del gioco, sono scriminate sulla base del consenso implicito prestato dagli atleti, consapevoli dei rischi cui si espongono nel praticare una determinata attività sportiva (Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2009, n. 3528; Cass. civ., sez. III, 27 ottobre 2005, n. 20908; Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 1997, n. 1564).

Pertanto, anche se, come verrà evidenziato infra, il mero rispetto delle regole tecniche previste per lo svolgimento della competizione sportiva non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell'atleta, certamente costituisce per il giudice ordinario una presunzione di liceità della condotta.

Illecito sportivo ed illecito civile

Come abbiamo visto, all'ordinamento sportivo è riservata, tra le altre, la disciplina delle questioni aventi ad oggetto i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive (art. 2, comma 1, d.l. 19 agosto 2003 n. 220, convertito con l. 17 ottobre 2003 n. 280).

Nel caso di atleta agonista, ossia tesserato ad una Federazione o Ente di promozione sportiva riconosciuti dal CONI, la violazione delle regole tecniche e di gioco disciplinanti il corretto svolgimento di una determinata attività sportiva, viene sanzionata disciplinarmente dall'ordinamento sportivo come “illecito sportivo”.

Anche per l'atleta amatore, la violazione delle regole tecniche e di gioco disciplinanti il corretto svolgimento di una determinata attività sportiva integra gli estremi di “illecito sportivo” ma non vi sarà alcuna reazione da parte dell'ordinamento sportivo per mancanza di appartenenza a detto ordinamento.

Generalmente, sia per l'atleta agonista che per quello amatoriale, il rispetto delle regole tecniche e di gioco esclude la responsabilità per i danni cagionati all'avversario durante l'attività sportiva.

Nondimeno, la violazione di dette regole, certamente rilevante per l'ordinamento sportivo nel caso in cui l'atleta sia “agonista”, non è, di per sé, fonte di illecito civile né indizio di responsabilità civile.

Infatti, perché l'illecito sportivo sia, al tempo stesso, anche illecito civile, è necessario che sia superata la soglia del c.d. “rischio consentito” (Cass. pen., sez. V, 23 maggio 2005, n. 19473).

L'illecito sportivo, infatti, laddove sia fonte di un danno che non supera la soglia del “rischio consentito” non rileva per l'ordinamento statale per mancanza di danno sociale.

Tant'è che, «In tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva deve ritenersi che, qualora i comportamenti violenti non oltrepassino la soglia del rischio consentito nella specifica attività, essi appartengono alla categoria degli illeciti sportivi penalmente non rilevanti, poiché sprovvisti di antigiuridicità per mancanza di danno sociale. Ne consegue che non è punibile lo sportivo il quale, nel rispetto delle regole del gioco, o violandole entro i limiti dell'illecito sportivo, cagioni un evento lesivo all'avversario: ciò in quanto la pratica sportiva, così come identificata, costituisce una causa di giustificazione non codificata» (Cass. pen., sez. V, 8 agosto 2000, 8910).

Nondimeno, anche la violazione volontaria del regolamento di gioco, laddove non abnorme o palesemente sproporzionata rispetto al contesto ed alle finalità della gara o della competizione, non configura, di per sé, superamento del “rischio consentito” e, di conseguenza, illecito civile per cui la condotta difforme dalle regole del gioco, come tale sanzionata dall'ordinamento sportivo, rileva unicamente come illecito sportivo (Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2018; Cass. civ., sez. III, 8 agosto 2002, n. 12012).

Tuttavia, come sopra accennato, il rispetto delle regole tecniche e di gioco non sempre esclude la responsabilità per i danni cagionati all'avversario durante l'attività sportiva.

Ciò, in quanto, l'esercizio del diritto alla pratica sportiva incontra non solo il limite del dovere di rispettare le regole tecniche ma, soprattutto, i principi che informano l'ordinamento sportivo tra cui quello della lealtà e correttezza nei confronti dell'avversario.

