Giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. ed accertamento del nesso causale secondo la regola del “più probabile che non”
24 Luglio 2019
Massima
Nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. la Corte d'appello competente per valore, cui la Cassazione penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, deve applicare le regole, processuali e probatorie, proprie del processo civile, e conseguentemente adottare, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del più probabile che non e non quello penalistico dell'alto grado di probabilità logica e di credenza razionale, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio. Il caso
Un medico imputato per una caso di malasanità era stato assolto in primo grado per non aver commesso il fatto; la parte civile aveva appellato tale sentenza, e successivamente, i giudici di merito, avevano condannato il sanitario al pagamento di un risarcimento del danno in favore dell'appellante, da liquidarsi in separata sede. La sentenza è stata cassata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, ai sensi dell'art. 622 c.p.p. La Corte territoriale, in diversa composizione, aveva confermato l'insussistenza della responsabilità del medico, per il reato di omicidio colposo. Pertanto, la sentenza veniva nuovamente impugnata dalla parte civile con ricorso per Cassazione, evidenziando – tra l'altro – che dopo la cassazione della sentenza penale di appello che ha riformato quella di primo grado, quest'ultima sentenza non rivive, per cui la corte di merito avrebbe dovuto compiere nuovamente l'accertamento della sussistenza del nesso di causa, e quindi della responsabilità civile dell'imputato. I Giudici di legittimità accolgono il ricorso osservando che la sentenza di rinvio della Cassazione, «al di là della restituzione dell'azione civile all'organo giudiziario a cui essa naturaliter appartiene, è limitata a quella di operare un trasferimento della competenza funzionale dal giudice penale a quello civile, essendo propriamente rimessa in discussione la res iudicum deducta, nella specie costituita da una situazione soggettiva ed oggettiva del tutto autonoma (il fatto illecito) rispetto a quella alla base della doverosa comminatoria della sanzione penale (il reato), attesa la limitata condivisione, tra l'interesse civilistico e quello penalistico, del solo punto in comune del “fatto” e non della sua qualificazione, quale presupposto del diritto al risarcimento, da un lato e del suo punite, dall'altro». In ragione di ciò, il giudice del rinvio nella sede civile non è vincolato, a quanto accertato dal giudice penale, avendo piena libertà “nella ricostruzione dei fatti e nella loro valutazione”, con conseguente applicazione del canone civilistico del “più probabile che non” nella valutazione del nesso causale, al posto di quello tipico del processo penale dell'alta probabilità logica. Sicché, il giudizio di rinvio agli effetti civili ex art. 622 c.p.p., non può essere considerato una prosecuzione del processo penale. Rimesse le parti davanti al giudice civile, quest'ultimo, dovrà essere libero nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti, atteso che non è concepibile un vincolo a suo carico simile, a quello che segue all'enunciazione di principio di diritto della Cassazione; l'istruzione probatoria compiuta in sede penale può invece essere messa a fondamento della decisione, come prova atipica. La questione
La questione in esame è la seguente: nel giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. quali sono i criteri di accertamento nel nesso causale? Le soluzioni giuridiche
L'art. 622 c.p.p. non rappresenta un elemento di novità nel panorama storico-legislativo. In effetti, assente nel codice del 1865 (che all'art. 675 prevedeva nel suddetto caso un rinvio al giudice penale), la previsione compare già nel codice Finocchiaro/Aprile del 1913, che, all'art. 525, così recitava: «se la Corte di cassazione annulla solamente le disposizioni o i capi della sentenza che concernono l'azione civile, proposta a norma dell'art. 7 (relativo appunto all'azione civile esercitata nel processo penale), rinvia la causa al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l'annullamento abbia per oggetto una sentenza della corte di assise»; mentre, nel codice del 1930, la previsione, che non ha formato oggetto di specifica considerazione nella relazione, è stata mantenuta nell'art. 541, che così recitava: «la corte di cassazione, se annulla solamente le disposizioni o i capi della sentenza che riguardano l'azione civile proposta a norma dell'art. 23 (relativo all'esercizio dell'azione civile nel processo penale), rinvia la causa quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello anche se l'annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile». La