La sospensione e la risoluzione di diritto dei rapporti di lavoro nella liquidazione giudiziale

Francesco Geria
04 Settembre 2019

Che diritto fallimentare e diritto del lavoro - in qualsiasi delle accezioni li si voglia considerare - non siano mai riusciti a “dialogare” tra loro è cosa risaputa. Il Legislatore, con l'introduzione del Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (G.U. del 14 febbraio 2019, n, 38), ha cercato, pertanto, di colmare questa lacuna.
Premessa

Che diritto fallimentare e diritto del lavoro - in qualsiasi delle accezioni li si voglia considerare - non siano mai riusciti a “dialogare” tra loro è cosa risaputa.

Il Legislatore, con l'introduzione del Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (G.U. del 14 febbraio 2019, n, 38), ha cercato, pertanto, di colmare questa lacuna.

È prematuro, oggi, affermare se tale obiettivo sia stato raggiunto, poiché il corposo restyling della normativa delle procedure concorsuale entrerà integralmente a regime solo con il 14 agosto 2020 (stante i 18 mesi di parziale inoperosità della norma previsti dalla stessa legge).

Ma, seppur nell'attesa della sua completa applicazione, il D.Lgs 14/2019 ha previsto, in particolare nel caso della liquidazione giudiziale (così sarà definito l'attuale fallimento delle imprese), una puntuale – quanto perfettibile – disciplina a regolamentazione dei rapporti di lavoro dipendente in atto all'apertura della procedura stessa.

Vogliamo qui analizzare quanto previsto in merito alle nuove indicazioni concernenti la sospensione dei contratti di lavoro e alla neo introdotta risoluzione di diritto di cui possono essere destinatari.

La sorte dei rapporti di lavoro oggi

Prima di addentrarci nell'analisi del nuovo dettato normativo attinente i rapporti di lavoro subordinato all'atto dell'apertura di una liquidazione giudiziale è bene soffermarci sull'attuale disciplina che rimarrà in vigore – e quindi deve essere ancora considerata come punto di riferimento – sino alla completa applicazione del D.Lgs n. 14/2019.

In primo luogo è bene comprendere quale sia la sorte che vede ancor oggi coinvolti i lavoratori subordinati nel caso in cui siano coinvolti in una procedura di fallimento.

L'art. 2119 c.c. vigente

L'attuale e vigente art. 2119 del codice civile, in un generale contesto di legittima risoluzione per giusta causa dai rapporti di lavoro, dichiara la non giustificabilità del fallimento quale causa di scioglimento del contratto di lavoro.

Tale disposizione è stata sempre accettata e confermata sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza: la sola dichiarazione del fallimento a cura dei tribunali competenti non è sufficiente a motivare un eventuale licenziamento dei lavoratori. La curatela, infatti, per non vedersi eccepire eventuali illegittimità, dovrà dimostrare la non più possibile prosecuzione del rapporto di lavoro stante la grave situazione di dissesto in cui versa il datore e quindi adire ad un giustificato motivo oggettivo di natura, ad esempio, economico.

Art. 2119 - Recesso per giusta causa.

Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente.

Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda.

Premesso quindi che il fallimento di per sé stesso non può essere utilizzato quale mera causale di risoluzione dei contratti di lavoro, in caso di fallimento, però il rapporto non è detto debba subire la sua immediata estinzione.

Esiste infatti, ad oggi, la possibilità che nelle more della presa in carico e contezza della situazione da parte del curatore, gli stessi rapporti di lavoro rimangano per un certo lasso di tempo (più o meno breve) ancora attivi o per meglio dire, sospesi.

Art. 72 l.fall. e contratti pendenti

Ribadita l'incomunicabilità tra diritto del lavoro e diritto fallimentare, la giurisprudenza ha assunto un ruolo succedaneo quanto dirimente nella questione.