Pertanto, il comportamento dell'atleta, anche laddove posto in essere nel rispetto “formale” delle regole del gioco - il che esclude che possa essere considerato “illecito sportivo” – può anche essere fonte di illecito civile qualora il fatto lesivo sia commesso in collegamento di mera occasionalità con una gara sportiva la quale rappresenta solo la cornice dell'azione, volta dolosamente a cagionare lesioni all'avversario, magari per ritorsione o per un risentimento personale (Cass. pen. n. 45210/2005; Cass. pen. n. 19473/2005; Cass. civ. n. 12012/2002; Cass. pen. n. 24942/2001; Cass. pen. n. 1951/1999).

Nondimeno, il comportamento dell'atleta può essere colposo se la violazione delle regole di gioco sono una involontaria evoluzione dell'azione fisica “sproporzionatamente” esplicata in relazione al contesto ed alla finalità.

Conseguentemente, non potrà operare la scriminate sportiva sia quando la condotta presenta un grado di violenza sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco, alla natura ed alla rilevanza dello stesso (ad esempio una competizione amatoriale) e sia quando il contesto sportivo è solo l'occasione dell'azione violenta, anche laddove non vi sia alcuna violazione delle regole dell'attività, essendo la finalità lesiva lo scopo del gesto atletico (Cass. civ., sez. V, 28 marzo 2017, n. 33275; Cass. pen., sez. V, 13 marzo 2017, n. 11991; Cass.pen.,sez. IV, 26 novembre 2015, n.9559; Cass.pen., sez. V, 21 settembre 2005, n. 45210; Cass.pen., sez. V, 20 gennaio 2005, n. 19473; Cass.pen., sez. V, 2 giugno 2000, n. 8910).

Da quanto precede appare evidente come vi possano essere condotte rilevanti solo per l'ordinamento sportivo (“illecito sportivo”), condotte rilevanti solo per l'ordinamento statale (“illecito civile”) oppure condotte rilevanti per entrambi gli ordinamenti dal momento che giustizia ordinaria e giustizia sportiva perseguono e tutelano interessi non sempre coincidenti.

Infatti, le regole tecniche e di gioco sono solo uno dei criteri di giudizio che il giudice ordinario prende in considerazione per valutare se la condotta posta in essere dall'atleta possa definirsi illecita per l'ordinamento statale e, dunque, possa essere fonte di responsabilità civile in caso di eventi lesivi.

In definitiva, il rispetto delle regole tecniche segna solo il discrimine tra lecito ed illecito in chiave sportiva.

Elemento oggettivo

Se per l'ordinamento sportivo è certamente lecita la condotta dell'atleta rispettosa delle regole tecniche per lo svolgimento della competizione sportiva anche laddove cagioni eventuali danni all'avversario, per l'ordinamento statale la liceità o meno della condotta va valutata sia alla stregua delle “regole tecniche” che disciplinano la particolare attività sportiva praticata, sia alla stregua del “rischio consentito” posto che l'atleta che partecipa ad una attività sportiva accetta solo i rischi che rientrano nella sua normale alea.

Ciò significa che il mero rispetto delle regole tecniche previste per lo svolgimento della competizione sportiva non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell'atleta ma rappresenta solo una presunzione di liceità della condotta, la quale viene meno di fronte a contrari elementi quali, ad esempio, la volontà di ledere.

Elemento soggettivo

L'elemento soggettivo (dolo o colpa) dell'illecito riveste un ruolo di fondamentale importanza nell'accertamento della responsabilità dell'atleta per i danni cagionati e va indagato, caso per caso, in relazione al tipo di sport e di gara.

Il criterio adottato dal giudice ordinario è quello del “nesso funzionale” tra la condotta dannosa e l'attività praticata (Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2004, n. 20597).

Infatti, nel caso di condotta volontaria, incompatibile con le caratteristiche e lo spirito di una determinata disciplina sportiva perché finalizzata a cagionare lesioni all'avversario (ad esempio il “fallo di reazione”), la mancanza del “nesso funzionale” è, certamente, fonte di responsabilità civile.

Pertanto, nessuna scriminante potrà essere applicata con conseguente obbligo risarcitorio per condotta dolosa essendo stata la competizione sportiva una mera occasione dell'illecito (Cass. pen., sez. IV, 25 novembre 2015, n. 9559).