norma giuridica attualmente vigente, a sua volta, è del tutto corrispondente, anche formalmente, a quella che figurava nel Progetto preliminare del 1978 (sotto l'art. 586), e nella Relazione al Progetto preliminare del 1988, osservandosi (ripetendo quanto già contenuto della relazione al precedente progetto del 1978) che l'art. 622 detta disposizioni analoghe a quelle dell'attuale art. 541, aggiungendo il caso di accoglimento del ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell'imputato: «quando la Corte di cassazione annulla la sentenza per i soli effetti civili, l'eventuale giudizio di rinvio – fermi restando gli effetti penali – si svolgerà davanti al giudice civile competente in grado di appello, anche se l'annullamento riguarda una sentenza inappellabile». Orbene, una volta compiuto questo breve excursus storico-normativo, si osserva che con la pronuncia in commento, la Corte di cassazione si pone in netto contrasto con l'orientamento di legittimità prevalente, rectius granitico, a mente del quale in caso di annullamento con rinvio ai soli effetti civili per intervenuta prescrizione del reato della sentenza di appello, il giudice civile del rinvio è tenuto a valutare la sussistenza della responsabilità dell'imputato secondo i parametri del diritto penale e non facendo applicazione delle regole proprie del giudizio civile (Cass. pen., n. 5901/2019; Cass. pen., n. 412/2019; Cass. pen., n. 34878/2017). Al riguardo si osserva che in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva. Occorre, peraltro, considerare che le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno chiarito che il disposto di cui all'art. 129 c.p.p., laddove impone di dichiarare la causa estintiva quando non risulti evidente che il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha commesso, ecc., deve coordinarsi con la presenza della parte civile e di una condanna in primo grado che impone ai sensi dell'art. 578 c.p.p. di pronunciarsi sulla azione civile; e che in tali ipotesi, la valutazione della regiudicanda non deve avvenire secondo i canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di proscioglimento quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi. La pronuncia ex art. 578 c.p.p. impone, cioè, pur in presenza della causa estintiva, un esame approfondito di tutto il compendio probatorio, ai fini della responsabilità civile (Cass. pen., n. 35490/2009). L'assunto patrocinato dalla Cassazione è tale per cui il giudizio attivato ai sensi dell'art. 622 c.p.p. costituisce uno sviluppo della sentenza di annullamento, nei limiti della quale il giudice è chiamato a compiere il riesame della controversia (Cass. pen., n. 43896/2018). Insomma, un rinvio prosecutorio, deputato al completamento dell'opera avviata dalla Cassazione penale con la pronuncia rescindente, nel cui ossequioso rispetto, l'organo giurisdizionale competente per il giudizio rescissorio sarebbe, per ciò solo, tenuto ad operare. Secondo, l'orientamento sconfessato dalla pronuncia in commento la regola di giudizio sarà quella propria del giudizio penale; quella cioè della ragionevole, umana certezza dell'esito salvifico delle condotte omesse, alla stregua delle informazioni di sfondo in ordine all'ordinario andamento della patologia in questione e delle peculiarità del caso concreto, come ripetutamente enunciato dalle Sezioni della Corte di cassazione (Cass. pen., n. 30328/2002; Cass. pen., n. 52511/2016). Infatti, l'azione civile che viene esercitata nel processo penale è quella per il risarcimento del danno patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell'art. 185 c.p. e art. 74 c.p.p.; con la conseguenza che nella sede civile, coinvolta per effetto della presente pronunzia, la natura della domanda non muta. Si dovrà cioè valutare incidentalmente l'esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive, alla luce delle norme che regolano la responsabilità penale; prima tra tutte quella della causalità omissiva alla stregua dei principi espressi dalla giurisprudenza sopra richiamata (Cass. pen., n. 11193/2015). Il giudice di rinvio, ancorché sia quello civile in ragione dell'intervenuta prescrizione del reato, sarà tenuto a rivalutare la sussistenza o meno della responsabilità degli odierni ricorrenti secondo i parametri del diritto penale e non facendo applicazione delle regole proprie del diritto civile (Cass. civ., n. 45786/2016). Ciò in quanto, poiché l'azione civile è esercitata nel processo penale, il suo buon esito presuppone l'accertamento della sussistenza del reato. A tal fine, detto giudice potrà, ove lo ritenga opportuno, esercitare i poteri officiosi di cui al combinato disposto degli artt. 257 e 359 c.p.c. In altri termini, le regole di giudizio che il giudice civile dovrà applicare sono quelle del diritto penale, essendo