Infatti, più volte la Corte di Cassazione in numerose sentenze ha dichiarato l'art. 72 della Legge Fallimentare pienamente estendibile ai rapporti di lavoro permettendo così al curatore, in caso di fallimento, una facoltà “sospensiva” dei contratti in attesa di assumere una successiva posizione.

Art. 72 Legge Fallimentare – R.D. 16 marzo 1942, n. 267

Se un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento, l'esecuzione del contratto, fatte salve le diverse disposizioni della presente Sezione, rimane sospesa fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto.

Alla luce di tale dettato normativo, pertanto, il curatore ha la facoltà di subentrare nei rapporti di lavoro, senza alcun potere di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali, e tenendo, ovviamente, in debita considerazione le peculiarità insite in particolari contratti come l'apprendistato, i contratti a tempro determinato, il lavoro part time e quello intermittente.

Per effetto dell'art. 72 L.F., pertanto, la curatela al momento della sua instaurazione quale organo della procedura – e in attesa di definire quale soluzione adottare - potrà invocare la sospensione dei rapporti di lavoro senza essere obbligata a dover remunerare i lavoratori dato il venir meno di quella sinallagmaticità (non vi è prestazione e quindi nemmeno remunerazione e contribuzione) annoverabile tra i principi fondamentali del rapporto di lavoro subordinato.

Una volta valutata al meglio al convenienza o meno alla prosecuzione dei contratti di lavoro, il curatore fallimentare, con la preventiva autorizzazione del comitato dei creditori, potrà decidere di subentrare e quindi assumersi le obbligazioni scaturenti dal contratto oppure optare per la loro definitiva risoluzione.

La Sentenza del 23 marzo 2018, n. 7308 della Cassazione individuava, infatti, che in “detto tempo (sospensione nda) il curatore esercita una facoltà legittima, volta a verificare la possibilità e la convenienza alla prosecuzione dei rapporti di lavoro, in vista della conservazione della potenzialità produttiva dell'azienda, anche ai fini di una strategia liquidatoria; lo stato di incertezza in cui versa il lavoratore è bilanciato dalla possibilità a questi riconosciuta dalla L. F., articolo 72, di mettere in mora il curatore, facendogli dal giudice delegato un termine entro il quale deve determinarsi, quale il contratto si intende sciolto; non può escludersi, infine, tempo sia oltremodo prolungato per inerzia o negligenza della comunque per un uso distorto o colpevole della facoltà riconosciuta, essere fatta valere una responsabilità risarcitoria di diritto comune da parte dei danneggiati, ove ne ricorrano i presupposti. Nel caso in cui il curatore deliberi di subentrare nel rapporto di lavoro esso prosegue con l'obbligo di adempimento per entrambe le parti delle prestazioni corrispettive.

Ove, invece, il curatore intenda sciogliersi dal rapporto di lavoro dovrà farlo nel rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi, non essendo in alcun modo sottratto ai vincoli propri dell'ordinamento lavoristico perché la necessità di tutelare gli interessi della procedura fallimentare non esclude l'obbligo del curatore di rispettare le norme in generale previste per la risoluzione dei rapporti di lavoro”.

Come accennato, la Giurisprudenza di legittimità è più volte intervenuta su tale argomento. Tra i molteplici pareri espressi, spicca la Sentenza della Corte di Cassazione Sez. Civile del 14 maggio 2012, n. 7473 in cui è puntualmente specificato che “per effetto della dichiarazione di fallimento in presenza di cessazione di attività aziendale il rapporto di lavoro, seppure essendo formalmente in essere, rimane sospeso fino al licenziamento. E, in difetto del requisito di sinallagmaticità non è quindi configurabile una retribuzione. Non essendovi obbligo retributivo per l'assenza di prestazione lavorativa non è nemmeno configurabile un credito contributivo dell'Inps, essendo peraltro irrilevante l'avvenuta ammissione al passivo del fallimento dei crediti retributivi dei lavoratori”.