Nel caso di atto involontario, invece, compatibile con le caratteristiche e lo spirito di una determinata disciplina sportiva e finalizzata, non ad arrecare lesioni all'avversario ma a conseguire, seppur in forma illecita e dunque antisportiva, un determinato obiettivo agonistico, occorre valutare, in relazione al contesto in cui si è verificata la condotta violenta funzionalmente connessa alla fase di gioco, se la stessa sia stata “abnorme” o “sproporzionata” perché eccedente il limite del “rischio consentito” (Trib. Bari, 22 maggio 1963).

Pertanto, in ipotesi di atti compiuti allo specifico scopo di ledere, anche se gli stessi non integrano una violazione delle regole dell'attività svolta, sussiste sempre la responsabilità dell'atleta per mancanza del “nesso funzionale” tra condotta ed attività sportiva.

La responsabilità non sussiste, invece, se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell'attività e non sussiste neppure se, pur in presenza di violazione delle regole proprie dell'attività sportiva specificamente svolta, l'atto sia a questa funzionalmente connesso.

Tuttavia, il nesso funzionale con l'attività sportiva non è idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte in cui il danno oltrepassi il “rischio consentito” per essere stato impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero con il contesto ambientale nel quale l'attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano.

Nesso di causalità

Nella responsabilità extra-contrattuale disciplinata dall'art. 2043 c.c. il danneggiato deve dimostrare il nesso di causalità tra la condotta dolosa o colposa del danneggiante ed il danno subito.

Si tratta del rapporto di causa-effetto tra il comportamento del soggetto agente e la realizzazione del danno al fine di valutare se, la condotta dell'atleta possa ritenersi causa o concausa dei danni cagionati all'avversario.

In tal senso si è espressa la S.C. che ha ritenuto l'assenza di nesso causale tra la condotta di un atleta ed i danni subiti da altro atleta nel cadere a terra in quanto la spinta inferta non era idonea a provocare la frattura della mandibola (Cass. civ., 28 ottobre 2009, n. 22811).

Onere della prova

Il danneggiato, al fine di ottenere il risarcimento del danno subito, dovrà fornire la prova degli elementi costitutivi dell'illecito.

Si tratta di un onere particolarmente gravoso essendo richiesta la specifica prova del danno subito, del nesso causale che correli eziologicamente il danno alla condotta del danneggiante nonchè dell'elemento soggettivo ossia la prova del dolo o, quantomeno, della colpa.

Al fine di fornire la prova dei fatti posti a fondamento della domanda risarcitoria, il danneggiato potrà fare ricorso, oltre che ai testimoni, anche all'eventuale referto arbitrale del direttore di gara che, tuttavia, non ha valore vincolante per il giudice ordinario il quale sarà libero di valutare nel modo che ritiene più opportuno la condotta incriminata, ben potendosi discostare dalla valutazione ivi contenuta.

Responsabilità sportiva e responsabilità civile

Come abbiamo visto, in materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad un infortunio sportivo, qualora siano derivate lesioni personali ad un atleta a seguito di un fatto posto in essere da un avversario, il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha provocato il danno sia esente da responsabilità civile sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, collegamento che va escluso se l'atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, anche se lo stesso non integra una violazione delle regole tecniche.

La responsabilità civile dell'atleta non sussiste, invece, se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole tecniche e, neppure, in presenza di violazione delle regole proprie dell'attività sportiva specificamente svolta, laddove l'atto sia a questa funzionalmente connesso.

In entrambi i casi, tuttavia, il nesso funzionale con l'attività sportiva non è idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte che venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l'attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano perché in tali casi verrebbe oltrepassato il limite del c.d. “rischio consentito” (Cass. civ., sez. III, 8 agosto 2002, n. 12012).

