Non c'è danno in re ipsa in caso di immissioni intollerabili
06 Settembre 2019
Massima
Il danno non patrimoniale, subìto in conseguenza di immissioni di rumore superiore alla normale tollerabilità, non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno risarcibile con la lesione del diritto ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi è copertura normativa. Il caso
In accoglimento della domanda di O.G., che lamentava l'esistenza di immissioni intollerabili di rumore provenienti dall'attività di revisione auto svolta da P. P. in officina frontistante alla propria abitazione, il Tribunale di Ragusa ne inibì l'esercizio, condannandolo anche al risarcimento dei danni liquidati in € 10.000. La Corte d'appello di Catania ha confermato tale decisione, regolando le spese secondo il criterio della soccombenza. P.P. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. In particolare, con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c., 2043, 2697 e 2727 c.c., per avere la Corte d'appello ritenuto la sussistenza di un danno risarcibile in re ipsa, pur in mancanza di una lesione alla salute e in assenza di alcuna prova dello stesso, anche solo presuntiva. La questione
La questione della quale è investita la Suprema Corte è se possa ritenersi sussistente un danno in re ipsa ogniqualvolta venga accertata la non tollerabilità delle immissioni. Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte, con una pronuncia ampiamente argomentata e ricca di riferimenti giurisprudenziali, dà risposta negativa al quesito. Ed invero, ponendosi in linea di continuità con la più recente giurisprudenza, la Suprema Corte osserva che il danno non può essere considerato in re ipsa, ma deve essere provato secondo la regola generale dell'art. 2697 c.c. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico (Cass. civ., 9 novembre 2018, n. 28742; Cass. civ., 29 gennaio 2018, n. 2056). È ormai generalmente riconosciuta, almeno in via di principio, l'antiteticità del concetto di danno in re ipsa — il quale, anche letteralmente, postula la coincidenza del danno risarcibile con l'evento dannoso — rispetto al sistema di responsabilità civile, fondato all'opposto sulla netta distinzione, ex artt. 1223 e 2056 c.c., tra fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, produttivo del danno e il danno stesso, da identificare nelle conseguenze pregiudizievoli di quel fatto, nella loro duplice possibile fenomenologia di «danno emergente» (danno «interno», che incide sul patrimonio già esistente del soggetto) e di «lucro cessante» (che, di quel patrimonio, è proiezione dinamica ed esterna), come tale apprezzabile sia in ambito patrimoniale che non patrimoniale. In ambito di responsabilità aquiliana ciò è definitivamente chiarito dalle già richiamate sentenze c.d. di San Martino (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, nn. 26972-26975) che, proprio con riferimento al danno non patrimoniale, evidenziano come il sistema fornisce una struttura dell'illecito «articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l'evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza)», essendo l'evento dannoso rappresentato dalla «lesione dell'interesse protetto». Pertanto, quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, «che deve essere allegato e provato»; non è accettabile la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, ovvero come danno-evento, e parimenti da disattendere è la tesi che colloca il danno appunto in re ipsa, perché così «snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo». È ben vero che la prova del pregiudizio (sofferto a causa della lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane assolta conseguente alle immissioni intollerabili) può essere fornita attraverso presunzioni. Ciò, tuttavia, è ben diverso dall'affermare che il danno da immissioni intollerabili sia da considerare in re ipsa. Ed invero, una cosa è dire che il danno è presunto (con inversione dell'onere della prova, addossandosi al danneggiante quello di provare il contrario), altra è dire che può essere provato per presunzioni. La «presunzione» del danno, in quest'ultima corretta prospettiva, è solo il risultato finale della valutazione da compiere ed equivale a dire «convincimento basato su ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ex art. 2729 cod. civ.», il quale però non può mancare e deve poter essere verificabile. Nel senso usato, invece, secondo l'orientamento qui respinto, mancando sovente ogni riferimento a tale necessario passaggio logico intermedio, esso acquista il diverso significato di mera regola di giudizio che solleva (il «presunto» danneggiato) dall'onere di fornire elementi indiziari (diversi rispetto al mero fatto lesivo) che possano giustificare quel convincimento e pone piuttosto l'onere della prova contraria a carico del «presunto» danneggiante. Mette conto al riguardo ancora soggiungere che, in mancanza di allegazione e prova di tali elementi indiziari, il riconoscimento di un danno risarcibile comporta la sovrapposizione tra danno-evento e danno-conseguenza, con il che si trasmoda dal «tradizionale danno compensativo/ripristinatorio» a quello del risarcimento con funzione punitiva in contrasto anche con l'ulteriore intervento nomofilattico di Cass. civ., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l'ordinamento ponendo però come limite l'espressa sua previsione normativa, in applicazione dell'art. 23 Cost. Ogni elemento sanzionatorio che venga a sostituire — in ultima analisi — quello risarcitorio non può, dunque, derivare da volontà del giudicante, bensì esige riserva di legge. In conclusione, la Suprema Corte enuncia il principio di diritto in base al quale il danno non patrimoniale subito in conseguenza di immissioni di rumore superiore alla normale tollerabilità non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno risarcibile con la lesione del diritto (nella specie quello al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane) ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi è copertura normativa. Ne consegue che il danneggiato è tenuto a provare di aver subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi a tal fine avvalersi anche di presunzioni gravi, precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari (da allegare e provare da parte del preteso danneggiato), diversi dal fatto in sé dell'esistenza di immissioni di rumore superiori alla normale tollerabilità.