Più recentemente la Corte di Cassazione affermava il medesimo orientamento. Con Sentenza del 11 gennaio 2018, n. 522 si affermava come “in caso di fallimento del datore di lavoro, ove non vi sia esercizio provvisorio di impresa, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione, con conseguente venir meno dell'obbligo di corrispondere la retribuzione in difetto dell'esecuzione della prestazione lavorativa, sino a quando il curatore non decida la prosecuzione o lo scioglimento del rapporto ex art. 72 L.F., "ratione temporis" applicabile, nell'esercizio di una facoltà comunque sottoposta al rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi; ne deriva che, qualora sia accertata la illegittimità del licenziamento intimato dal curatore, il lavoratore ha diritto all'ammissione al passivo fallimentare per il credito risarcitorio che ne consegue, corrispondente alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quella della reintegra”.

Infine, sempre la Suprema Corte, I Sez. Civile con sentenza del 30 maggio 2018, n. 13693 ha ulteriormente ribadito che “in caso di fallimento del datore di lavoro, salva l'autorizzazione all'esercizio provvisorio, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione, sicché il lavoratore non ha diritto di insinuarsi al passivo per le retribuzioni spettanti nel periodo compreso tra l'apertura del fallimento e la data in cui il curatore abbia effettuato la dichiarazione ex art. 72, comma 2, L.F., in quanto il diritto alla retribuzione non sorge in ragione dell'esistenza e del protrarsi del rapporto di lavoro ma presuppone, in conseguenza della natura sinallagmatica del contratto, la corrispettività delle prestazioni”.

Le modifiche all'art. 2119 del codice civile

La prima e vera importante novità curata dal recente Decreto Legislativo del 12 gennaio 2019, n. 14 (c.d. Codice della Crisi d'Impresa – CCI) risiede nell'aver voluto tentare, finalmente, quel dialogo tanto atteso tra l'ordinamento giuslavoristico e quello fallimentare.

Prima di tutto il Legislatore, con l'intento di coordinare al meglio le previsioni codicistiche in tema di risoluzioni dei rapporti di lavoro subordinato, all'art. 376 del D.Lgs 14/2019 ha apportato significative modifiche all'art. 2119 del c.c. sostituendone il secondo comma con una nuova e più puntuale versione, definendo che “Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa”.

Viene, inoltre, espunto il precedente riferimento al fallimento, e nel secondo periodo dello stesso comma è sancito che “gli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro sono regolati dal codice della crisi e dell'insolvenza”.

Conseguentemente, nell'ambito della liquidazione giudiziale (oggi fallimento nda), punto di riferimento giuridico per i contratti di lavoro sarà quanto sancito al comma 1 dell'art. 189 dello stesso Codice della Crisi d'Impresa secondo il quale “l'apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce motivo di licenziamento”.

Con questa nuova veste, la normativa che opererà in una crisi d'impresa sfociata in liquidazione giudiziale, permetterà di affermare che la mera e semplice apertura della procedura concorsuale non potrà essere invocata come causa di risoluzione dei rapporti di lavoro: né invocando la giusta causa (come affermato oggi dall'art. 2119 c.c. ancora vigente), né tanto meno come giustificato motivo oggettivo.

Per risolvere i contratti di lavoro in un contesto liquidatorio, sarà invece necessario ricercarne le motivazioni in un contesto di dissesto economico e finanziario che ha fatto naufragare l'azienda nella procedura concorsuale della liquidazione giudiziale.

La sospensione dei contratti di lavoro

Ma l'art. 189 del CCI non si ferma solo a definire come la liquidazione giudiziale non possa essere invocata come causa di risoluzione dei contratti di lavoro.

Riprendendo quanto già previsto all'art. 72 della L.F. e mutuando le numerose analisi della giurisprudenza, il secondo periodo dello stesso comma 1 art. 189 afferma che “I rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa restano sospesi fino a quando il curatore, con l'autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”.