Conclusioni

Da quanto sopra evidenziato è possibile affermare che nell'ambio dell'attività sportiva “a violenza necessaria” ovvero “a violenza eventuale”, il criterio di giudizio del giudice ordinario, per accertare se un atleta sia responsabile dei danni cagionati all'avversario, non è tanto il mancato rispetto della regola sportiva, la cui violazione è certamente fonte di responsabilità sportiva (rectius, disciplinare) bensì il criterio del “nesso funzionale” e del “rischio consentito”.

Ciò, in quanto, per il giudice ordinario, il criterio della regola tecnica non esaurisce la propria indagine in merito alla responsabilità del danneggiante poiché le regole del gioco costituiscono dei meri parametri di riferimento per individuare i modelli di condotta che è lecito attendersi dall'atleta.

Tant'è che, non qualsiasi violazione di una regola del gioco è fonte di responsabilità civile in quanto ogni competizione sportiva richiede all'atleta, per poter essere svolta in maniera efficace, un'elevata dose di energia, rapidità, velocità, aggressività, istintività, che non sempre sono compatibili con il costante rispetto delle regole proprie del gioco (Cass. civ., sez. III, 8 agosto 2002, n. 12012).

Inoltre, la lesione dell'integrità fisica di un partecipante ad una competizione sportiva è necessariamente una eventualità contemplata (c.d. “rischio consentito”) in quegli sport caratterizzati da un certo grado di contrasto fisico tra gli atleti in funzione del raggiungimento di un risultato favorevole.

Pertanto, «In materia di risarcimento del danno conseguente ad un infortunio sportivo, giacché la lesione dell'integrità fisica del giocatore ad opera di altro partecipante costituisce un'eventualità contemplata e che un gioco si caratterizza per le sue connotazioni tipiche, la responsabilità va esclusa se, pur in presenza di violazione della regola propria dell'attività sportiva specificamente svolta, l'atto sia a questa funzionalmente connesso» (Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2004, n. 20597).

Così, il criterio decisivo per accertare se sussista o meno la responsabilità è individuato nell'esistenza di uno "stretto collegamento funzionale" tra il gioco e l'evento lesivo e non tanto nella volontarietà del fallo o della violazione della regola del gioco (Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2018, n. 11270).

Tale relazione viene a mancare se l'atto è posto in essere allo scopo di provocare lesioni, anche se la condotta in sé non integra una violazione delle regole del gioco, in quanto non rientra nelle caratteristiche dello stesso, che un partecipante dolosamente provochi lesioni ad un altro giocatore.

Inoltre, il collegamento funzionale tra il gioco e l'evento lesivo risulta interrotto laddove l'atleta, pur non volendo provocare lesioni, faccia, tuttavia, ricorso ad una violenza, non compatibile, perché sproporzionata, con le caratteristiche proprie del gioco e del contesto in cui si svolge oltrepassando così il “rischio consentito”.

Ciò si verifica, ad esempio, nel caso di una gara amatoriale a carattere puramente ludico, in cui non è previsto un particolare impeto agonistico sicchè il livello di accettazione preventiva del “rischio” alla incolumità fisica dei partecipanti è limitato esclusivamente a pregiudizi di scarso rilievo.

Da quanto precede emerge chiaramente come il solo rispetto delle regole tecniche previste per lo svolgimento della competizione sportiva non è sufficiente ad escludere la responsabilità dell'atleta in quanto, per l'ordinamento statale, la regola sportiva ha solo un mero valore complementare e sussidiario rispetto alle legge ordinaria anche se, una condotta conforme alle regole tecniche potrebbe far presumerne la liceità in assenza di elementi contrari.

In questa ipotesi, quindi, l'autore della condotta dannosa potrebbe, comunque, essere ritenuto civilmente responsabile a titolo di colpa, per l'accertamento della quale, occorre valutare il comportamento dell'agente in relazione alle caratteristiche proprie del gioco e del contesto nel quale si svolge, che finiscono con il rappresentare gli unici parametri di riferimento (Cass. civ., sez. III, 8 agosto 2002, n. 12012; Cass. pen., sez. V, 21 febbraio 2000, n. 1951).