in questione, ex art. 185 c.p., il danno da reato e non mutando la natura risarcitoria della domanda proposta, ai sensi dell'art. 74 c.p.p., innanzi al giudice penale (Cass. pen., n. 42995/2015). Al contrario, con la odierna pronuncia, i giudici della Suprema Corte hanno rammentato che spetta alle sezioni civili della Corte il compito di fornite la corretta interpretazione delle disposizioni che regolano gli effetti nei giudizi civili delle decisioni adottate in altre sedi, compresa quella penale. Si deve conseguentemente dubitare che la Corte di cassazione penale abbia il potere di stabilire, in sede di annullamento con rinvio al giudice civile, quali siano le regole e le forme da applicare in tale giudizio, poiché tale compito deve ritenersi demandato integralmente al giudice civile di appello, ed alla stessa corte di cassazione civile investita dell'eventuale impugnazione della decisione emessa in sede di rinvio ex art. 622 c.p.p. In particolare, sul piano processuale, ha condiviso l'orientamento ampiamente prevalente della giurisprudenza civile di legittimità, ritenendo applicabile al giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. la disciplina di cui agli artt. 392 e ss. c.p.c., esclude che in tale giudizio le parti possano svolgere nuova attività assertiva o probatoria in ragione della sua natura cd. "chiusa". Inoltre, il Collegio ha precisato che, essendo intervenuto un giudicato agli effetti penali, ed essendo venuta la ragione di attrazione dell'illecito civile nell'ambito delle regole della responsabilità penale, la domanda risarcitoria va esaminata secondo le regole dell'illecito aquiliano, le cui peculiarità sono la conseguenza della funzione attuale della responsabilità civile, diretta ad individuare il soggetto su cui far gravare le conseguenze risarcitorie del danno, verificatosi nella sfera giuridica della vittima. Oltre a ciò, la Cassazione ha precisato che il giudizio di rinvio, costituisce solo formalmente una prosecuzione di quello penale, vista l'impossibilità di giungere ad alcuna giustificazione a fondamento delle deroghe alle modalità di istruzione e accertamento dell'azione civile. Pertanto, secondo quanto stabilito dall'art. 622 c.p.p., si è di fronte ad una traslatio iudicii dinanzi al giudice civile, per cui rimane del tutto estranea al giudizio di rinvio, la possibilità di applicazione di criteri e regole probatorie, processuali e sostanziali, tipiche della fase penale. Il giudizio di rinvio presenta un'autonomia strutturale e funzionale rispetto al processo penale conclusosi, e ciò permette di considerare legittima, non solo la formulazione di nuove conclusioni, scaturite in seguito alla sentenza della cassazione penale, ma anche l'emendatio della domanda, per una prospettazione degli elementi costitutivi dell'illecito civile, nel rispetto delle preclusioni, ex art. 183 c.p.c. Deve pertanto, ritenersi ammessa in sede di giudizio dinanzi alla Corte d'appello in unico grado, una eventuale diversa valutazione dell'elemento soggettivo (colpa anziché dolo) e di una eventuale, diversa qualificazione del titolo di responsabilità ascritta al danneggiante, ove i fatti costitutivi posti a fondamento dell'atto di costituzione di parte civile siano gli stessi che il giudice di appello è chiamato ad esaminare.
Osservazioni
I Giudici di legittimità, attraverso una minuziosa ricostruzione della valenza della sentenza resa ex art. 622 c.p.p., hanno superato il vincolo gnoseologico fra il pregresso accertamento penalistico e l'instaurando procedimento civile, escludendo categoricamente che quest'ultima procedura giurisdizionale debba subire l'efficacia riflessa del sindacato compiuto nella fase penale rescindente, secondo regole e forme diverse da quelle proprie. Si tratta di una soluzione esegetica che conferma la sistematica attuale dei rapporti fra le due giurisdizioni, penale e civile, improntati al principio di autonomia e separazione dei rispettivi giudizi. Evidente, invero, il mutamento di prospettiva rispetto al sistema processuale previgente. Quest'ultimo, sul duplice presupposto della unità della funzione giurisdizionale e della netta preminenza assiologica del giudizio penale su quello civile, sanciva normativamente il principio di pregiudizialità necessaria dell'accertamento penale (art. 3 c.p.p. 1930) con sospensione obbligatoria del processo civile (artt. 24 ss. c.p.p. 1930), onde assicurarne una risoluzione sempre coerente con l'esito cognitivo penalistico. L'attuale assetto ordinamentale, per contro, è orientato proprio ad assicurare la reciproca indipendenza delle azioni, penale e civile, e ad evitare, quindi, pregiudizialità di sorta tra le due vicende. L'evidente impostazione sistemica di autonomia tra il giudizio penale e il giudizio civile con conseguente dismissione del concetto