Ecco, quindi, definitivamente normata quella lacuna operativa concernente il destino dei contratti in essere con i lavoratori subordinati all'apertura di un fallimento e a suo tempo colmata con l'estensione giurisprudenziale delle previsioni di cui all'art. 72 della L.F. come sopra già argomentato.

Dal momento in cui il nuovo CCI entrerà in vigore (14 agosto 2020), all'atto di apertura di una liquidazione giudiziale, i rapporti di lavoro subordinato alla data della sentenza dichiarativa subiranno una immediata “ibernazione” giuridica irrevocabile sino a quando il curatore – ottenute tutte le preventive autorizzazioni da parte del giudice delegato e dal comitato dei creditori - non deciderà di adottare le uniche due soluzioni possibili: o il subentro, e quindi assumendo oneri e rischi dell'obbligazione contrattuale o, per contro, dichiarando il recesso dal contratto tramite i consueti strumenti legislativi vigenti in tema di licenziamento.

Ma quali i riflessi conseguenti alle scelte del curatore.

Se la curatela – dopo il periodo di “cristallizzazione” degli effetti contrattuali con i lavoratori (e quindi anche qui si assisterà al non riconoscimento di retribuzione e contribuzione) – vorrà avvalersi del subentro, gli effetti giuridici del negozio giuridico riprenderanno vita solo dal momento in cui tale volontà sarà comunicata ai lavoratori.

Con importanti esiti. In primo luogo ai lavoratori non potrà comunque essere riconosciuta alcuna remunerazione o contribuzione per il periodo di sospensione, venendo meno, per tale arco temporale, sia il sostentamento reddituale (al momento sembra anche non percorribile la copertura tramite ammortizzatori sociali) sia la copertura assistenziale a favore delle posizioni pensionistiche.

Con possibile ulteriore rischio di eventuali difficoltà nel poter ricorrere anche alla Assicurazione Sociale per l'Impiego (Naspi) nel caso in cui, causa la sospensione, il lavoratore non riesca a maturare appieno i requisiti necessari.

Il recesso del curatore

Inoltre, il curatore potrà avvalersi della facoltà di recesso e liberarsi definitivamente dai contratti di lavoro a suo tempo sospesi per effetto dell'apertura della liquidazione giudiziale.

E, per gli effetti della giurisprudenza ormai conclamata e sopra già analizzata, tale facoltà costringerà la curatela fallimentare ad osservare il rispetto e l'applicazione di tutti quei requisiti formali, procedurali e sostanziali stabiliti dall'ordinamento giuslavoristico in materia di licenziamenti individuali o individuali plurimi.

Importante qui puntualizzare come i recesso dai rapporti di lavoro in seno alla procedura esercitato dopo il periodo di sospensione abbia un effetto di chiusura degli stessi rapporti con decorrenza ex tunc dalla data di apertura della liquidazione giudiziale.

Un vera e propria efficacia giuridica retroattiva che libererà la procedura da ogni onere pregresso che ne sarebbe potuto scaturire (o che il lavoratore avrebbe potuto vantare) per il periodo di “interdizione temporanea” dei contratti di lavoro.

Ovviamente, però, la norma non dimentica un minimo di tutela del lavoratore. Infatti, l'art. 189 al comma 9 ben prevede e riconosce come in caso di recesso del curatore ai lavoratori sia dovuta l'indennità di mancato preavviso (se a suo tempo in forza con contratto a tempo indeterminato) alla quale sarà riconosciuta, ai fini dell'ammissione nello stato passivo della procedura, il grado privilegiato quale credito anteriore all'apertura della procedura.

Purtroppo, in merito al riconoscimento dell'indennità sostitutiva del preavviso, nulla viene specificato in merito ai lavoratori in forza, alla data di apertura della procedura concorsuale, con contratto di lavoro a tempo determinato. L'analisi prettamente letterale del testo normativo sembrerebbe propendere per la negazione di qualsiasi riconoscimento. A parere di chi scrive, però, è bene far presente che tale tipologia contrattuale possa essere destinataria – come previsto dalla vigente normativa alla quale l'art. 189 non sembrerebbe potersene sottrarre - di una somma risarcitoria pari alle retribuzioni dovute sino alla conclusione del contratto.