In definitiva, il criterio del “nesso funzionale” e del “rischio consentito” costituiscono i parametri per stabilire quale sia il punto di equilibrio tra il diritto allo svolgimento dell'attività sportiva e l'esigenza di riparare i danni cagionati durante lo svolgimento della stessa.

Risarcimento del danno

Nel caso di accertata responsabilità civile, l'atleta è tenuto a risarcire i danni cagionati all'avversario durante la competizione sportiva, sia di natura patrimoniale che non.

La funzione riparatoria riconosciuta alla responsabilità extra-contrattuale impone al danneggiante di eliminare tutte le conseguenze dell'evento lesivo e di riportare il danneggiato nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se non si fosse verificato l'illecito.

Aspetti processuali

Il danneggiato, con l'atto introduttivo del giudizio, dovrà allegare, e chiedere di provare a mezzo di testimoni o documenti, i fatti posti a fondamento della richiesta risarcitoria e, pertanto, il “tipo di attività sportiva”, le “regole tecniche”, le “modalità” della condotta dannosa, il “contesto”, le “caratteristiche” ed il “rilievo” della competizione, la “qualità” degli atleti, la “fase” di gioco in cui la condotta è stata posta in essere nonché i “danni” che ne sono conseguiti in via diretta ed immediata.

Ai fini della quantificazione dei “danni non patrimoniali”, sarà indispensabile avvalersi dell'ausilio di un medico-legale che accerti l'incidenza delle lesioni sugli aspetti anatomo-funzionali, dinamico-relazionali e sofferenziali del danneggiato.

Casistica

Criterio del “nesso funzionale”

Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2018, n. 11270

In tema di risarcimento danni per la responsabilità conseguente ad un infortunio sportivo, qualora siano derivate lesioni personali ad un giocatore a seguito del comportamento di un altro partecipante alla gara, per stabilire quando la condotta comporti responsabilità civile bisogna valutare il collegamento funzionale tra gioco e danno: se l'atto viene compiuto allo scopo di ledere, oppure con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco, non c'è questo collegamento e, quindi, sussiste l'obbligo di risarcimento. Pertanto si è responsabili per gli atti compiuti allo specifico scopo di fare male, anche se gli stessi non integrino una violazione delle regole dell'attività svolta.

Cass. civ., sez. III, 8 agosto 2002, n. 12012

Il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha provocato il danno sia esente da responsabilità civile sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, collegamento che va escluso se l'atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, ovvero con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco, con la conseguenza che sussiste in ogni caso la responsabilità dell'agente in ipotesi di atti compiuti allo specifico scopo di ledere; la responsabilità non sussiste invece se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell'attività, e non sussiste neppure se, pur in presenza di violazione delle regole proprie dell'attività sportiva specificamente svolta, l'atto sia a questa funzionalmente connesso. In entrambi i casi, tuttavia il nesso funzionale con l'attività sportiva non è idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte che venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l'attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano

Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2004, n. 20597

In materia di risarcimento del danno conseguente a un infortunio sportivo, poiché la lesione dell'integrità fisica del giocatore ad opera di altro partecipante costituisce un'eventualità contemplata, va ritenuto che la responsabilità è esclusa se, pur in presenza di violazione della regola propria dell'attività sportiva specificamente svolta, l'atto sia a questa funzionalmente connesso; il nesso funzionale è escluso dall'impiego di un grado di violenza o di irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l'attività si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano.

Non operatività della “scriminante sportiva” per assenza del “nesso funzionale”

Cass. pen., sez. V, 7 febbraio 2008, n. 10734

Cass. pen., sez. V, 13 febbraio 2009, n.17923

Cass. pen., sez. IV, 28 aprile 2010, n. 20595

Cass. pen., sez. V, 14 marzo 2011, n. 10138

Cass. pen., sez. V, 16 novembre 2011, n. 42114

Non opera la scriminante sportiva se la gara risulta essere soltanto l'occasione per il compimento dell'azione violenta nei confronti dell'antagonista.