Osservazioni
La sentenza in commento esclude, dunque, la configurabilità nel nostro ordinamento del danno in re ipsa, coincidente, cioè, con la lesione del diritto (o di altra situazione giuridica soggettiva). Tale conclusione si spiega alla luce della tradizionale funzione compensativa-ripristinatoria della nostra responsabilità civile. Essa è in linea con la più recente giurisprudenza della Suprema Corte, che, di recente, si è occupata funditus della tematica in questione, con particolare riferimento all'ipotesi di danno subito dal proprietario in caso di ritardata consegna dell'immobile. Tradizionalmente, la giurisprudenza ha, in proposito, affermato che «il danno subito dal proprietario è in re ipsa, raccordandosi al semplice fatto del ritardo nella messa a disposizione o della perdita della disponibilità del bene da parte del dominus ed all'impossibilità per costui di conseguire l'utilità di regola ricavabile dal bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso; la quantificazione del risarcimento ben può essere stabilita dal giudice sulla base di elementi presuntivi semplici, facendo riferimento al cosiddetto danno figurativo e, quindi, con riguardo al valore locativo del cespite» (Cass. civ., 16 aprile 2013, n. 9137; Cass. civ.,28 maggio 2014, n. 11992; Cass. civ., 8 maggio 2006, n. 10498; Cass. civ., 11 febbraio 2008, n. 3251; Cass. civ., 10 febbraio 2011, n. 3223). Siffatto principio, tralaticiamente ribadito ancora di recente (Cass. civ., 28 agosto 2018, n. 21239; Cass. civ., 6 agosto 2018, n. 20545; Cass. civ., 24 aprile 2018, n. 10057; Cass. civ., 19 aprile 2018, n. 9648; Cass. civ., 5 marzo 2018, n. 5050; Cass. civ., 31 gennaio 2018, n. 2364), è stato posto ad oggetto di approfondita rivisitazione da Cass. civ., 25 maggio 2018, n. 13071, che ha espresso un motivato dissenso circa la possibilità, in un contesto ermeneutico ormai consolidato (specie a seguito delle note sentenze c.d. di San Martino del 2008), di continuare a configurare un danno in re ipsa. Assai efficacemente Cass. civ., 4 dicembre 2018, n. 31233 ha posto in luce che «il rischio che si corre perpetuando l'uso della locuzione "danno in re ipsa" sta evidentemente nel favorire un corto-circuito logico che porta a sovrapporre due costruzioni concettuali in realtà profondamente diverse: da un lato, la presunzione del danno direttamente discendente, omisso medio, dal mancato godimento/disponibilità dell'immobile; dall'altro, la possibilità di provare che da tale danno-evento discenda un danno-conseguenza, quantificabile nella perdita di occasioni di vendita o sfruttamento locativo, anche per mezzo di presunzioni semplici, ex artt. 2727 e 2729 c.c., sulla base però di elementi indiziari (da allegare e provare da parte del preteso danneggiato) diversi dalla mera perduta (o ritardata) disponibilità del bene, che possano sorreggere il convincimento sia dell'esistenza di tale danno-conseguenza, sia, ovviamente, del suo collegamento causale con l'evento lesivo». Nella richiamata sentenza n. 13071/2018, la Suprema Corte, prendendo le distanze dal precedente formante giurisprudenziale, ha chiaramente evidenziato come l'insostenibilità della figura del danno in re ipsa nel nostro ordinamento discenda dall'insegnamento delle Sezioni Unite, contenute sia nelle sentenze di San Martino, sia nell'arresto n. 16601/2017. In particolare, le Sezioni Unite, nelle pronunzie del 2008, hanno sottolineato che ciò che rileva, ai fini del risarcimento, non è il danno-evento, ma il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato. Inoltre, le Sezioni Unite, con il successivo intervento del 2017, hanno chiarito che il danno punitivo è compatibile con l'ordinamento, purché sia espressamente previsto dalla legge, in applicazione dell'art. 23 Cost. ALPA, Le funzioni della responsabilità civile e i "danni punitivi": un dibattito sulle recenti sentenze della Suprema Corte di Cassazione, in Contr. e impr., 2017, 1084; GIORDANO, La prova presuntiva del danno non patrimoniale, in Ridare.it; SPERA-VENTRIGLIA, Danno alla persona, in Ridare.it; SPOTO, Risarcimento e sanzione, in Eur. e dir. priv., 2018, 489; AA.VV., I danni punitivi dopo le Sezioni unite, in Giur. it., 2018, 227; TRAPUZZANO, Risarcimento del danno patrimoniale, in Ridare.it. |