Infine, anche se di puro carattere tecnico e pratico, nulla viene previsto in merito agli adempimenti che si dovranno svolgere – e le loro tempistiche – nel momento in cui si venga ad attuare una risoluzione contrattuale con efficacia retroattiva nel tempo (es: comunicazioni obbligatorie, denunce mensili Uniemens etc).

Art. 189, comma 2, D.Lgs 12 gennaio 2019, n. 14

Il recesso del curatore dai rapporti di lavoro subordinato sospesi ai sensi del comma 1 ha effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. Il subentro del curatore nei rapporti di lavoro subordinato sospesi decorre dalla comunicazione dal medesimo effettuata ai lavoratori.

La risoluzione di diritto

Il CCI introduce, al comma 3 dell'art. 189 un elemento di totale novità nell'ordinamento, prevedendo la c.d. “risoluzione di diritto”.

Il dettato normativo recita testualmente che “Qualora non sia possibile la continuazione o il trasferimento dell'azienda o di un suo ramo o comunque sussistano manifeste ragioni economiche inerenti l'assetto dell'organizzazione del lavoro, il curatore può procede senza indugio al recesso dai relativi rapporti di lavoro subordinato”.

Tale risoluzione non potrà che essere intimata nella forma del licenziamento e dovrà necessariamente, pena la nullità, essere effettuata per iscritto.

Ma nel caso in cui, e per qualsiasi valida ragione, il curatore dalla data di apertura della liquidazione giudiziale dovesse rimanere totalmente inerte per un periodo temporale di quattro mesi (e quindi non sia subentrato nei contratti o non abbia comunicato la risoluzione), “i rapporti di lavoro subordinato che non siano già cessati si intendono risolti di diritto con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale”.

Il Legislatore ha voluto così introdurre una nuova fattispecie legale di risoluzione dei contratti di lavoro che si verifica del tutto automaticamente a seguito dell'inerzia del curatore protrattasi per un arco temporale di quattro mesi.

Tale fattispecie risulta essere molto rara nel panorama del diritto del lavoro se non per puntuali casistiche contrattuali legali (es: contratto intermittente con risoluzione ope legis al compimento del 25° anno di età nei casi di ricorso ai requisiti c.d soggettivi) o per specifiche previsioni inserite in alcuni contratti colletti (es. CCNL Poste Italiane e risoluzione del contratto al compimento dell'età pensionabile).

Sarà alquanto “curioso” osservare gli effetti futuri di tale fattispecie risolutoria dei contratti poiché la stessa non è mai stata calorosamente appoggiata né dalla giurisprudenza (cfr Cass. 29 dicembre 1999, n. 14697 o anche Cass. 21 gennaio 2015, n. 1025), né dalle Organizzazioni Sindacali stante la rigidità del nostro diritto del lavoro che annovera, quali unici mezzi di risoluzione dei rapporti di lavoro, le dimissioni o il licenziamento (salvo la c.d. risoluzione consensuale quale accordo intrapreso da ambo le parti).

Ma alla luce del nuovo dispositivo normativo, non sembrano esservi più argomentazioni plausibili – se non di tenore squisitamente costituzionale - che non possano legittimare la risoluzione di diritto di cui all'art. 189 c. 3 e c.4 quale nuova e fattiva forma di risoluzione dei contratti di lavoro subordinato.

La risoluzione di diritto di cui al comma 3 dell'art. 189 del CCI trova anche il suo possibile trattamento derogatorio.

Il successivo comma 4 del medesimo articolo permette, infatti, al curatore o al Direttore dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro del luogo ove è stata aperta la liquidazione giudiziale, qualora sussista la possibilità di ripresa o trasferimento a terzi dell'azienda o di un suo ramo, di chiedere al giudice delegato, con istanza da depositarsi presso la cancelleria del tribunale, a pena di inammissibilità, almeno quindici giorni prima della scadenza del termine di cui al comma 3, una proroga del medesimo termine.