Non operatività della “scriminante sportiva” per travalicamento del “rischio consentito”

Trib. Roma, 4 aprile 1996

È colposa la condotta dell'atleta che durante un'esibizione-incontro di scherma cagiona lesioni fisiche all'avversario imprimendo all'arma una forza di penetrazione anomala rispetto quella consentita dal carattere di mera esibizione della manifestazione

Cass. pen., sez. V, 13 febbraio 2009, n. 17923

In tema di fatti lesivi correlati ad attività sportive di tipo agonistico, implicanti la possibilità di legittimo impiego della forza fisica anche nei confronti dell'avversario, può sussistere responsabilità a titolo di colpa se la condotta violenta non è compatibile con il contesto agonistico di riferimento.

Cass. pen., sez. IV, 20 giugno 2001, n. 24942

In tema di lesioni cagionate nel contesto di un'attività sportiva, allorquando venga posta a repentaglio coscientemente l'attività del giocatore, che legittimamente si attende dall'avversario un comportamento agonistico anche rude, ma non esorbitante dal dovere di lealtà fino a trasmodare nel disprezzo per l'altrui integrità fisica, si verifica il superamento del cosiddetto rischio consentito, con il conseguente profilarsi della responsabilità per dolo o colpa.

Elemento psicologico

Cass. pen., sez. V, 20 gennaio 2005, n. 19473

Determinante è l'analisi dell'elemento psicologico dell'agente il cui comportamento può essere la colposa ed involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario approfittando della circostanza del gioco.

Il limite del rischio consentito

Cass. pen., sez. IV, 25 novembre 2015 n. 9559

Il limite del rischio consentito non coincide con il rigoroso rispetto delle regole del gioco, essendo piuttosto connesso all'esercizio dell'attività sportiva e al normale comportamento dei contendenti nel suo svolgimento. Il limite del rischio consentito ha tra l'altro carattere relativo, variando in relazione al carattere agonistico o dilettantistico dell'attività sportiva, alla natura necessariamente o eventualmente violenta dell'attività, alla natura di allenamento, o di gara amichevole piuttosto che competitiva.

Sull'assenza di nesso causale tra condotta ed evento di danno

Cass. civ., 28 ottobre 2009, n. 22811

Il giocatore che, praticando il gioco del calcio, provochi la caduta di un avversario attraverso una azione che, pur non conforme al regolamento, possa ritenersi normale nello svolgimento del gioco stesso, non può essere chiamato a rispondere, per difetto di nesso di causalità, dei danni patiti dall'avversario nel cadere (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la sussistenza di un valido nesso causale tra un fallo di gioco ritenuto “normale” e la frattura della mandibola, patita da uno dei giocatori nel cadere in terra.

Sui limiti del c.d. “rischio consentito”

Cass. civ., sez. V, 28 marzo 2017, n. 33275

Cass. pen., sez. V, 13 marzo 2017, n. 11991

Cass. pen., sez. IV, 26 novembre 2015, n.9559

Cass. pen., sez. V, 21 settembre 2005, n. 45210

Cass. pen., sez. V, 20 gennaio 2005, n. 19473

Cass. pen., sez. V, 02 giugno 2000, n. 8910

La violazione delle regole tecniche del gioco praticato va valutata, in concreto, con riferimento all'elemento psicologico dell'agente, il cui comportamento può essere - pur nel travalicamento di quelle regole - colposo ossia involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario, approfittando delle circostanze del gioco. Se il contesto sportivo, invece, come nel caso di specie, rappresenta soltanto l'occasione dell'azione violenta ricorre l'ipotesi di lesioni volontarie punibili.

Scriminate sportiva

Cass. civ., sez. III, 27 ottobre 2005, n. 20908

Cass. civ., sez. III, 20 febbraio 1997, n. 1564

L'attività agonistica implica l'accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano. Ne consegue che i danni da essi eventualmente sofferti rientranti nell'alea normale ricadono sugli stessi.

Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 2009, n. 3528

Ora, è certo che l'atleta impegnato in una manifestazione agonistica accetta di esporsi a quegli incidenti che ne rendono prevedibile la verificazione, perchè a produrli vi concorrono gli inevitabili errori del gesto sportivo proprio o degli altri atleti impegnati nella gara.

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