di unità di giurisdizione e della prevalenza della giurisdizione penale sulla giurisdizione civile, comporta l'abbandono della supremazia dell'accertamento penale sul fatto-reato rispetto al diritto al risarcimento. Cosicché, il giudice civile ben può operare in piena autonomia la propria cognizione della fattispecie in ordine alla verifica della responsabilità aquiliana dell'imputato/convenuto, senza essere vincolato alle soluzioni e alla qualificazioni del giudice penale. Da questo specifico angolo visuale, infatti, la stessa Corte costituzionale ha avuto modo di sottolineare che, qualora l'azione civile sia stata esercitata in seno al processo penale e l'organo giudicante abbia accertato la responsabilità dell'imputato, «egli fonderà gli accertamenti da compiere ai fini dell'azione civile su quelli compiuti in sede penale, ma quando, per il differente regime probatorio, dovesse pervenire a risultati diversi, se ne discosterà, senza che da ciò derivi alcun contrasto logico che possa rendere perplesso il contenuto della decisione» (Corte cost., n. 40/1974). Un messaggio forte e chiaro, quest'ultimo, in favore della insussistenza di vincoli cognitivi assoluti fra l'accertamento sostanziale penalistico e quello civile da esso dipendente, proprio laddove, nell'intreccio tra le due vicende giurisdizionali, vengano in rilievo questioni di natura squisitamente probatoria. Peraltro, plurimi sono gli argomenti a sostegno del percorso motivazionale seguito dalla odierna pronuncia. In primo luogo, viene in rilievo un dato di carattere formale che, di per sé, appare idoneo a smentire la suddetta ricostruzione del giudizio civile di rinvio quale supplemento decisorio della vicenda penale. Si tratta del peculiare meccanismo di attivazione della fase civile rescissoria che, nel caso in esame, postula la riassunzione della causa, ad opera della parte interessata, entro tre mesi dalla pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione. Lo snodo procedimentale de quo rende, infatti, inoperante il principio di immanenza della parte civile, in forza del quale il titolare del diritto al risarcimento può, invece, far valere la propria pretesa risarcitoria, «in ogni stato e grado del processo», senza dover rinnovare di volta in volta l'atto di costituzione in giudizio. In diversa prospettiva, dovendo essere instaurata in virtù di un precipuo atto di citazione da notificare alla controparte a cura dell'interessato, la fase di rinvio a seguito di annullamento ai sensi dell'art. 622 c.p.p. costituisce evidentemente un processo ex novo, più che uno sviluppo della fase processuale rescindente. Accentuandosene, per ciò solo, l'autonomia strutturale e funzionale dalla vicenda penalistica principale. In secondo luogo, poi, occorre evidenziare che, diversamente da quanto accade nel caso di annullamento con rinvio in sede penale, ove, a norma degli artt. 627, comma 3, c.p.p. e 173, comma 2, disp. att. c.p.p., il giudice ad quem è tenuto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Cassazione in sede rescindente, nella specifica ipotesi di annullamento della sentenza in forza dell'art. 622 c.p.p. non risulta normativamente previsto alcun vincolo decisorio per l'organo civile di rinvio. Né, a colmare un simile vuoto prescrittivo potrebbe validamente soccorrere la previsione contenuta nell'art. 384, comma 2, c.p.c., il quale, con particolare riferimento ai limiti cognitivi a carico dell'omologo giudizio rescissorio a seguito di annullamento in sede processual-civilistica, stabilisce che il giudice di rinvio «deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte». Ora, è pur vero che le Sezioni Unite civili hanno avuto modo di affermare che, in sede di rinvio, «è precluso qualsiasi riesame dei presupposti di applicabilità del principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, non solo in ordine agli errores in iudicando relativi al diritto sostanziale, ma anche per le violazioni di norme processuali, tutte le volte in cui il principio sia stato enunciato rispetto a un fatto con valenza processuale» (Cass. pen., n. 15602/2009). Cosicché, si potrebbe essere indotti a ritenere che pure rispetto alle ipotesi di rinvio “inter-ordinamentale” ai sensi dell'art. 622 c.p.p., eventuali statuizioni emesse dalla Cassazione in ordine ad errores in procedendo compiuti in sede penale, cui si ascrivono altresì quelli in tema di utilizzabilità della prova, siano dotate di un'analoga valenza preclusiva rispetto alla cognizione del giudice civile della fase rescissoria. Tutto ciò non vale, però, ad eludere il fondamentale dato scriminante della fattispecie in esame. Nel caso specifico del giudizio di rinvio instauratosi a seguito di annullamento della sentenza penale ai soli effetti civili, si è al cospetto di due decisioni adottate con riti diversi e per questo accertate con limiti completamente difformi in ordine alla prova. Ed un simile divario normativo assume peculiare rilievo nel delineare i rapporti di interferenza fra giudizio penale rescindente e procedura civile rescissoria. Attesa, infatti, la diversa regolamentazione che la materia probatoria assume nel contesto civile – ove, per quanto qui più interessa, manca notoriamente una previsione legislativa analoga all'art. 191 c.p.p.