Tale istanza può, inoltre, essere presentata personalmente o a mezzo di difensore munito di procura dallo stesso autenticata, anche dai singoli lavoratori, ma in tal caso la proroga ha effetto solo nei confronti dei lavoratori istanti; l'istanza del lavoratore deve contenere, sempre a pena di inammissibilità, elezione di domicilio o indicazione di indirizzo PEC ove ricevere le comunicazioni. In tal caso, il giudice delegato, qualora il curatore entro il termine di cui al comma 3 (quattro mesi) non abbia proceduto al subentro o al recesso, entro trenta giorni dal deposito dell'istanza ovvero, in caso di più istanze, dal deposito dell'ultima di queste, può assegnare al curatore un ulteriore termine non superiore a otto mesi (ampliando così il periodo “sospensivo” ad una durata complessiva di ben dodici mesi).

Il giudice delegato, nel definire l'eventuale ulteriore proroga, dovrà tener conto delle reali prospettive di ripresa delle attività o di trasferimento dell'azienda. Il termine così concesso decorre dalla data di deposito in cancelleria del provvedimento del giudice delegato, che è immediatamente comunicato al curatore e agli eventuali altri istanti.

Resta inteso, infine, che qualora nel termine prorogato, a cura del Giudice Delegato, il curatore non proceda al subentro o al recesso, i rapporti di lavoro subordinato che non siano già cessati, si intendono definitivamente risolti di diritto, ma sempre con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale.

In tale regime derogatorio ai lavoratori, nei cui confronti sia stata disposta la proroga, è riconosciuta un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a otto mensilità, che sarà ammessa al passivo come credito successivo all'apertura della liquidazione giudiziale (in prededuzione).

Art. 189, comma 4, D.Lgs 12 gennaio 2019, n. 14

Il curatore o il direttore dell'Ispettorato territoriale del lavoro del luogo ove è stata aperta la liquidazione giudiziale, qualora ritengano sussistenti possibilità' di ripresa o trasferimento a terzi dell'azienda o di un suo ramo, possono chiedere al giudice delegato, con istanza da depositarsi presso la cancelleria del tribunale, a pena di inammissibilità, almeno quindici giorni prima della scadenza del termine di cui al comma 3, una proroga del medesimo termine. Analoga istanza può in ogni caso essere presentata, personalmente o a mezzo di difensore munito di procura dallo stesso autenticata, anche dai singoli lavoratori, ma in tal caso la proroga ha effetto solo nei confronti dei lavoratori istanti; l'istanza del lavoratore deve contenere, sempre a pena di inammissibilità, elezione di domicilio o indicazione di indirizzo PEC ove ricevere le comunicazioni. Il giudice delegato, qualora il curatore entro il termine di cui al comma 3 non abbia proceduto al subentro o al recesso, entro trenta giorni dal deposito dell'istanza ovvero, in caso di più istanze, dal deposito dell'ultima di queste, può assegnare al curatore un termine non superiore a otto mesi per assumere le determinazioni di cui al comma 1. Il giudice delegato tiene conto, nello stabilire la misura del termine, delle prospettive di ripresa delle attività o di trasferimento dell'azienda. Il termine così concesso decorre dalla data di deposito in cancelleria del provvedimento del giudice delegato, che è immediatamente comunicato al curatore e agli eventuali altri istanti. Qualora nel termine coì' prorogato il curatore non procede al subentro o al recesso, i rapporti di lavoro subordinato che non siano già cessati, si intendono risolti di diritto, salvo quanto previsto al comma 6, con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. In tale ipotesi, a favore di ciascun lavoratore nei cui confronti è stata disposta la proroga, è riconosciuta un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a otto mensilità, che è ammessa al passivo come credito successivo all'apertura della liquidazione giudiziale.

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