– l'effetto vincolante della pronuncia della Cassazione finirebbe, in simili ipotesi, per operare addirittura in funzione “creativa” della stessa disposizione normativa in astratto applicabile nella fase civile rescissoria. Con evidente e indebito superamento dei limiti canonici della decisione dell'organo rescindente, il cui oggetto non è (e non può essere) la norma giuridica astratta, bensì soltanto quella che, in virtù di quest'ultima, si sia poi concretata a regolare la fattispecie controversa. A ciò si aggiunga, infine, che, nell'ipotesi in discorso, il principio di diritto eventualmente enucleato dalla Corte di legittimità dovrebbe, ratione materiae, riguardare, comunque, soltanto l'obbligo della pronuncia sull'azione civile o il criterio sotteso alla scelta della competenza del giudice civile, e non già profili, quale quello relativo all'inutilizzabilità di una prova a carico dell'imputato/convenuto, che, involgendo anzitutto il tema decisorio della responsabilità penale, finiscono, a stretto rigore, per porre in discussione la stessa applicabilità, in ipotesi del genere, dell'art. 622 c.p.p. Del resto, la giurisprudenza civile ha, di recente, escluso la configurabilità, rispetto all'ipotesi di cui all'art. 622 c.p.p., di un vincolo gnoseologico a carico del giudice civile ad quem sulla falsariga del principio di diritto art. 384, comma 2 c.p.c. (Cass. civ., n. 9358/2017). Inoltre, costituisce, infatti, asserto condiviso da buona parte della giurisprudenza quello secondo cui l'intangibilità «degli effetti penali della sentenza» cui allude il citato art. 622 c.p.p., postula che tale disposizione normativa possa trovare applicazione solo qualora risulti ormai totalmente esaurito il rapporto penalistico, essendo stato già effettuato un positivo e definitivo accertamento di merito in ordine alla quaestio criminis (Cass. civ., n. 13844/2017; Cass. civ., n. 10097/2015). Una condizione, quest'ultima, che, però, non appare propriamente rispettata laddove il principio di diritto affermato dalla Cassazione in termini vincolanti per il giudice civile di rinvio costituisca – come affermato dallo stesso organo rescindente – la risultante di un vizio di inutilizzabilità della prova che inficia la motivazione relativa all'accertamento della responsabilità dell'imputata ed alla qualificazione giuridica dei fatti contestati. L'abbandono dell'estensione al giudizio civile di rinvio, delle regole di prova e decisorie del processo penale, discende dall'affermazione della perdurante e reciproca autonomia dei due contesti processuali agli effetti dei rispettivi statuti probatori. In quest'ultimo contesto interpretativo, invero, oltre a reputare operativi nella fase rescissoria ai sensi dell'art. 622 c.p.p., i canoni di prova, valutativi e decisori propri del giudizio civile (Cass. civ., n. 17457/2007; Cass. civ., n. 3751/2005), si è, persino, affermato, senza mezzi termini, che a carico di tale fase non sia neppure ipotizzabile [alcun] vincolo paragonabile a quello derivante dall'enunciazione del principio di diritto ex art. 384, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., n. 9358/2017). E non è superfluo sottolineare che, alla resa dei conti, siano queste le soluzioni pretorie destinate a contare di più, per l'ovvia ragione che, poi, la pronuncia emessa in sede di rinvio potrà, se del caso, essere impugnata proprio dinanzi all'organo di vertice della giurisprudenza civile. Appare di tutta evidenza, dunque, che, mai come in questo caso, la garanzia di ragionevolezza del sistema non possa essere affidata al pendolo poco rassicurante delle oscillazioni giurisprudenziali. A tal fine, piuttosto, diviene risolutiva solamente una pregiudiziale scelta di coerenza da parte del legislatore, volta a coordinare, expressis verbis, le due discipline processuali che interferiscono nella peculiare ipotesi di annullamento con rinvio prevista dall'art. 622 c.p.p. Diversamente, nel passaggio dalla fase penale rescindente a quella civile rescissoria, continuerà a pesare inesorabile la circostanza che ogni procedimento ha un proprio sistema probatorio diversificato, in quanto non coincidono gli interessi in gioco e i fini perseguiti; i tipi di fattispecie sostanziale da accertare; i poteri; i doveri, i diritti delle parti e degli organi inquirenti.
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